Fotografia e scultura: rimandi

17 Novembre 2024

Tra scultura e fotografia (edito da Postmedia books, 2024) si rivolge a un pubblico interessato alla storia della fotografia e alla sua relazione con le altre arti visive. Aurelio Andrighetto sottolinea come la documentazione fotografica del patrimonio museale abbia influenzato profondamente l'arte e la cultura visuale, stimolando l'utilizzo del medium fotografico in un contesto sempre più interdisciplinare. Tra il XVIII e il XIX secolo, la diffusione di riproduzioni grafiche dell'antico – gruppi scultorei, vedute, capricci, paesaggi con rovine – ha plasmato una visione prevalentemente monocromatica della scultura greco-romana. Questa percezione, inizialmente veicolata dalle incisioni, si è poi radicata nella documentazione fotografica, trovando la sua massima espressione nell'opera dei fratelli Alinari. Nonostante gli studi di Chrysostome Quatremère de Quincy avessero già evidenziato a inizio Ottocento la policromia della scultura antica, l'immaginario collettivo ha continuato a privilegiare una rappresentazione monocromatica della scultura antica, ancora oggi sfruttata dalla comunicazione pubblicitaria: la fotografia di moda in bianco e nero ha conferito ai modelli un'aura classica, evocando l'ideale di bellezza e perfezione incarnato dalle statue antiche. Anche gli artisti sono stati affascinati da questo chiaroscuro fotografico che modella le figure, creando un'illusione di plasticità. Goethe, nel suo Viaggio in Italia, descrive l'effetto suggestivo della luce delle fiaccole sulle sculture dei musei romani, un'esperienza che anticipa in qualche modo la fotografia degli Alinari, dove il reperto è isolato su fondo nero.

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F.lli Alinari, Apollo del Belvedere, prima del restauro. Stampa su carta, positivo gelatina ai sali d’argento, 44,5 x 57 cm, 1873-1880 circa. Archivi Alinari-collezione Malandrini, Firenze.

Nel primo capitolo del libro, Andrighetto ricostruisce la genesi di questo modo di vedere la scultura, analizzando il passaggio dalle arti grafiche alla fotografia. Il secondo capitolo, invece, si concentra su come questa visione si sia diffusa ad altri codici visivi e verbali, prendendo in esame soprattutto le ricerche e le opere di Medardo Rosso e Constantin Brancusi. Rosso era un maestro nel manipolare le fotografie. Tagliava, incollava, rifotografava le sue sculture, creando composizioni complesse e spesso enigmatiche. Queste immagini fotografiche non erano semplici registrazioni, ma vere e proprie opere “altre” per esplorare la materialità e la temporalità della scultura. Rosso era interessato a catturare l'essenza effimera della forma, l'impronta del gesto sulla materia. Utilizzava diverse tecniche fotografiche, dalla stampa a contatto alla riproduzione su carta lucida. Interveniva direttamente sulle stampe (tagli, graffi, collage) e creava montaggi fotografici complessi.

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Medardo Rosso, Salon d’Automne 1904. Assemblaggio fotografico, aristotipo su cartoncino rigido, 17 x 21 cm, 1904. Le scritte sui margini sono autografe di Rosso. Courtesy Paola Mola.

La fotografia era intesa come un prolungamento della scultura, un mezzo per esplorare le potenzialità espressive della materia e della luce. L'artista torinese portava anche lo sguardo cinematografico dentro la scultura, con le sue "riprese" dall'alto, che catturavano l'essenza effimera della forma. Allo stesso tempo, trasferiva la plasticità della scultura nella fotografia, manipolando le immagini con tagli, graffi e sovrapposizioni. Come afferma Paola Mola, l'artista trasferisce «l’incertezza della forma nello spessore della carta emulsionata. Sfocate, mosse, tagliate di sghembo, macchiate, ingrandite, riprese a biacca o a matita e stampate di nuovo, ridotte e ristampate ancora» (Rosso. La forma instabile, Skira, Milano 2007, p. 25). Questa sperimentazione radicale metteva in discussione il concetto stesso di medium, anticipando le ricerche dell'arte contemporanea. Rosso non aveva paura di "uccidere" la fotografia, di stravolgerla per adattarla alle sue esigenze espressive. L'immagine fotografica, per lui, non era un semplice riflesso della realtà, ma un punto di partenza per una nuova creazione artistica. L’artista lavorava spesso a memoria, partendo da un'impressione visiva o da un ricordo. Nel passaggio dalla creta alla cera la forma si trasformava, diventando più evanescente e immateriale.

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Medardo Rosso, Femme à la voilette. Stampa gelatina bromuro d’argento, particolare ingrandito, stampato, rifotografato e ristampato con viraggio su carta lucida, 22,3 x 17, 9 cm, da una fotografia d’insieme della sala Rosso alla Mostra straordinaria delle opere di Ca’ Pesaro nel Palazzo dell’Esposizione ai Giardini, Venezia 1921. Courtesy Archivio Medardo Rosso.

La fotografia, in questo processo, svolgeva un ruolo fondamentale, consentendo all'artista di catturare l'essenza fuggevole della sua creazione. Alcuni critici hanno sottolineato l'importanza della fotografia nel suo percorso artistico, sostenendo che è proprio attraverso questo medium che l'artista ha raggiunto la piena espressione della sua poetica. Altri, invece, hanno ribadito il primato della scultura, considerando la fotografia come un semplice strumento ausiliario. In realtà, è difficile separare la scultura dalla fotografia nella sua ricerca: le due discipline si intrecciano in modo indissolubile, dando vita a un linguaggio artistico unico e innovativo. L'artista, attraverso un continuo gioco di rimandi e di citazioni, crea un universo visivo complesso e sfaccettato, dove la realtà e la finzione si fondono in un'unica dimensione. La sua opera è ancora oggi viva e attuale, dopo aver influenzato nel Novecento generazioni di artisti, aprendo la strada a nuove sperimentazioni e a nuovi linguaggi espressivi. La sua capacità di coniugare la scultura e la fotografia in modo così originale e innovativo continua a stimolare la riflessione e il dibattito.

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Constantin Brancusi, vedute dell’atelier. Controtipi, fotografie di fotografie appartenenti al gruppo di immagini raccolte dal poeta Ezra Pound per la pubblicazione nella “Little Review”, 18 x 24 cm, 1921. Collezione privata.

Brancusi, invece, utilizzava la fotografia sia in modo documentario, per sottolineare la monumentalità delle sculture nella promozione della sua opera, sia in maniera sperimentale, con diversi formati e angolazioni, di modo che le fotografie non fossero semplici riproduzioni delle forme plastiche ma vere e proprie composizioni visive, dove la luce, l'ombra e lo sfondo diventavano elementi portanti per evocare qualcos’altro, che era rimasto celato dentro il mistero dell’opera. L’artista rumeno era interessato a isolare le forme essenziali delle sue sculture e a creare un dialogo tra l'opera e lo spazio circostante. Allo stesso tempo, le fotografie lo aiutavano a perfezionare le sue sculture, consentendogli di valutarne le proporzioni e le relazioni spaziali. Le sculture di Brancusi sono caratterizzate da una semplicità formale che nasconde una grande complessità concettuale. Le fotografie sono funzionali per rendere l'essenzialità delle forme e la loro capacità di evocare significati universali.

Andrighetto coglie i sottili passaggi e le relazioni mediali nel corso della storia, dove la concezione grafica e chiaroscurale della scultura ha un rapporto stretto con alcuni tratti distintivi del disegno: “È sempre a partire dal disegno che si giungerà allo sviluppo del procedimento fotografico, con il passaggio dalle macchine prospettiche a quelle fotografiche attraverso le camere ottiche, durante i vari tentativi di automatizzare il procedimento del disegno nell’incisione. Si potrebbe dire che nella visione grafica della scultura era in un certo senso già predisposta quella fotografica, tanto che uno dei vantaggi dell’illuminazione con le torce elencati da Goethe, «ogni pezzo può essere osservato di per sé, a esclusione degli altri», sembra anticipare le riproduzioni fotografiche dei fratelli Alinari, dove il reperto è isolato su fondo nero. Lo still life fotografico conserva ancora questo modo di rappresentare figure e oggetti isolati su fondo nero, bianco o colorato, conserva cioè la logica della scontornatura che una volta si eseguiva su lastra. L'operazione di scontornatura, volta a isolare la figura dallo sfondo, avveniva colorando la lastra con una macchia di vernice rossa inattinica seguendo i contorni della figura. La linea di contorno e la macchia, di cui si è detto a proposito del dilagare dell’ombra nelle incisioni, fanno parte del disegno, che in Giorgio Vasari ha la paternità delle tre arti maggiori. Per comprendere quale sia la portata di questa operazione fotografica, che ha una radice grafica, è necessario approfondire cosa sia il disegno, in una concezione dell’arte plastica e scultorea che perdurò a lungo”.

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Giovanni Scheiwiller, lastra fotografica con abbozzo di scontornatura; vernice rossa sul lato dell’emulsione e nastro adesivo nero sul lato opposto della lastra, 9 x 12 cm, 1918. La testa al centro, opera di Wildt, suocero di Scheiwiller, è il ritratto di Augusto Solari (marmo 1918) ripreso in fase di abbozzo nello studio di Corso Garibaldi. Courtesy Paola Mola.

Heinrich Wölfflin – nel suo celebre L'arte classica. Introduzione al Rinascimento italiano, a cura di Rodolfo Paoli, Firenze 1978, p. 50 – sottolinea come la percezione della scultura sia profondamente influenzata dal punto di vista dello spettatore. Nel caso della scultura greco-romana e rinascimentale, caratterizzata da una visione frontale e unitaria, lo sguardo dell'osservatore è guidato verso una "veduta principale". Questo concetto, che Wölfflin definisce "pura visibilità", è strettamente legato alla teoria della forma di Adolf Hildebrand, secondo cui la scultura può essere compresa come un'impressione di superficie. Hildebrand, nel suo trattato, approfondisce il tema del chiaroscuro, evidenziando come il contrasto tra luce e ombra sia fondamentale per definire la forma e la profondità di un'opera scultorea. Questo principio, che affonda le sue radici nella tradizione pittorica, trova una delle sue espressioni nell'opera di Rembrandt, dove il chiaroscuro diventa uno strumento espressivo di straordinaria potenza. La concezione della scultura come rilievo, ovvero come immagine che emerge da una superficie, è profondamente radicata nella tradizione artistica occidentale. Vasari, nelle sue Vite, sottolinea l'importanza del disegno come fondamento di tutte le arti visive. Il disegno, con le sue linee, le sue macchie e i suoi chiaroscuri, permette di definire la forma e di costruire lo spazio. Questa idea si ritrova anche nella pratica della scultura, dove il disegno preparatorio è fondamentale per definire le proporzioni e le masse dell'opera. Andrighetto coglie che la tecnica fotografica della scontornatura, consistente nell'isolare la figura dallo sfondo, riprende in modo evidente i principi del disegno. La linea di contorno, la macchia e il chiaroscuro sono elementi essenziali sia nel disegno sia nella fotografia. Anche l'arte della silhouette, che riproduce il profilo di un oggetto o di una persona, ha radici profonde nella storia dell'arte e si basa sul principio della proiezione dell'ombra. Il rapporto tra scultura, disegno e fotografia è quindi molto stretto. La fotografia, in particolare, ha ereditato dal disegno e dalla scultura una serie di strumenti e di concetti che le permettono di rappresentare la realtà in modo efficace. Allo stesso tempo, la fotografia ha influenzato profondamente la percezione della scultura, offrendo nuove possibilità di rappresentazione e di interpretazione.

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F.lli Alinari, Torso del Belvedere. Lastra di vetro, negativo gelatina ai sali d’argento, 21 x 27 cm, 1890 circa. Archivi Alinari, Firenze / Adolfo Wildt, Il Crociato, bronzo 1921 (primo esemplare in marmo 1906). Foto Paoletti, gelatina bromuro d’argento, 28,8 x 22,8 cm, 1921 circa. Courtesy Paola Mola.

Anche Adolfo Wildt, affascinato dalla scultura antica, trovò nella fotografia uno strumento indispensabile per approfondire la sua conoscenza. Le piccole riproduzioni fotografiche, con il loro accentuato chiaroscuro, divennero per lui una sorta di rivelazione: "solamente la fotografia, e la piccola fotografia soprattutto, dà quel senso così evidente di chiaroscuro […] è lì il segreto della mia arte… rapito alle fotografie". Questa affermazione, apparentemente paradossale, rivela una profonda riflessione sull'importanza della mediazione visiva nella percezione dell'arte. Wildt, infatti, non si limitava a copiare le fotografie, ma ne assorbiva l'essenza, traendone ispirazione per la sua produzione scultorea. La visione chiaroscurale, così marcata nelle sue opere, è un'eredità diretta di questa esperienza. L'influenza di Wildt si estende ben oltre la sua generazione. Lucio Fontana, suo allievo al primo anno del corso di scultura nel 1927 (al termine Wildt lo passò direttamente al quarto con dieci in Scultura), eredita questa passione per il chiaroscuro, per i tagli che mostrano le cavità e mutilano le figure. I Concetti spaziali di Fontana, con le loro lacerazioni e i loro buchi, sono un esempio evidente di come l'eredità di Wildt si sia trasformata e rinnovata nel corso del tempo.

Ma qual è il motivo di questo fascino per il chiaroscuro? Perché Wildt, e in seguito altri artisti, hanno privilegiato una visione così marcata e contrastata? La risposta va ricercata nella capacità del chiaroscuro di creare un'illusione di profondità e di volume, di rendere tangibile la materia e di suscitare emozioni forti nello spettatore. Il chiaroscuro, inoltre, è strettamente legato al concetto di forma. L'ombra definisce i contorni, modella le superfici e crea un senso di tridimensionalità. In questo senso, il chiaroscuro diventa uno strumento fondamentale per lo scultore, che può utilizzarlo per enfatizzare la plasticità delle sue opere e per creare un dialogo tra luce e ombra. L'opera di Wildt rappresenta un caso singolare nella storia della scultura. La sua decisione di affidarsi alla fotografia per approfondire la sua conoscenza della scultura antica ha aperto nuove prospettive e ha influenzato profondamente le generazioni successive. Il suo esempio dimostra come l'arte sia un processo continuo di scambio e di trasformazione, in cui le diverse discipline si influenzano reciprocamente.

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Aurelio Andrighetto, Sculture impossibili (Apollino mediceo, testa), 2017. Copia in gesso alabastrino con ombre stampate e dipinte affiancata a copia senza intervento chiaroscurale.

In parallelo a tutti i contenuti presenti nel libro Tra scultura e fotografia, Andrighetto ha realizzato anche una traduzione in opera plastica di tutti i rapporti mediali. In una sorta di edicola urbana al civico 4 di via Dei Mille a Monza (progetto espositivo a cura di Leonardo Denti), una copia in gesso alabastrino della testa dell’Apollino de’ Medici è sottoposta a un gioco di ombre che altera la percezione. Alcune ombre sono state fotografate e poi stampate in digitale sulla copia in gesso con un plotter verticale, altre sono state dipinte ad aerografo. Queste presenze creano un'atmosfera ambigua e sospesa, in cui i confini tra scultura, grafica e fotografia si dissolvono. Quest'opera, radicata nella riflessione sulla visione grafica e fotografica della scultura antica, invita i fruitori a un'esperienza percettiva complessa e multiforme. L'Apollo, al contempo phoibos (splendente) e loxias (oscuro), simbolo di conoscenza e bellezza, funge qui come enigma da decifrare, come fosse una sorta di oracolo contemporaneo, che ci interroga sulla natura dell'immagine e sulla nostra capacità di interpretarla. La luce, elemento costitutivo dell'opera, è manipolata e sovvertita, e genera un'illusione che mette in discussione la nostra fiducia nella realtà visiva. In questo echeggiamento di rimandi e citazioni, Andrighetto ci propone una riflessione sulla natura della percezione e del linguaggio, a guardare oltre la superficie e a scoprire i significati nascosti che si annidano dietro le apparenze presenti nella storia dell'arte e nella nostra relazione con le opere del passato.

L'opera esplora i limiti della rappresentazione e le potenzialità dell'immagine di suscitare emozioni e interrogativi. L’ambiguità percettiva aleggia al di qua e al di là della soglia di una esperienza enigmistica anziché enigmatica, come quella “birbonica” escogitata nel 1883 da Medardo Rosso, mettendo in scena un dialogo tra scultura e scrittura attraverso la fotografia (si leggano le pagine 39-48 del libro). L'enigmaticità di Apollo, come descritta da Giorgio Colli, si intreccia con l'enigmaticità percettiva dell'opera; genera un cortocircuito tra il "vedere" muto ed estatico e la necessità di tradurre in parole un'esperienza visiva così intensa. L'opera, così come il libro che la accompagna, si estende oltre i limiti fisici dello spazio espositivo, diventando essa stessa una sorta di "fotografia espansa", che invita lo spettatore a un'esperienza immersiva e coinvolgente. Il riferimento alla mostra Medardo Rosso. Cinque disegni, che ha avuto luogo dal 30 marzo al 5 maggio 2019 nello stesso spazio espositivo, ora convertito in cella, sottolinea la continuità tra passato e presente nella ricerca artistica, e ci ricorda come l'enigma della rappresentazione sia una questione che ha affascinato gli artisti da sempre. Le ombre dipinte sull'Apollo, divinità della luce e dell'oscurità, rimandano a una tradizione iconografica millenaria, che dalla Grecia classica arriva fino all'arte paleocristiana, come testimoniato dagli affreschi della chiesa di Santa Maria foris portas in Castelseprio: il fascio di rette luminose proiettate dall’ottica geometrica è presente anche nella scena dell’angelo che appare in sogno a Giuseppe, secondo il racconto dei Vangeli Apocrifi. L'ambiguità percettiva generata dalle ombre, che sembrano indicare una direzione della luce ma al tempo stesso la negano, ci riporta alla questione della rappresentazione e della sua capacità di svelare o nascondere la realtà.

In copetina, Adolfo Wildt, I Parlatori, gesso, 1907 circa. Ristampa Paoletti, gelatina bromuro d’argento, 36,4 x 24,5 cm, 1920 circa, da negativo originale Sommariva 1907 circa. Courtesy Paola Mola

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