Giustizia distopica

3 Aprile 2023

Ormai non passa giorno in cui non si parli, o anche solo non si accenni, di legge e di giustizia, dei suoi valori, del suo funzionamento, delle aspettative collettive. Un gran discutere tra esperti e cittadini talora raffinato, talora anche grossolano però con una presenza particolare: assiste al dibattito, in una postazione laterale, anche un soggetto totalmente estraneo. Si tratta dello scrittore, interessato in modo spesso vivace con opere dalle modulazioni molteplici così come sono molteplici le sfaccettature dei temi giuridici. È l’ambito in cui si muovono gli studi che si occupano del rapporto tra “diritto e letteratura”, oggi anche in Italia sempre più vivo. Per questo è meritevole l’iniziativa dell’università Cattolica di Milano e del Centro Studi “Federico Stella”, che da qualche anno ha profuso energie nello sviluppare temi giuridici trattati dalla letteratura attraverso una collana specifica. Ora ha raccolto saggi ed interventi in un volume (Cattaneo, Forti, Visconti, Oltre i confini della realtà. La fantascienza e gli universi distopici della giustizia, Vita e pensiero, 2023) sulla fantascienza, un genere che, da ospite affezionato delle edicole nelle stazioni ferroviarie, ha assistito al decollo vertiginoso del suo vicino di scaffale, il romanzo giallo, senza riuscire però ad imitarne i successi. Fanno eccezioni alcune sporadiche occasioni come quella di Fruttero e Lucentini che accettarono per decenni di dirigere la collana settoriale del periodico “Urania” e compilare antologie rimaste mitiche (i quattro volumi einaudiani di “Le meraviglie del possibile”). 

Il volume in esame è denso di saggi che si soffermano anche sulla storia del genere in Francia (quello di Modanesi), sulla rappresentazione televisiva (quello di Scaglioni-Crippa), sul fenomeno seriale di Star Trek (quello di Visconti), sul dibattito femminile tra autrici di livello come Le Guin e Jemisin (quello di Baccolini), riconfermando che si tratta di una letteratura dalle modulazioni continue, ma sempre fedele all’impronta genetica. Non siamo infatti nel mondo del “fantastico”, dove la concretezza coerente della realtà si incrina per l’ingresso del soprannaturale. Non siamo nel mondo della “fiaba”, dove il mondo reale non viene eliminato con un protagonista forse spaventato ma non impotente. Non siamo neppure nel mondo del “fantasy” dove lo sfondo è occupato da un mondo organico, coerente, esterno a noi e non sacro.

Il quadro si amplia poi quando ci si immerge nell’utopia e nel suo contrario la distopia, soluzioni narrative non appiattite sul presente in quanto non esistenti nella realtà. L’utopia è un progetto di società globale, radicale, giusta e alternativa in grado di assicurare sempre ordine e serenità. La distopia, all’opposto, ipotizza una società indesiderabile, inserita in un futuro angosciante. L’utopia è un racconto di viaggio quasi iniziatico che conduce a una meta ambita e sconosciuta, partendo dalla situazione esistente. La distopia invece delinea non un viaggio, ma un personaggio che si scontra con la realtà (D503 in Noi di Zamjatin, Smith in 1984 di Orwell, Anderton in Minority Report di P. Dick), facendo emergere quanto vi restava celato. In altri termini la distopia è una sorta di utopia sottoposta ad analisi critica. Ultimamente si è prospettato un nuovo modo di far rivivere queste speculazioni attraverso la letteratura “weird” la quale enfatizza lo strano, l’inquietante, il perturbante da cui traspare un’alternativa in grado di reinventare il mondo (Carrara, Per una letteratura schizofrenica in questa rivista). 

Esistono comunque tra l’utopia e la distopia alcuni elementi di convergenza. Innanzitutto le storie non descrivono con rigore scientifico le società ideali, ma le storicizzano mostrando come subiscano l’interferenza delle pulsioni, delle emozioni, dei desideri a fronte di bisogni radicali. 

Inoltre è presente una distanza, che si può definire elastica, tra lo spazio reale e quello nuovo. La rappresentazione infatti di quanto potrebbe accadere è in relazione con il presente, per cui le distanze variano e il lettore di ieri può aver trovato avveniristico quanto il lettore di oggi vive come prossimo alla realtà.

Ed ancora entrambe spronano a mutare l’esistente, lanciano un grido di allarme, mettono in guardia dagli incubi del presente, cercano di allontanarsi da una situazione dolorosa amplificando le tendenze negative della realtà. A dire il vero non tutti la pensano in questo modo. Adorno ad esempio ritiene che la società sia incapace di utopia perché congela i propositi di sviluppo. Essendosi verificata la fine della storia, con lei il processo si ferma avendo costruito il sistema perfetto (Prismi, Einaudi, 2018).

Un ruolo cruciale gioca la paura. La fantascienza, in generale, è una microstoria sulle patologie e le inquietudini contemporanee e pone in prima fila il fantasma dell’ignoto. A dire il vero potrebbe sembrare che l’utopia, immersa nel sogno, tenda a cacciare la paura per non turbare l’equilibrio tra il benessere collettivo e la felicità individuale. In realtà è stato osservato (Ceretta, Utopia e distopia di fronte a una passione antica, Governare la paura, 2016) che l’utopia esalta la specificità dell’autore con le sue paure e i suoi timori. Essa intrattiene così con la paura un rapporto profondo nonostante cerchi di esorcizzarla.

La distopia compie un’operazione rovesciata. Anch’essa descrive mondi inesistenti rispetto a quelli in cui si vive, segnala le tendenze spaventose nella società, rende espliciti gli orrori e le mostruosità. Nella sostanza avverte l’esistenza della violenza e degli abusi che impediscono una riforma sociale e una strategia di contrasto. Ovunque giganteggia la paura, “quella diffusa, sparsa… fluttuante, priva di una causa chiara” di cui parla Bauman (Paura liquida, Laterza 2008). Di qui la considerazione che la distopia è parte integrante della tradizione utopistica perché poggia sullo stesso piedestallo, costruito sulla denuncia morale e politica di una realtà vissuta come disumana ed oppressiva. 

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Ultimamente si riflette sul ruolo del pessimismo verso l’ignoto, anche sotto la pressione anche dell’emergenza climatica. Si osserva (Guglieri e Sauza) che la distopia oggi è l’unico realismo possibile per il nostro congenito pessimismo, motivato dalla tensione verso la fuga di un’umanità che così agendo è consapevole del rischio della sua eliminazione. Il mondo sembra trascinarsi nell’indifferenza collettiva verso una prossima fine. Ma la domanda è: perché l’uomo pare aspirare all’estinzione? Forse l’azione umana così verrebbe punita con disgrazie che vengono rovesciate sulla terra? Risposte difficili, ma tema aperto come dimostra la serie televisiva trasmessa in questi mesi “The Last of us”. È un racconto distopico sull’umanità distrutta da un fungo che attacca e prolifera negli esseri umani a causa del cambiamento climatico, trasformandoli in zombi. 

Come evidenzia il volume in esame, l’approccio distopico si sviluppa principalmente sulla direttrice politica e centrata sul potere. L’esordio del 900 presenta nuove complessità anche per la crisi dei tradizionali sistemi conoscitivi. Muore Nietzsche, Freud pubblica le sue ricerche, gli scienziati tedeschi propugnano il principio d’indeterminazione, James e Bergson avvolgono l’individuo nel flusso della coscienza. La scienza, da fiduciaria del progresso umano, diviene un cavallo imbizzarrito e indomabile prefigurando con vertigine scenari apocalittici. Le distopie sono così alimentate dai disastri dei totalitarismi, dalla sfiducia nei sistemi vigenti, dagli incubi atomici, dalla ricerca di piaceri artificiali, dall’opposizione dei blocchi, dalla scoperta dei lager…

Uno dei capostipiti è Orwell, cui il volume dedica svariati contributi nel secondo capitolo. Con “La fattoria degli animali” del 1947 e “1984” del 1949 egli offre una spietata riflessione sul potere, sulla persona annientata e sul bisogno di protezione e di sicurezza. Di qui l’anelito di libertà che viene presentato come connaturato all’uomo, depurato da conflitti interiori. E questo a differenza di Kallocaina del 1940 (riproposto ora da Iperborea), in cui l’autrice Karin Boye indaga sulla possibilità che chi cerca la libertà possa anche respingerla, accettando di subire il dominio di altri. 

Il panorama degli autori è invero ricco e il saggio opera una necessaria selezione rievocando Rand, Dick, Huxley cui potrebbero aggiungersi Gunther Anders, Jack London, Kurt Vonnegut, Stanislaw Lem o tanti altri ora radunati in un prezioso volume antologico (Sommariva, Oltre le ombre del futuro, Malamente, Urbino, 2023). Per non parlare della serie di animazione “Death note” di Tsugumi Oba con Light Kira che ferocemente esercita il male per estirparlo. Come osserva P. Dick, “questo sistema è un’immensa camera della tortura dove le persone si scrutano a vicenda cercando di eliminarsi l’un l’altro. Paura e censura, libri messi all’indice. Il risanamento morale, Rimor, è stato inventato da menti malate e genera altre menti malate” (Redenzione immorale, Fanucci 2011). 

Un altro versante è quello rappresentato dallo strapotere tecnologico nel rapporto dell’uomo con le macchine e alle valutazioni conseguenti, favorevoli (ad esempio il Wells di La macchina del tempo) o contrarie (ad esempio Forster, La macchina si ferma). Si entra così nel mondo degli iper-oggetti che sfuggono al controllo umano, oppure dell’uomo divenuto macchina come il robot che imita la natura, oppure come il cyborg che vuole modificarla. 

Al robot il volume dedica ampio spazio, in particolare con contributi su Asimov (Rinoldi e Pagetti) e, come accennato in precedenza, sulla serie Star Treck. E comprensibilmente, perché oggi gli spazi si sono accorciati e le realtà meccaniche non sono più messaggi avveniristici. Il robot è caratterizzato da un grado di autonomia e da una capacità di apprendimento che rendono possibile una duplice direzione all’evoluzione. Può essere quella di tipo umanoide, cioè di renderlo simile all’uomo oppure quella di contrapporsi all’uomo. In ogni modo è il preludio di una confusione tra l’umano e l’artificiale, ancor più vistosa nel cyborg, cioè nelle creature ibridate che presentano la sostituzione di parti sempre più complesse del corpo umano. Al fine estremo si trova l’uomo artificiale, in cui la sostituzione di parti è stata determinata anche dalla deteriorabilità del corpo umano. E a questo punto si pone un problema: fino a quando un essere si può chiamare persona con la corrispondente dignità? Per farla semplice: i veri pezzi sostituiti nel corpo conducono al livello dell’uomo, oppure gli umani si degradano a livello delle macchine? È il problema della soggettività collegata alla tecnologia, chiamata da Asimov acutamente come “complesso di Frankestein”, cioè l’immaginare l’uomo artificiale solo come maschera alienata e un pericolo quando se ne perde il controllo o raggiunge un’autonomia di decisione. Non possono mancare dall’approfondimento su questi aspetti gli interventi della Le Guin (Nove vite, Nord, Milano, 1979) con i cloni che dichiarano di voler provare sentimenti e di voler sopravvivere, oppure quelli di Walter Tevis (Futuro in trance, Urania 1983) con l’ex ingegnere Spofforth divenuto corpo artificiale programmato di stare in vita contro la sua volontà. Per non tralasciare l’onnipresente P. Dick secondo cui il “mondo delle macchine…prima o dopo sarà dotato di animazione, analogamente al nostro mondo” (L’androide e l’umano. Mutazioni, Feltrinelli 1997). Comunque si prefigura un mondo sempre meno “puro” dove nuovi soggetti stanno rivendicando la loro presenza, dagli androidi ai robot, ai cyborg, ai centauri di Primo Levi.

E la giustizia? La fantascienza vi assegna poco spazio anche perché, nota Pagetti nel suo saggio, la distopia nel trattare il potere tende ad abolire le leggi che considera imposizioni, prescrive regole da osservare e non da discutere (p.160). Esistono però contributi da non dimenticare, come ricorda il volume a proposito di Un’arancia a orologeria di Burgess in cui si affronta, come noto, anche il problema del libero arbitrio. 

Analoga sorte riduttiva si ha per l’aspetto giudiziario, cioè la gestione ed applicazione delle regole da parte dei giudici, tanto che il volume cita il solo Charpentier di “Justice Machines”, analizzato da Donati. I giudici, la loro parola che trasforma i rapporti giuridici con i semplici “condanno” o “assolvo”, le garanzie per i cittadini sottese all’ingranaggio processuale destano un fievole interesse. La domanda spontanea è: perché questo? Una risposta immediata potrebbe essere il desiderio antico di una libertà senza confini, totale, dove uccidere, rubare, prevaricare siano atti possibili, senza conseguenze. Un’altra risposta, più mediata e forse vincente, è quella opposta: la società vuole essere soprattutto sicura, senza l’ansia di imbattersi in un pericolo dietro le porte. E si raggiunge questo risultato con un controllo pervasivo, con la sorveglianza effettuata con mirabolanti scoperte scientifiche, con le divinazioni degli aruspici di Minority Report, con la pace collettiva conquistata senza sottilizzare sui mezzi. Domina così la necessità di colpire chi può delinquere senza le pastoie del diritto, senza processo, senza garanzie, senza ricorsi. Lo Stato si propone dominante, invasivo e invadente, e la tutela collettiva diviene sicurezza nazionale. Il crimine si è fermato davanti ai battenti dell’aula di tribunale.  

Si potrebbe auspicare un prossimo libro nutrito di questo genere dal volto multiforme, cercando autori che si sono occupati con l’intuito dell’anticipazione dell’ingresso nelle aule processuali degli algoritmi. Un volto nuovo della giustizia, probabilmente molto prossimo.

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