Miguel Benasayag e Bastien Cany: la danza del risveglio

26 Dicembre 2022

Siamo come ciechi che seguono un uomo bendato verso un dirupo, come nel celebre dipinto di Bruegel, siamo una colonna smarrita verso la catastrofe. Il sottotitolo del libro appassionato e appassionante di Miguel Benasayag e Bastien Cany, Corpi viventi. Pensare e agire contro la catastrofe (Feltrinelli, 2022), coniuga azione e pensiero, aprendo allo stile sovversivo degli autori, per nulla ingenui nel loro messaggio di portata rivoluzionaria.

Come in una danza, gli autori ci guidano in una veduta aerea di tutte le trappole che ci opprimono e verso le quali non riusciamo ad opporci. Ciò che non riusciamo a vedere è che l’illusione scientista di un mondo in continua evoluzione verso la perfezione ci sta schiacciando paradossalmente verso una regressione che rischia di divenire irreversibile se non tentiamo, nella nostra limitatezza, di risvegliarci. Siamo governati da un diktat economico che ci impone un asservimento a nuove divinità: denaro, potere, progresso tecnologico. Ma senza una consapevolezza della nostra umana fragilità e senza una coltivazione della cultura e della conoscenza questa iperbole illusoria rischia di rivoltarsi contro di noi come un boomerang.

Bruegel la Parabola dei ciechi

In un momento in cui gli effetti catastrofici dell’azione umana sugli ecosistemi del pianeta sono tali che la Terra potrebbe diventare impraticabile per gli esseri umani e questa osservazione dovrebbe innescare un ripensamento radicale della nostra “guerra” contro la natura e contro la vita, ecco invece che arriva la tecnologia che ci distrae, ravvivando la promessa del controllo totale. La nostra società non vuole vedere che, lungi dal poter controllare tutto, tutto le sfugge e tutto va all’inferno, come dimostrano i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, l’inquinamento delle acque, la comparsa di nuove malattie, etc.

Come afferma il filosofo e psicoanalista Romano Màdera, siamo: “disorientati, senza senso. Questa è la diagnosi. Ma bisogna ascoltare davvero le diagnosi. Il fraintendimento dell’udito, il non sentire quello che si sta sentendo, in genere imbellettandolo, è ancor più comune dei lapsus linguae, calami, memoriae, e induce a pensare che il bisogno di rimuovere e censurare sia ben più esteso della dimensione sessuale o aggressiva e abbia, invece, a che fare nientemeno che con ‘la realtà’. Che la realtà sia il grande rimosso, censurato e spesso persino negato, e che la negazione e la denegazione, cioè la cancellazione degli eventi, non siano soltanto meccanismi di difesa tipici della psicopatologia, ma siano pervasivamente all’opera nella vita quotidiana, privata a pubblica”.

Si parla di modificare geneticamente gli esseri umani e di impedirne la morte, mentre il numero di tumori sta esplodendo come mai prima d’ora e non sappiamo nemmeno come contrastare gli effetti dannosi degli antibiotici o la comparsa di nuove malattie e germi altamente patogeni e resistenti.

Siamo di fronte a un fenomeno di negazione, in altre parole a un delirio. Ma la domanda che si pongono gli autori è: perché una tale cecità?

La risposta a questa domanda è complessa, nel testo troviamo numerosi riferimenti alla storia del pensiero occidentale come un insieme di diramazioni e di confluenze che hanno contribuito alla formazione della cultura contemporanea.

“‘La nostra casa brucia e noi guardiamo da un’altra parte’: così nel 2002 Jacques Chirac apostrofava i principali leader del pianeta riuniti al Summit della Terra di Johannesburg. Quasi vent’anni dopo, siamo costretti a constatare che la formula, per quanto ispirata fosse, non è evidentemente riuscita ad aprire gli occhi del centinaio di capi di Stato presenti in sala. Perché proprio vedere, nel senso evenemenziale e profondo della cosa, comporta sempre un’esperienza, un agire, che ci modifica radicalmente e ridispone le condizioni date” (p. 13).

Jacques Lacan aveva individuato tre tempi nella logica dell’inconscio: c’è un tempo per vedere, un tempo per comprendere e un tempo per concludere. Egli aveva messo a punto questi tre tempi logici per differenziarli dal tempo cronologico, fatto invece di urgenze, necessità, scadenze. Il tempo logico implica una scansione etica della consapevolezza. Mettersi al lavoro in un percorso analitico implica tener conto di questi tre tempi. C’è un tempo per vedere che esige la presenza di un interlocutore e si basa non solo sul vedere, ma sul voler vedere ciò che accade. C’è un tempo per comprendere, che è un tempo necessario e differente per ciascuno, per rielaborare ciò che si è visto, contestualizzarlo, comprenderne le cause e le conseguenze. Infine c’è un momento per concludere, che in analisi implica l’atto del cambiamento e dell’introdurre una discontinuità rispetto alle proprie ripetizioni nevrotiche o traumatiche. Il tempo per concludere comporta generalmente l’insorgenza dell’angoscia, perché seppur implichi il prendere le distanze da nodi di sofferenza, determina comunque la perdita di qualcosa per andare verso il nuovo. Applicato al discorso di Benasayag e Cany, il terzo tempo rende necessario decidere e agire “contro la catastrofe”, pur nel riconoscimento di quanto ciò sia difficile e perturbante. 

C’è un invito alla “rettifica soggettiva”, altra operazione nota in psicoanalisi, ovvero a prenderci la nostra parte di responsabilità rispetto al malessere che lamentiamo, perché senza questa rettifica nulla potrà mai cambiare: “Fino a quando continueremo semplicemente a indignarci per il caos attuale, rimarremo nella posizione irresponsabile di colui o colei che ritiene che le cose dovrebbero andare altrimenti” (p. 14).

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Complice della deriva alienante verso cui stiamo andando è anche il cosiddetto mondo digitale, che “produce ogni giorno quel nuovo immaginario di un ‘tutto funzionante’ che non lascia spazio all’alterità e alla conflittualità. Nelle nostre società orfane del senso del progresso, l’informatica e la robotica pervengono a ristrutturare nuove profezie di vita aumentata, finalmente liberata dalle limitazioni inscritte nei corpi e nei processi singolari del vivente. L’accesso a quell’illimitato ha però sempre un prezzo: rinunciare a esistere per diventare i nostri profili, trasparenti a noi stessi e agli altri” (p. 15). 

L’intelligenza artificiale si sta sviluppando confrontando costantemente il cervello umano al computer e suggerendo che presto lo sostituirà. Ma il cervello umano è differente dal computer che calcola in base ai dati, agli algoritmi e ai programmi che vi sono stati introdotti. L’analogia tra il computer e il cervello, secondo gli autori, non regge. La fisiologia e l’anatomia del cervello cambiano continuamente in base a ciò che sentiamo, pensiamo, percepiamo, facciamo; questo non è il caso del PC.

La seconda grande differenza è che un cervello è inseparabile da un corpo, e che essi sono situati affettivamente in un ambiente dotato di una lunga storia che va anche al di là della propria biografia. Pertanto il pensiero non può in alcun modo essere paragonato a un semplice flusso logico-informatico che circola nel software. Non si può isolare il cervello dal corpo, il corpo dal mondo, il mondo dalla vita. L’idea di emanciparci dai corpi è pertanto un’idea pazza e pericolosa. La macchina funziona, semplicemente, senza intenzionalità. Mettere a confronto macchina e corpo può avere esiti tecnofilici o tecnofobici, entrambi dannosi. La tecnologia dovrebbe essere al servizio della vita e del suo sviluppo anziché addomesticarla e modellarla. 

Ma dove vediamo all’opera l’ideologia scientista e tecnicista, che riduce gli organismi viventi alla loro unica dimensione fisico-chimica e di funzionamento? Quasi ovunque. 

Nella ricerca in biologia e in medicina per esempio, colonizzate dall’ideale di un cervello senza corpo, decontestualizzato, deterritorializzato, virtualizzato; ideale che frammenta e disloca il vivente per controllarlo meglio. Ma anche in ambito educativo, nella tendenza a considerare sempre più la testa di uno studente come un hard disk che può essere riempito secondo gli interessi economici del momento, in un’ottica di performance, mentre invece l’esperienza in ambito educativo ci dice tutt’altro: educare un bambino significa stabilire con lui un rapporto emotivo, culturale, storico.

Il bambino integra, incorpora, struttura, dà priorità alla sua conoscenza in base alla sua storia familiare e sociale unica. Da qui l’importanza del tempo, di una pluralità di ambiti di insegnamento non riducibili al solo aspetto utilitaristico e non necessariamente orientati alla performance. Tuttavia l’influenza del tecnicismo e dello scientismo si manifesta nella crescente strumentalizzazione dell’essere umano, che è sempre più un mezzo al servizio della crescita di un sistema economico e tecnico chiuso in sé stesso. L’obiettivo non è il vivente, né la cultura, né l’umano, ma il ritorno economico, la performance tecnologica, lo sbarazzarsi del corpo e della sua fragilità per raggiungere l’ideale di un uomo capace di adattarsi alle esigenze di produzione e di consumo.

Sappiamo tuttavia che una nazione che si arricchisce non è necessariamente una nazione che rende più felici i suoi abitanti o permette loro di vivere meglio. Tutto questo implica un problema serio. Come società non siamo più in grado di comprendere le singolarità degli esseri viventi, anche se ne sappiamo più che mai i meccanismi attraverso la biologia molecolare o l’imaging cerebrale.

Secondo gli autori dobbiamo pertanto invertire la dinamica che tende a schiacciare e impoverire le dimensioni qualitative proprie della vita: quelle del senso, della profondità, della complessità e della casualità. Abbiamo urgente bisogno di mettere la tecnologia e l’economia al servizio degli esseri viventi, di una temporalità non lineare o cronologica, di un amore per la cultura e per la saggezza che integri il riconoscimento della fragilità, dell’inutilità, dei limiti.

A rischio c’è ciò che sta più a cuore anche al discorso psicoanalitico: far emergere il soggetto, emancipare il soggetto da un discorso sociale che imponga una performance illimitata e che non contempli la fragilità, in quanto “è proprio una perversione della nostra epoca considerare la fragilità, quindi la vita, come un indesiderabile per il vivente” (p. 151). Proseguono gli autori: “Da questo punto di vista, la pandemia di Covid-19, rappresenta un avanzamento nella rimessa in causa dell’immaginario moderno guerriero secondo cui eravamo i soggetti di un mondo oggetto da disciplinare. Il razionalismo occidentale trionfante si è visto infliggere uno schiaffo storico che colpisce direttamente il suo zoccolo ideologico: l’uso irragionevole della ragione” (p. 257).

Le conclusioni aprono a nuovi mondi, da coltivare e da percorrere cominciando ciascuno dalla propria goccia nel mare. Ciò che diviene chiaro dopo una lettura attenta del testo è che non si tratta per Benasayag e Cany di voler essere profeti di sventura, ma nemmeno di voler dare un’unica quanto ingenua indicazione per riscattarci dal nostro tempo. Tenendo conto della complessità delle questioni aperte e di tutti i lati d’ombra insiti in ogni proposito salvifico, essi indicano vie note, lasciando la responsabilità a ciascuno di scrivere la propria traccia di dissidenza.

In linea di massima, è necessario focalizzarsi sul fatto che lo sviluppo della cultura, del pensiero e degli affetti sono obiettivi molto più desiderabili del massimo rendimento del capitale. 

Se le persone potranno sperimentare questo potere della vita, resisteranno al diktat economico. Se invece questo potere rimarrà schiacciato, rimarremo in uno stato di intorpidimento e di impotenza. La consapevolezza non basta. Le elezioni non bastano. Occorre giungere al tempo dell’atto, al momento di concludere direbbe Lacan, al fare esperienza di nuove tipologie di relazioni, di socialità, di solidarietà messe al servizio della vita, che facciano emergere i valori profondi in essa contenuti.

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