Guardami, ti prego: stati di sorveglianza

23 Novembre 2022

Il problema non è quello di essere sempre sotto il gelido sguardo di una telecamera di video-sorveglianza, il problema è di non esserlo abbastanza. La richiesta non è “non mi guardare”, al contrario, l’appello è piuttosto “ti prego, guardami”. È questo probabilmente l’aspetto che più disturba, e sicuramente al di là delle loro stesse intenzioni, del libro di Josh Chin e Liza Lin, il distopico Stato di sorveglianza. La via cinese verso una nuova era del controllo sociale (Bollati Boringhieri, 2022). In effetti non sorprende affatto scoprire che governi e polizie, e non solo di paesi non democratici come la Cina, facciano un uso sempre più massiccio e invadente di sistemi di video-sorveglianza digitale, ma che un numero enorme e probabilmente crescente di persone si senta rassicurata dal fatto di sentirsi costantemente sorvegliato.

Prendiamo il caso della Cina, oggetto principale del libro: “dall’inizio del 2020 quasi 350 milioni di telecamere registrano il viavai dei cinesi per le strade, le piazze pubbliche, nelle stazioni della metropolitana e all’interno degli edifici commerciali. Oltre 840 milioni di telefoni cellulari che viaggiano nelle borsette e nella tasche dei cittadini inviano agli operatori un flusso costante di dati di localizzazione. I sistemi di pagamento online caricano milioni di transazioni al giorno su banche dati che offrono, con una capacità di dettaglio mozzafiato, ritratti costantemente aggiornati dell’attività umana” (p. 17). Si dirà, in Cina non si può fare altrimenti, non c’è modo per sfuggire a questo controllo, se non mettendo a rischio la propria esistenza.

La Cina non è una nazione libera, il partito comunista non ha alcuna preoccupazione per i diritti civili della sua popolazione, e ancora di meno ne ha per le minoranze etniche come ad esempio quella uigura. Eppure questo non basta a spiegare – o almeno non è l’unica spiegazione – perché un sistema di queste proporzioni possa essere stato accettato senza particolare opposizione dalla maggioranza della popolazione cinese (a parte il caso, appunto, delle minoranze oppresse e degli oppositori al regime). 

Si prenda il caso, descritto nel capitolo intitolato “Ridefinizione della privacy”, dell’artista cinese Xu Bing, l’autore del film, costruito montando spezzoni di sequenze di riprese di video-camere di sorveglianza, Dragonfly Eyes. Per preparare il film l’artista ha cercato per tutta la Cina le persone riprese per avere da loro l’autorizzazione a usare le immagini che li riguardavano: ovviamente “Xu temeva che [queste persone] potessero sentirsi usurpate, e che rifiutassero di firmare.

Quasi tutti, invece, avevano accordato il consenso” (p. 220). Con sua grande sorpresa, allora, si accorge che la sua preoccupazione era del tutto infondata: “parlando con la gente che incontrava, si era persuaso che la privacy, in Cina, fosse più un affare dei ricchi e dei più istruiti. Gli altri abitanti del paese erano troppo occupati a cercare di sbarcare il lunario, per permettersi quel lusso. Inoltre la proliferazione delle telecamere, non solo in pubblico ma nelle case e anche nelle tasche delle persone, aveva reso l’atto di guardare e di essere guardati un gesto normale della vita” (pp. 220-221).

Ne deriva un’ipotesi diversa, e decisamente perturbante, del perché un sistema di sorveglianza sociale così opprimente possa essere accettato senza troppi problemi: non (solo e non principalmente) perché non si possa fare altrimenti, ma perché in fondo a molte persone quel sistema non dispiace. “Questa riflessione”, proseguono meravigliati Chin e Lin, aiuta Xu “a spiegarsi come le autorità cinesi fossero riuscite a installare milioni di telecamere agli angoli delle strade senza che nessuno si opponesse” (p. 221).

Eppure il sistema è davvero spietato, e non nasconde che ha la funzione esplicita non tanto di garantire la pubblica sicurezza quanto quella di stroncare sul nascere ogni forma di resistenza al regime. La rete sempre più capillare di dispositivi di controllo digitale delle persone – sistemi di video-sorveglianza, microfoni ambientali, riconoscimento facciale, geo-tracciamento della posizione, controllo dell’attività sui social media – permette al partito di esercitare un potere sulle persone che non sembra conoscere limiti: “nuovi algoritmi alimentati da montagne di dati”, infatti, permettono di “setacciare i messaggi di milioni di utenti, e denunciare automaticamente chiunque superi la linea rossa stabilita dal Partito” (p. 105). Non sfugge niente. Ma non è forse questo che vogliono in tanti, anche a loro insaputa, proprio che non sfugga nulla, che tutto sia sotto controllo?

Non si tratta, appunto, di rintracciare e arrestare gli autori di eventuali reati, piuttosto l’obiettivo è neutralizzare le minacce prima che insorgano. Una vita senza pericoli, una vita regolare, tranquilla. Prendiamo il caso della città di Hangzhou, sul fiume Qiantang, a sud di Shangai: “per sciogliere i leggendari ingorghi del traffico di Hangzhou, Alibaba ha progettato un sistema che elabora in tempo reale i dati delle videocamere installate ai crocevia e quelle delle localizzazioni GPS, consentendo alle autorità del traffico di ottimizzare i segnali stradali e ridurre le congestioni sulle vecchie reti viarie.

m

Gli altri prodotti e le altre piattaforme di Alibaba aiutano i residenti a pagare le bollette, a prendere l’autobus, a ottenere un prestito, e persino a citare in giudizio le aziende locali davanti a un tribunale online” (p. 128). Così come i fautori della medicina preventiva vogliono curare i sani per impedire che si ammalino, così questa polizia preventiva cerca di impedire, attraverso uno spionaggio sociale generalizzato, che i reati possano accadere. Il sogno di ogni poliziotto si avvera, poter arrestare il delinquente prima ancora che possa delinquere. Esemplare il caso della cosiddetta “chengguan”, una sorta di polizia semi-ufficiale “responsabile dell’applicazione delle norme che regolano la quotidiana gestione cittadina” (p. 130): 

Ogni volta che le telecamere del City Eye [siamo sempre a Hangzhou] individuano una potenziale violazione – un’auto in divieto di sosta o un cumulo di pacchi in consegna che blocca il marciapiede – il chengguan e il gestore dell’area ricevono una notifica sulla loro applicazione. I gestori poi usano WeChat per trovare l’autore del reato e segnalarlo.

Nei casi in cui il gestore non riesca a persuadere la persona a risolvere il problema, viene coinvolto il chengguan. Il sistema si basa anche sulla pubblica umiliazione. Una volta alla settimana il chengguan raccoglie i dati sulle violazioni avvenute in ciascuna delle nove aree residenziali del distretto, e le pubblica su un profilo pubblico di WeChat dove chiunque può vederle. Sotto la tabella dei dati, la squadra inserisce un elenco delle violazioni più comuni di ogni area […] e i fotogrammi dei video di sorveglianza delle aree più problematiche, con dei quadratini rossi che segnalano ogni caso di comportamento illegale (p. 133).

Collegato a questo progetto c’è quello, ancora più invasivo, del cosiddetto Credito sociale, che calcola “il punteggio di una persona”, che ad esempio gli permette di accedere a una serie servizi particolari e al credito bancario, “basandosi sulla sua obbedienza politica, sui suoi hobby, sul suo stile di vita e sul comportamento dei suoi amici” (p. 236). L’idea è semplice e terribile: siccome è finalmente possibile controllare ogni aspetto della vita di una persona, diventa praticabile – attraverso un meccanismo automatico che “offre ricompense concrete e punizioni concrete” (p. 238) – assegnare sulla base di questi dati ad ognuno un punteggio sociale, in modo da rendere finalmente “più efficiente il processo di costruzione morale” della società.

Per quanto un meccanismo del genere possa sembrare orribile, forse non è il caso di essere troppo ottimisti: siamo così sicuri che non ci siano molti – forse tantissimi – che sotto questo onnipresente occhio digitale si sentirebbero più sicuri e che quindi lo accetterebbero di buon grado? Si pensi al terribile e meschino adagio secondo cui chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere; per una persona che si ispiri a questo ideale chi invece abbia qualcosa da nascondere, cioè uno spazio di vita affatto privato e nascosto, è potenzialmente un delinquente.

Una persona del genere sarebbe probabilmente contenta di vivere in un mondo retto dal principio poliziesco del Credito sociale. Basta pensare a chi, durante la pandemia, insultava dalle finestre chi, da solo, camminava per strada senza costituire un pericolo per nessuno, o ancora alla facilità con cui la stragrande maggioranza della popolazione ha accettato il dispositivo di controllo medico-sociale del Green Pass. 

Da questo punto di vista il caso della Cina diventa, forse, meno eccezionale di quanto non pensino gli autori di Stato di sorveglianza. In Cina, piuttosto, possiamo vedere in modo esplicito e senza ipocrisia qual è la logica terribile dello sguardo del potere, uno sguardo che non può non essere intrusivo e spietato, uno sguardo che non ammette nessuna zona d’ombra. Uno sguardo che deve poter vedere tutto. Ma si tratta di una tentazione che non è solo cinese, sarebbe da ingenui o illusi pensare altrimenti.

Non solo perché non sono soltanto le nazioni non democratiche a usare sistemi sempre più invasivi di controllo digitale della vita degli esseri umani, ma soprattutto perché c’è un numero enorme di persone, un numero forse progressivamente crescente, che desidera essere controllato. La domanda che potremmo porci è perché abbiamo questo bisogno di essere guardati. Il potere non sarebbe così potente se non incontrasse il nostro stesso desiderio di essere controllati.

Si coglie così perché il tema del controllo sociale digitale sia così inquietante e difficile anche solo da pensare: non solo, e non tanto, perché rischia di invadere e annullare ogni residuo spazio di intimità e di riservatezza delle nostre vite, uno spazio sempre più minacciato dall’intrusività dei social media e dai dispositivi economico-polizieschi che tengono traccia di ogni nostra azione e pensiero.

Una intrusività, peraltro, favorita dagli stessi utenti dei social media, che contribuiscono attivamente a rendere pubblico ogni momento delle proprie esistenze. Il punto, in effetti, è esattamente questo. Perché dovrebbe preoccuparsi di una videocamera di sorveglianza qualcuno che, di fatto, non fa che video-sorvegliarsi da solo, esponendosi volontariamente allo sguardo onnipresente dei social media? Se io per primo non faccio che spiare la mia stessa vita, perché dovrei preoccuparmi se a spiarmi è una video-camera di sorveglianza? 

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO