Zeldin: l’inferno del lavoro

7 Novembre 2025

A calcare i cartelloni nazionali ed europei, con costanza e ammirevole varietà di registri, è sempre più spesso il lavoro. Già un decennio fa, in effetti, aveva iniziato a emergere come protagonista o comprimario di alcune significative creazioni, che ne delineavano la progressiva scomparsa sotto la scure delle recessioni e delle crisi finanziarie: indimenticabili, in questo senso, Ce ne andiamo per non darvi altri preoccupazioni di Deflorian/Tagliarini (2013) o L’uomo nel diluvio di Amendola/Malorni (2014), senza tralasciare l’epica parabola disegnata da Stefano Massini in Lehman Trilogy, che debuttò a Saint-Étienne nel 2013 e a Milano, per la regia di Luca Ronconi, nel gennaio 2015. Oggi, archiviate nella memoria individuale e collettiva – o forse mai superate – le esperienze dell’austerity, dello spread in costante salita, della chiusura di aziende e imprese – si parlò di 111mila fallimenti nel solo 2013 – il lavoro è soprattutto il maglio attraverso il quale un capitalismo ormai giunto al suo parossismo di ferocia schiaccia le esistenze, annichilendo gli individui in una quotidianità di soprusi, frantumandone la dignità e anche, sistematicamente, i corpi. È in scena come controllo neocoloniale e cultura della performance nel sontuoso Lacrima di Caroline Guiela Nguyen (2024); si veste di mobbing in Bidibibodibiboo di Francesco Alberici (2024); costituisce il cardine stesso della lotta, coraggiosa e utopica, portata avanti dal Collettivo di fabbrica GKN ne Il Capitale di Kepler-452 (2022); si impone, tra illusioni e disinganni, ne Il Macello emiliano di Mattioli/Donzelli (2025). Il lavoro è l’interprete principale di un teatro chesimile alla letteratura working class tra i cui modelli troviamo Joseph Ponthus e Alberto Prunetti, anche direttore del festival che da tre anni, proprio negli spazi del presidio ex GKN, di questa stessa letteratura indaga formati e prospettive – tenta di attraversare le lotte di classe contemporanee, gli antichi o sempre nuovi dispositivi dello sfruttamento, le biografie di quanti in fabbrica, nella grande distribuzione, o perfino in settori più specializzati e remunerati, subiscono abusi e ricatti. Certo, si rischia forse di accomunare dimensioni estetiche e produttive ben diverse, abbracciando in un’unica categoria drammaturgie per pochi attori e spettacoli per grandi ensemble, monologhi intimi pensati per spazi off e imponenti allestimenti per palcoscenici blasonati. Soprattutto, una tale classificazione omette lo iato tra quanti, come Ponthus o gli interpreti de Il Capitale, hanno sperimentato sulla propria pelle la vita in fabbrica, e quanti invece si avvicinano alla working class come mero orizzonte etico e tematico: ma, per citare il Walter Siti di Contro l’impegno, “fare d’ogni erba un fascio certe volte è necessario, se si vuole misurare l’effetto cumulativo di un fenomeno, l’alone o la risonanza che ogni singola opera del sottogenere proietta sulle altre”. Il fascio d’erba, qui, è la multiforme varietà di esiti e processi grazie ai quali il teatro contemporaneo sta tornando a mettere al centro della scena il lavoro, non più come miraggio da inseguire all’estero, come mitopoiesi familiare o nazionale, o come nucleo di un società ormai al collasso, quanto come campo nel quale la violenza dell’economia e del profitto agisce indisturbata, accanendosi su un nuovo stuolo di operai, cittadine, impiegati, artigiane, professionisti, forte della debolezza che la fragilità e la povertà determinano.

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Prendre soin, lo spettacolo firmato da Alexander Zeldin che ha aperto la stagione del Teatro Metastasio, costituisce in questo senso, e per più di una ragione, un formidabile caso di studio. In prima istanza, l’opera è il riallestimento di un lavoro del 2014, Beyond Caring, che il regista e drammaturgo inglese creò per il londinese Yard Theatre come primo capitolo della trilogia The Inequalities, che si sarebbe poi completata con LOVE e Faith, Hope and Charity, visti al Romaeuropa Festival rispettivamente nel 2021 e nel 2022. Già riproposto in una versione tedesca dalla Schaubühne di Berlino, Beyond Caring ha adesso debuttato nella sua edizione francese, esito di un impegno coproduttivo condiviso, tra gli altri, dallo stabile pratese e dal Théâtre National de Strasbourg (diretto da Caroline Guiela Nguyen, che non a caso ha sostenuto il progetto). Ecco che Prendre soin si rivela, come ogni re-enactment, un reperto di un passato più o meno recente, del quale osservare la persistenza estetica e l’urgenza civile, un paesaggio di fronte al quale contemplare la nostra distanza o riscoprire la prossimità. L’immagine, in questo caso, sembra essere stata dipinta oggi: è cronaca, non memoria del contemporaneo; è testimonianza in presa diretta, non archivio. Prendre soin mostrava già nel 2014, e continua a farlo anche adesso, la sconcertante normalità di un gruppo di addetti alle pulizie di una macelleria industriale, uomini e donne che il disordine delle vite, e un orrore burocratico privo di qualsiasi slancio solidaristico, ha condotto al fondo di un microcosmo professionale disumanizzante e meschino. Più di dieci anni dopo percepiamo con crescente disagio quanto sia ancora lucido quello sguardo lanciato da Zeldin verso una marginalità sociale ed economica, e forse in maniera ben più netta rispetto al decennio scorso ne avvertiamo la consonanza al tempo, l’adesione a una rinnovata sensibilità verso le condizioni materiali dell’esistenza. E tuttavia proprio lo zeitgeist rischia a tratti di diluire l’incommensurabilità dei fenomeni, come se la pervasività del dominio capitalista rendesse paragonabili le vite dei precari culturali, della scuola o dell’insegnamento, dei lavoratori a cottimo – o anche le nostre vite di critici e di artisti – a quelle del gruppo di anime tratteggiate, con un’ammirevole parsimonia di soluzioni, dalla drammaturgia di Prendre soin. Lo spazio d'azione scelto da Zeldin è un unicum, paradigmatico – non a caso abitato anche dall’operaio interinale cantato da Ponthus in Alla linea, e narrato da Federico Mattioli ne Il Macello – e metaforico: i mattatoi, le aziende di trasformazione della carne animale, i laboratori alimentari occupano, nell’arte working class, l’estrema propaggine di una mostruosa concrezione socioeconomica, e al contempo divengono territorio per possibili forme di resistenza. Ma sono anche – nel loro costituire l’avamposto di una catena, alimentare e produttiva, fondata per essenza sullo sterminio, sul massacro, sulla dissoluzione, sullo smembramento – il simbolo di una violenza irregimentata dalle normative e tecnicizzata dalle macchine, obliata nelle coscienze e tuttavia operante, sotterranea, nelle nostre civilizzate società occidentali. La macelleria industriale di Prendre Soin si impone così come il rimosso, il nascosto, l’ombra dello splendore neoliberista: un lato non a caso notturno, che i quattro protagonisti sono chiamati a ripulire, ancora e ancora, dalle macchie di atrocità.

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Sono assunti tramite agenzie interinali, per una manciata di giorni tra lunghe settimane di disoccupazione; arrivano a tarda sera, quando le macchine sono spente e si accendono soltanto le lavapavimenti industriali, ed escono in piena notte, di fretta per evitare di perdere l’ultimo autobus verso casa – sempre che abbiano una casa, e non debbano nascondersi in bagno a fine turno, confidando in un riposo di un paio d’ore. La scrittura di Zeldin ne costeggia le vite per brevi tratti, illuminandone alcuni frammenti: sono un uomo non più giovane e tre donne, differenti per età e condizione fisica, mentre un quinto appare per i pochi istanti necessari al supervisore ad allontanarlo, forse perché sprovvisto della regolare documentazione, forse perché a lui inviso. La drammaturgia procede per salti temporali, per quadri che si susseguono rapidi: ci sono protocolli da apprendere e da rispettare – quale detergente usare, con quale sequenza di gesti pulire i macchinari – e obiettivi da raggiungere, pena un ammonimento verbale per scarso rendimento; ci sono le pause da contrattare e da consumare con un pacchetto di patatine, o leggendo qualche pagina di un romanzo giallo; c’è una vita, fuori alla luce del sole, che Zeldin lascia intuire per brevi accenni, e che è popolata da figlie che non si vedono da troppi giorni o troppi anni, da indennità da conquistare, da piccoli passatempi con i quali riempire il vuoto. E c’è, soprattutto, una povertà evidente e malcelata, che ti porta a reagire con stizza quando il distributore automatico del caffè ruba l’ultima moneta da due euro; che appare nel piumino di una taglia troppo grande, preso a chissà quale svendita (gli eccellenti costumi, come la scenografia, sono di Natasha Jenkins) e con il quale proteggersi dal gelo della sera; c’è un disagio che ti convince a nascondere nella borsa i biscotti offerti dalla collega, chissà che possano placare i morsi della fame domani, o dopodomani. È un tessuto umano lacerato, pieno degli strappi che troppe umiliazioni hanno causato, scosso da silenzi ingombranti e solitudini spigolose.

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A Nassim, rigido responsabile delle operazioni di pulizia, l’autore inglese affida una delle sequenze più significative dello spettacolo: la cieca aderenza agli imperativi performanti, al rispetto fiscale degli orari e delle tabelle di rendimento, alla compilazione di assurdi e sciocchi questionari di autovalutazione, sembra malinconicamente dissolversi durante una pausa dal lavoro, quando l’uomo arringa il gruppo sull’importanza degli obiettivi di crescita personali e sulle strategie del self empowerment utili a raggiungerli. La sua voce, così galvanizzata dalla certezza nel miglioramento delle sue stesse misere condizioni, è identica a quella che Rilke ascoltò in una sala del Louvre, quel “devi cambiare la tua vita” che affida oggi a ciascuno l’onore e l’onere di farsi prodotto perfezionabile, un processo in costante sviluppo, il risultato di un’antropotecnica per un mondo turbocapitalista. Come se fosse un gioco ad armi pari, come se nel mattatoio di Prendre soin “cambiare la vita” fosse una possibilità sensata e legittima. Eppure è proprio in questo macello che Zeldin individua e lascia diffondere i sintomi di un contagio miracoloso, il germinare inarrestabile di forme di temporanea alleanza. Senza eccessi melò, ma piuttosto con asciutto rigore, Zeldin traccia le parabole di avvicinamento tra quattro persone apparentemente sconfitte ma in grado – per il tempo di una candela accesa su una torta di compleanno, di un braccio che sostiene un corpo malato, finanche di un amplesso forse squallido e tuttavia vitale – di ricucire nodi di intimità. È il prendersi cura del titolo: sorprendente perché inatteso in questo contesto, improvviso e ineffabile come il vibrare all’unisono dei cuori umani, capace di far tacere l’urlo delle diseguaglianze e del dolore. E a cementare la scrittura sono attrici e attori straordinari: Nabil Berrehil, Patrick d'Assumçao, Charline Paul, Lamya Regragui, Bilal Slimani e Juliette Speck lavorano in sottrazione, affidando a minime variazioni nel timbro, a una gestualità sempre misurata, una gamma di colori emotivi amplissima. La regia, d’altro canto, li chiude in uno spazio d’azione circoscritto, dominato da un tavolo intorno al quale si muovono le spole degli sguardi, delle complicità e delle ostilità, e da grandi porte battenti. Tutto, nella scena di Jenkins, è improntato a un iperrealismo di straordinaria efficacia – una scaffalatura colma di flaconi, un muro di piastrelle da lucidare, la luce diffusa dei neon a negare qualsiasi lacerto di buio – eppure tutto è finto, posticcio, artigianale. Ed è qui che la creazione di Alexander Zeldin risulta ancora più emblematica: ormai assuefatti alle raffinate forme del reality trend, soprattutto quando queste indagano i temi incendiari del nostro tempo, ci avviciniamo a Prendre soin misurandone il distacco dai dispositivi metateatrali, dalla sempre più frequente messa in discussione dello statuto della rappresentazione, dalla più o meno pedissequa riproposizione di biografie reali, di vite vissute traslate sul palcoscenico e interpretate da non professionisti. Prendre soin non rinuncia alle sfumature del teatro di fiction; il testo – risultato di un’indagine sul campo, condotta a stretto contatto con gruppi di addetti alle pulizie – vede nella verosimiglianza la possibile matrice di uno scarto percettivo, mentre la regia isola il proprio estro in minimi interventi: le scene sono scandite da stacchi di buio; le repentine modificazioni della disposizione degli arredi, o squarci di musica assordante, ne sanciscono il succedersi. Forse Prendre soin a tratti inciampa (ed è un peccato veniale) in una stereotipia che – affidandoci una volta ancora a Walter Siti – è in fondo nemica di qualsiasi realismo o iperrealismo: abbondano le backstory di abbandoni familiari e separazioni filiali; la madre single resa ruvida dalle circostanze cerca in realtà un contatto, un attimo di vicinanza fisica; il caporeparto è meschino e insensibile anche di fronte a disabilità fisiche evidenti. Ma la narrazione popolare e operaia di Zeldin – dura e sobria quanto un reportage, disadorna quanto un’inchiesta – smargina i confini, una volta ancora, tra la vita e il teatro: come la luce che resta accesa nella platea del Teatro Metastasio, a sancirne la contiguità con lo spazio della rappresentazione, a fugare nel chiarore di una comunità di esseri umani questa notte così lunga.

Le fotografie sono di Jean-Louis Fernandez.

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