Decostruzione

5 Aprile 2011

Aprite un libro di filosofia e dopo tre passi di Hegel in epigrafe, collocati in forma triangolare, trovate un testo che occupa i tre quarti della pagina mentre il restante spazio è occupato da una colonna di testo autonoma. Il testo principale è un saggio di Jackie “Jacques” Derrida del 1972, corredato di note e illustrazioni, mentre a lato per oltre venti pagine corre come controcanto una lunga e visionaria digressione di Michel Leiris dedicata a Persefone tratta da Biffures (1948).

 

Timpano è il saggio che apre il volume Margini di Derrida (1972) ed è un manifesto programmatico che illustra le ragioni della decostruzione nel momento in cui le mette in atto: tutte le occorrenze del lemma ‘tympan’ vengono fatte risuonare, dal tympaniser (= ridicolizzare) al timpano come tamburo (che è anche timbre) e come parete dell’orecchio umano su cui il significato si inscrive nell’ascolto, fino al significato tipografico di “timpano” come telaio di legno, parte di un congegno che produce scrittura. E “timpano” è, nell’architettura del tempio greco, la superficie triangolare iscritta nella cornice del frontone, la parte superiore della facciata, ciò che “annuncia” il tempio e ne è l’ingresso.

Tutto questo, e il surplus di senso che viene generato dall’insieme, è una pratica filosofica antifilosofica che mina il territorio del logos e costringe a muoversi in esso come camminando sulle uova; essa dice come la filosofia tradizionale si sia presentata con le caratteristiche di un luogo “sacrale” che ha la pretesa di superare ogni limite e di potere fare proprio, discorsivamente, ogni forma di alterità. Decostruzione è allora il processo inverso che entra, anche topologicamente e tipograficamente, nella macchina testuale della scrittura filosofica con l’obiettivo di profanarla in nome di una asistematica e deliberata espropriazione:una insistenza interpretativa sui “margini” del testo e del suo significato che ne fa saltare i confini e le frontiere, per cogliere in fallo le pretese della filosofia mostrando l’impossibilità di giungere a conclusioni definitive e a un sapere che sia assoluto.

                            

Il successo, e anche un certo abuso, della decostruzione si lega alla vasta fortuna che l’opera di Derrida ha avuto, imitato e idolatrato come profeta di un nuovo verbo arcano e seduttivo o vituperato e ridotto a macchietta come il funambolo di una diavoleria post-moderna, astrusa e incomprensibile.Negli Stati Uniti fin dagli anni settanta il “decostruzionismo” ha travalicato gli ambienti accademici, uscendo dal dibattito filosofico per investire la cultura nel senso più ampio: è assai raro che a un filosofo, per di più contemporaneo, siano ispirati un documentario (Derrida di K. Dick e A. Z. Kofman, USA, 2002, premiato al Sundance Film Festival), un gruppo alternative-rock (i californiani Deconstruction di D. Navarro, ex Jane’s Addiction, tra 1993-4) e un film di Woody Allencome Deconstructing Harry (1997, noto in Italia come Harry a pezzi). Come è successo?

 

La parola francese déconstruction è usata da Derrida fin dal 1967 per tradurre il tedesco Destruktion e Abbau con cui Heidegger (Sein und Zeit, 1927) indica la necessità di “distruggere” i contenuti stratificati nella storia dell’ontologia per farne emergere il perduto senso originario: oltre quelle intenzioni la decostruzione diventa la pratica filosofica – più che un “metodo” – legata al pensatore franco-algerino e al suo stile personale, “un’operazione concernente la struttura o l’architettura tradizionale dei concetti fondatori dell’ontologia e della metafisica occidentale” (1987) volto a farne emergere la genesi, con particolare riguardo al ruolo del linguaggio e della sua logica.

 

Rifacendosi a Nietzsche e Freud e rileggendo la filosofia da Platone a Husserl, Derrida individua nella presenza la nozione che regge l’idea della metafisica come “fondamento” e riconosce nel logocentrismo e nel fonocentrismo i suoi correlati: la filosofia ha cioè sempre pensato il logos come sede della verità, elemento intelligibile e interiore che si contrappone alla sensibilità e all’esteriorità; allo stesso modo ha inteso la voce (phoné) con la sua attualità e vitalità come strumento della verità, contrapponendola alla scrittura, condannata dallo stigma della morte e dell’assenza di ciò che designa: così dal Fedro platonico, che con la condanna della scrittura sanciva il legame scienza-verità-logos nella parola viva. La scrittura è allora cristallizzazione e momento negativo, separata dal suo autore, presso il quale non è più, e quindi destinata a circolazione autonoma, eccedente ed aberrante.

 

 

La centralità del logo-fonocentrismo, parallela alla svalutazione della scrittura, manifesta la concezione dell’essere come pienezza, perfezione e stabilità: ma idee, sostanze e concetti non si danno mai nella loro aseità, in quanto sono il risultato di una dinamica differenziale posta alla base della costituzione della soggettività, con la quale Derrida, rileggendo la dialettica hegeliana intende portare alle estreme conseguenze lo strutturalismo. Come nel linguaggio, non esistono termini autoposizionali in quanto essi, se pur si presentano come tali, si definiscono solo attraverso rapporti di differenza reciproca: se significato e significante si manifestano sempre insieme ogni segno è “segno di  segno” che rinvia ad altri segni senza che vi possa essere approdo e riposo.

 

La scrittura dunque è il paradigma di riferimento, modello su cui pensare filosoficamente l’attività di pensiero: essa non è il vettore esterno che rappresenta e comunica contenuti interiori ma è la condizione trascendentale costituente del pensare. L’inscrizione di una traccia sensibile – scrittura che rende la mente simile alla tavoletta di cera su cui si imprime ogni “segno” nella percezione – rende possibile il senso come risultato dei processi di significazione: la necessità dell’inscrizione delle differenze è dinamica fondante di ciò che un giorno si chiamerà “significato”, “presenza”, “autocoscienza”.

 

Differanza(termine che traduce il francese différance) è il gioco delle differenze e dei rinvii, differimento continuo in cui ogni segno rimanda a un altro: condizione della concettualità poiché ogni concetto diventa tale sulla base degli scarti reciproci, in assenza di senso assoluto. La différance da luogo a un organizzazione di sistemi a partire dalla rimozione della loro legalità interna e così la metafisica tradizionale può presentarsi come origine e fondazione diventando il discorso che informa e innerva ogni istituzione: il discorso apofantico è il perno che istituisce la concezione dell’essere su cui la cultura occidentale ha eretto la propria razionalità diventando l’ovvietà del mondo e la sua naturalità; ma questo è il risultato di un processo storico “politico” prima ancora che teorico.

 

Derrida è in sintonia con la stagione culturale tra gli anni sessanta e settanta che, con la sintesi di marxismo e di antropologia, vede la semiolinguistica come scienza della (contro)cultura e strumento privilegiato della critica dell’ideologia. La sua grammatologia (“scienza del gramma”) è una delle forme più radicali di analisi del linguaggio e del pregiudizio conservatore che assume come ipostasi extrastoriche quelle che sono istituzioni culturali specifiche di una determinata organizzazione sociale: la stessa canonizzazione della cultura europea coincide con il processo di trasformazione della metafisica classica in volto necessario della verità.

 

L’“imperialismo” della filosofia occidentale opera attraverso la divaricazione tra termini che la pratica della decostruzione, analisi del movimento della differenza,mette in luce.Il linguaggio della metafisica si articola in coppie oppositive: termini come realtà e immagine, presenza e rappresentazione, autenticità e rappresentazione, originale e derivato, modello e copia, visibile e invisibile,intelligibile e sensibile, verità e errore, spirito e materia, anima e corpo, natura e cultura, bene e male, appaiono sovrapponibili alla diade voce/scrittura. Esse non sono simmetriche ma gerarchicamente situate in modo tale che un termine prevalga sull’opposto per nascondere la loro relazione, sancendo al tempo stesso l’impossibilità di una diversa declinazione del medesimo orizzonte concettuale.

 

Sembra impossibile uscire dal paradosso per cui la “scoperta” delle leggi dello spirito umano avviene attraverso una razionalità che comporta l’obliterazione della specifica forma di mitologia su cui si è costruito l’Occidente: la stessa filosofia altro non sarebbe che una mitologia che si pretende forma universale della ragione. Per Derrida l’aspetto ornamentale, metaforico e mitico del discorso filosofico si è progressivamente occultato mediante un processo di ipostatizzazione dei significanti che muove progressivamente dal verosimile al vero. Come leggiamo in Margini, “la metafisica – mitologia bianca che concentra e riflette la cultura dell’Occidente: l’uomo bianco prende la sua propria mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioè il mythos del suo idioma, per la forma universale di ciò che egli deve ancora chiamare la Ragione. [...] Mitologia bianca – la metafisica ha cancellato in se stessa la scena favolosa che l’ha prodotta e che tuttavia resta attiva, irrequieta, inscritta in inchiostro bianco, disegno invisibile e nascosto nel palinsesto”.

 

Decostruire significa allora smontare un sapere che si presenta come immediato e legittimo mostrando le opposizioni concettuali che costituiscono il linguaggio filosofico e le mancanze su cui erigono, i giudizi di valore inavvertitamente o implicitamente incorporati nei discorsi filosofici; ma la decostruzione, come si è visto, è soprattutto pratica metacognitiva di scrittura: performance intepretativa e artistica sul testo che fa esplodere il potenziale sovversivo taciuto dalle sue righe, inattingibile se non superficialmente dal linguaggio metafisico.

 

La pratica decostruttiva di ogni scritto chiama in gioco anche l’occhio, a partire dal fatto che la scrittura è grafia su spazio bianco che con il suo sparire permette l’emersione del testo fino a rendere possibile il gioco interpretativo sugli elementi non fonetici, come punteggiatura, spaziature, virgolette, corsivi, segni grafici, margini. Decostruzione è la messa in atto della differanza nella lettura dei testi, processo che inverte le logiche di codificazione testuale rovesciandone il tratto autoritario, dogmatico e gerarchico, permettendo di leggere la filosofia come letteratura e viceversa, di giocare sugli elementi testuali più marginali (opposizioni, rinvii, consonanze, somiglianze). Ogni interpretazione è così simile alla ricognizione sui resti di una civiltà ridotta in rovina da una catastrofe, che sono riempiti di nuovo senso e di una cultura sempre “altra” nella ricezione: la metafisica diventa una sorta di “inconscio teorico” all’interno del quale l’interprete-decostruzionista fa emergere il rimosso.

 

Nonostante l’azione di disturbo, la dislocazione e l’esplosione dei significanti che hanno come obiettivo polemico il sapere istituzionale, in Derrida rimane la consapevolezza che la filosofia non può superare il suo linguaggio ponendo fine a se stessa; la narratologia rigetta ogni metafisica affermando l’incapacità di uscire dal suo stesso alveo. Come la scrittura è confinata nei suoi margini, la filosofia è condannata a rimanere dentro ai suoi confini in un lungo interminabile addio.

 

Si è già detto come decostruzionismo si associ a post-strutturalismo e post-modernismo, definizioni in cui l’autore peraltro non si è mai riconosciuto. Le linee in cui l’influenza del filosofo si è articolata e ramificata sono di fatto già presenti nel suo pensiero: nella teoria dell’interpretazione in particolare gli Yale Critics hanno sottolineato il momento della ricezione, riprendendo suggestioni romantiche nel riaffermare il ruolo creativo della critica intesa come prosecuzione dell’opera. In chiave di sociologia della cultura, anche in virtù della profonda affinità con il marxismo, una molteplicità di autori ha messo in discussione l’autorità della e nella produzione culturale ad ogni livello (rapporto tra sapere e potere, politiche editoriali, ruolo autorale), permettendo l’esplosione dei cultural studies e lo studio di territori del conoscere svalutati dalla cultura “alta” (cinema, televisione, fumetti, musica pop, videogiochi, internet).

 

Nell’ambito delle scienze umane, in particolare nella storia della storiografia e nell’antropologia, il decostruzionismo rientra nella riflessione che sottolinea l’importanza del momento soggettivo e autorale rispetto a quello ingenuamente oggettivo: dichiarata impossibile ogni neutralità, l’oggetto di studi è inteso come il risultato della disciplina che se ne occupa, capace nelle sue forme di scrittura di una sovradeterminazione che può giungere sino all’“invenzione”. Analogamente la radicalità della decostruzione ha influenzato i gender studies e il pensiero post-coloniale che hanno visto in essa uno strumento per sottolineare la fluidità del concetto di “identità”: maschile e femminile così come razza, etnia, nazionalità diventano categorie inservibili e soggette a smobilitazione, mostrate nel loro essere prodotti privi di contorni netti e di peso ontologico a favore di una concezione oscillante e instabile dell’identità, irriducibile a categorie metafisiche e oggetto di continua rinegoziazione da parte dei soggetti che se ne fanno portatori.

 

Nella sua eredità la decostruzione è il coronamentodella critica alla cultura occidentale e della “violenza metafisica” di cui questa si è resa protagonista: smascherando i processi di finzione poietica che in ogni società presiedono alla costruzione delle varie forme di umanità/sapere/cultura, il lavoro di decostruzioneli rende palesi e li colloca all’interno delle vicende storiche, sociali e politiche con cui interagiscono. Con essa la crisi del cogito e della soggettività logentrica, antropocentrica ed eurocentrica è davvero completa. Il rinvio all’altro è condizione di ogni identità, irriducibile e non passibile di risoluzione hegelianamente intesa; perché solo la relazione istituisce la presunta autotrasparenza che, in quanto tale, non si dà mai.

 

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