Speciale

Zavattini racconta... / I pensieri di Totò

25 Febbraio 2017

 

Nelle prime ore del 15 aprile 1967, moriva improvvisamente il principe Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio, in arte Totò. Da quella notte sono passati cinquant'anni, ma la sua figura è più viva che mai nell'immaginario collettivo. Affrontarla significa raccontare una porzione consistente della cultura nazionale, sia “bassa” che “alta”, dal ventennio fascista ai prodromi del '68; ma significa anche, dietro le risate, domandarsi quanto sia ancora in grado di parlare a noi (ma soprattutto di noi), spettatori italiani d'oggi. In occasione di questo anniversario, Doppiozero ha deciso di dedicare a Totò uno speciale in più parti, nel quale le testimonianze d'epoca verranno affiancate alle parole dei nostri collaboratori, ciascuno alle prese con una sequenza, un'immagine o una battuta tratte dagli oltre novanta film interpretati dal grande comico napoletano. Per restituire un ritratto a più voci di un artista rivelatosi, nell'arco di mezzo secolo, davvero inesauribile. Come ogni vero classico.

 

Fotogramma da “San Giovanni decollato” (1940), sceneggiato da Cesare Zavattini. 

 

Cercherò di riferire con la massima precisione i discorsi ed i pensieri di questo grande mimo napoletano da me registrati in casa sua, Viale Parioli, 41, la sera del 19 agosto. Totò aveva un bellissimo vestito color tortora, le gambe secche e pelose su un tavolino intarsiato. Dietro la sua testa, il quadro di un trisavolo dal volto aguzzo; mi ricorda Cesare Beccaria tra i ritratti degli allievi illustri sulle pareti dei corridoi nel collegio ducale di Parma. Totò ama la casa e i suoi oggetti come un bambino: gli ho visto con questi miei occhi lucidare un vassoio d'argento dopo aver fatto servire agli ospiti calici di maccarese; e per un buco nel tappeto causato da una sigaretta – credo di essere stato io – si rannicchiò nella poltrona come una statuina di Gemito.

 

Non voglio essere indiscreto, ma una giornata presso questo marchese quarantenne si presenta con i tagli arditi di una commedia. Tutta la sua vita privata conferma come egli sia uno scrittore traviato, un diarista mancato: la cosa più interessante e commovente del mondo per Totò è proprio il sangue blu Antonio de Curtis, ed egli soffrirà sempre di non poterne raccontare la biografia segreta. Sul palcoscenico continua "più forte" gli atti quotidiani. Ecco la spiegazione delle rare risonanze del suo movimento: qualche cosa molto più sangue e memoria della comune definizione: le mosse di Totò.

 

Totò tende verso un mondo preciso: talmente chiaro in lui che non sente i pericoli del suo carattere. La materia favolosa del suo gesticolare diventerà serie di immagini classiche solo se accentua quel rigore che in La camera affittata a tre è dovuto al tempo, come somma di riflessioni. Con uno sforzo, egli può arrivare al teatro nel senso di creazione totale: dove l'attore segua l'autore

 

Il suo "moderno" sta per valicare l'aneddoto e agganciarsi solamente ai motivi prediletti della sua vera immaginazione: non all'autore dunque rivolgiamo il discorso, ma all'attore. L'attore è immobile, non gli domandiamo altro (e non commettiamo certo l'errore di esigere da lui dei mutamenti, o l'abbandono di alcuni suoi tipici atti, sarebbe come stancarsi della propria voce), va magnificamente bene com'è (e neanche il diavolo per fortuna riuscirebbe a cambiare un gesto); tutto il lavoro deve essere fatto dalla parte dell'autore. E che qualche cosa di importante – la sua crisi – stia avvenendo mi pare comprensibile anche dai seguenti appunti. 

 

Riferisco le sue parole. Se ne aggiungo qualcuna, se completo o chiarisco, lo faccio sempre nell'ordine rigoroso delle intenzioni di Totò. 

 

Leggo poco. Ma ho sempre il rimorso di leggere poco. Spero che equivalga all'avere letto un poco di più. 

Qualche volta penso di abbandonare il varietà per il teatro. Non significa nel mio caso sottovalutare il primo rispetto al secondo, poiché lo stesso varietà con il repertorio che sogno diventa automaticamente teatro. Riassumiamo: scrivere una commedia con il coraggio del varietà (es. Sei personaggi in cerca d'autore, La piccola città. Questa affermazione può far inorridire, ma provate a pensare a Petrolini con il genio di Pirandello). 

Adopero spesso le parole surreale e metafisico. Qualche amico mi ha messo in guardia, sono un po' troppo adoperate e vaghe. Io non arrossisco nel dirle, per me vogliono dire fantasticare come lo avrei detto a dieci anni. Credo che i cartoni animati siano surreali e metafisici nel mio senso un po' ingenuo: per questo vorrei essere, come maximum, il protagonista di un cartone animato. Anche perché vorrei parlare pochissimo. Ridere, esclamare; io rido in due modi, e proprio da cartone animato. Questa mia preferenza dovrebbe far capire l'urgenza di una regìa che doni al palcoscenico dimensioni sbalorditive.

 

Anche alcune riviste me le scrivo io. Ma talvolta c'è tra le cose che penso e la loro espressione un velo: In Tarzan, quando entro in scena con la camicia bianca e le alette vorrei veramente volare intorno a Lucifero come una farfalla. Invece un lazzo mi tiene incollato sul palcoscenico. Nessuno si accorge che certe sere io combatto una battaglia violentissima: Totò contro il suo repertorio. Sono momenti nei quali mi sembra di soffocare e allora mi vedete spiccare un salto straordinario - vi assicuro straordinario - e tento di arrampicarmi su per il sipario. Reagisco alla consuetudine della recitazione. Direi che è un fatto fisico. Vorrei persino precipitarmi nella voragine della platea e correre sulle teste degli spettatori. 

 

Qualcuno ha scritto che io sono un'ameba. Giusto se si pensa che il fluttuare della forma sia il desiderio di essere sempre diverso. Vista l'impossibilità di identificarsi stabilmente subentra l'ansiosa ricerca della cosa o dell'essere che più ci somiglia. O una marionetta o un uccello. Mettete un po' insieme queste due metamorfosi!

La mia non è una situazione originale, ho intuito che anche i mie simili nascostamente si trasformano con il pensiero – quante volte al giorno! – in un albero, in un gatto, in una lucertola. Io sento nelle vene le parentele più remote, per questo un illustratore mi accontenterebbe cambiandomi di colpo con un braccio in un giglio, un occhio in un ranocchio, e petali di girasole per capelli. Vedete quella piccola mensola? La mia Danza del cigno che è un pezzo riuscito, mi sembra, nacque guardando quella mensola. Avevo sempre una grande voglia di volare lassù, di appollaiarmici tra lo stupore dei miei familiari. 

 

Il movimento! Il bisogno di rompere oggetti. Vorrei che mi scrivessero un atto durante il quale io non faccio che rompere tazze, bicchieri, vasi e mobili. Il fracasso si compone in musica. Contemporaneamente dovrebbero scoppiare fuochi artificiali, la camera riempirsi di fumo. La mia infanzia è tutto un fuoco artificiale; sento ancora l'odore della polvere pirica. 

 

Conosco l'umorismo odierno più nei settimanali che nei libri. Mi pare di essere esattamente dentro al mio secolo. Altri comici risolvono brillantemente il lato dialettico, io tendo alle figure. Tra una battuta e la mia spada che si allunga, si allunga tenendo così a debita distanza l'avversario, io mi commuovo per la strada (e invidio la battuta). 

A proposito di commozione, io non sono un sentimentale. I miei simili mi interessano per quanto essi non appaiono. Una bolla di sapone diventata di vetro – e io ci metto dentro un pesciolino rosso preso nel vuoto – mi commuove veramente. A ogni modo ho la coscienza tranquilla, poiché anche le bolle di sapone sono creature di Dio. 

 

Il 1940 è un anno capitale per la mia vita artistica: ho cominciato a capire di essere pigro. Sono le prime occasioni che cerco di descrivermi. Una volta dicevo: io beffo la vita. Definizione barocca e adatta a troppa gente. Ora mi sono accorto che io amo la vita: il desiderio di comunicare con tutte le cose. Sarò meno pigro nel concepire lo spettacolo: che è la vita fermata con la fatica nei momenti a noi congeniali. 

Amo le donne, dicono tutti. È vero, come un'arancia quando si ha sete. «Mi hanno rubato la mia arancia». Che disperazione, pianti, grida. 

Amo profondamente mia figlia. Questo può parere in contrasto con qualche affermazione di prima: ma non siamo d'accordo che la vita è veramente misteriosa? 

 

Press'a poco tutto questo ha detto Totò. Siamo scesi insieme dallo scalone della sua villa, dal basso aspettava l'autista con il berretto in mano davanti alla “Lancia”, come nei manifesti. «Farò un articolo», gli lo detto. «Lungo?», mi ha chiesto con ansia. 

 

Articolo apparso in Scenario, anno IX, n. 9, settembre 1940.

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