Ghostwriters: parole senza padri

11 Marzo 2014

Nella Grecia antica si chiamavano logografi e su commissione componevano discorsi da far pronunciare ad altri. Erano esperti del parlar bene: Lisia, Demostene, Tisia e Isocrate.  Spesso i loro discorsi rappresentavano vere e proprie orazioni che i privati poi utilizzavano per la difesa personale in sede giudiziaria.

 

Oggi la categoria professionale del logografo esiste ancora? Certamente no. La difesa personale non è contemplata e le orazioni giudiziarie sono prerogativa indiscussa degli avvocati. Eppure si potrebbe credere che una qualche forma di eredità, certamente pattuita con lo stile di vita contemporaneo, ci è stata lasciata: stiamo parlando dei ghostwriters.

 

È scomparso l’etimo greco e al suo posto ne è subentrato uno anglosassone, ma l’espressione risulta ancora costruita sull’unione di due parole, la cui seconda, scrittori, permane. A far la differenza è dunque il primo termine: da discorso (logos) a fantasma (ghost). E in effetti potremmo quasi ipotizzare che l’evoluzione cui ha assistito questa professione sia da ricercarsi proprio in questo slittamento linguistico.

 

Nell’Atene del V e del IV secolo a.C. , il logografo era un mestiere riconosciuto dalla polis al punto che, su necessità, chi poteva permetterselo commissionava un discorso giudiziario a eruditi noti e risaputamente esperti di oratoria. Oggi invece non solo l’identità di questi professionisti deve essere oscura, ma sono pagati per comporre davvero di tutto: non più, o meglio non solo, discorsi di tipo politico o para-politico ma interi libri, semplici racconti, articoli scientifici, biografie e romanzi.                                             

Tutt’altro che rappresentare un fenomeno ombra e per così dire da retrobottega, in realtà, per le dimensioni sempre più importanti che sta assumendo nel panorama editoriale e letterario, appare una vera e propria moda, ad appannaggio di quanti, o impossibilitati a comporre di loro pugno o incapaci, si appoggiano a queste mani silenziose.

 

Il gioco è semplice: l’autore fantasma scrive e l’altro firma. Cosa lega le due parti? Un contratto con cui si decidono caratteristiche e compensi per il servizio. Non esiste naturalmente una scala univoca per stimare la retribuzione dello scrittore-ombra: i costi possono variare dalla lunghezza alla complessità, dal tempo impiegato alle difficoltà incontrate.

 

Tuttavia alcune agenzie di writers stanno iniziando a concordare delle cifre minime o massime, per pagina in caso di interi libri o addirittura a battuta nel caso di articoli e simili. Paesi come gli USA, il Canada e la Germania hanno già fissato un tariffario entro cui sono stabilite in termini minimi e massimi le cifre degli anticipi e delle retribuzioni nelle varie fase di bozza. Non solo. Si è già provveduto a utilizzare ghostwriters di nazioni orientali (i più gettonati sono gli indiani) per risparmiare sulla retribuzione: rispetto ai colleghi occidentali si otterrebbe un risparmio sino addirittura all’80%. Questa corsa verso est finalizzata all’outsourcing a basso costo sta ulteriormente incoraggiando  la macchina degli investimenti editoriali nel mercato degli scrittori-fantasma.

 

Fin dal 2001, il New York Times era in grado di affermare a quanto sarebbe ammontata la parcella destinata al ghostwriter incaricato di scrivere le memorie di Hillary Clinton: la cifra si aggirerebbe intorno ai 500.000 dollari, escludendo ovviamente i guadagni post-pubblicazione.

 

Infatti, nel sottoscrivere l’accordo le due parti s’impegnano a rispettare precisi vincoli: l’autore-ombra percepisce la somma fissata, garantendo di non divulgare la sua vera paternità sull’opera, e all’autore di copertina spettano i vari profitti post-pubblicazione, essendo egli, tra l’altro, il titolare del copyright.
Le contraddizioni generate da questo meccanismo sono evidenti. Innanzi tutto la questione dei diritti: pur spettando all’autore che firma tutti i diritti editoriali, vanno tuttavia attribuiti al ghostwriter i diritti morali, che sono per loro stessa natura inalienabili, come vogliono, tra l’altro, gli articoli 20 e 21 L.633/41.

 

“L'autore di un'opera anonima o pseudonima ha sempre il diritto di rivelarsi e di far riconoscere in giudizio la sua qualità di autore”: se quindi il vero autore può in qualunque momento rivendicare la sua paternità nel caso in cui terzi dicano di esserne gli autori, crolla il meccanismo stesso che regola la scrittura-fantasma. In questo caso il vero autore recede dall’accordo di non-divulgazione e s’impegna a restituire la cifra stabilita.
Non appare meno paradossale la posizione dei lettori, che credono di dover attribuire all’autore di copertina contenuto e stile della composizione, mentre non ne conosceranno mai le vere mani.

 

Un bello scacco insomma a chi credeva che la scrittura venisse da dentro, che fosse affare di pathos!
Bisogna ricredersi? L’industria della scrittura-fantasma, considerate le dimensioni che in questi ultimi anni sta assumendo, pare ci chieda di farlo!

 

Già nel 2007 Robert Harris aveva dedicato il suo romanzo thriller Il ghostwriter a questo nuovo stereotipo culturale, da cui è stato tratto il film L’uomo nell’ombra, diretto da Roman Polanski e uscito in Italia nell’aprile 2010. Quando il protagonista del romanzo accetta di comporre le memorie di un primo ministro britannico uscente è ancora ignaro delle sorti in cui era incappato il precedente ghostwriter dell’uomo politico inglese. Ma ormai i giochi son fatti e quel che sarà sarà.

 

Solo i tempi diranno se il suo ineluttabile ruolo porterà a una qualche forma di professionale autenticità o se al contrario rimarrà appeso al destino di uomo-ombra, proprio come a noi lettori oggi non resta che rimanere appesi alla dubbia paternità delle parole che leggiamo!

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