I sentieri degli scrittori. Le montagnes valdôtaines di Primo Levi 

14 Agosto 2023

Primo Levi ha 13-14 anni all’epoca delle prime escursioni e arrampicate, è un ragazzino minuto ma pieno di energie; vive a Torino e nei giorni senza nuvole può ammirare le montagne, ben visibili sul filo dell’orizzonte, raggiungibili in treno o in bicicletta. Durante le vacanze estive tutta la famiglia raggiunge Bardonecchia o Torre Pelice o Meana, ma alla fine degli anni Trenta, i genitori scelgono invece di passare le vacanze a Cogne, in Val d’Aosta; le vette e i ghiacciai del Gran Paradiso affascinano Primo che ne approfitta per scoprire e salire i percorsi con le cime più alte e i più estesi orizzonti. È lì che scopre davvero le grandi altezze, con tutta l’energia fisica e mentale di una prorompente giovinezza. Chi volesse ripercorrere oggi i sentieri di Levi vada in Valnontey, la valle che da Cogne punta verso la catena del Gran Paradiso, e salga il sentiero che procede obliquo verso il Bivacco Martinotti (2.588 m, dove si fermò a dormire) e il bivacco Money (2.872 m), due magnifici punti di osservazione. La vista è ampia, a sinistra lo sguardo coglie le Punte Patrì, a destra la Grivola, davanti agli occhi il grande Ghiacciaio della Tribolazione, allora esteso e maestoso, oggi molto ridimensionato, l’Herbetet, la Becca di Montandayné, il Piccolo e il Gran Paradiso. «Uscivamo all’aurora, strofinandoci gli occhi, dalla portina del bivacco Martinotti, ed ecco tutto intorno, appena toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche. Erano un’isola, un altrove» (“Ferro”, in Il sistema periodico, Einaudi, 1975).

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Primo Levi al rifugio Sella, in Valnontey (Cogne), aprile 1940. @Centro Primo Levi.

Per tutta l’adolescenza il desiderio di avventura di Levi e dei suoi amici era cresciuto impetuoso leggendo L’isola del tesoro di Stevenson, i racconti di London, Lord Jim di Conrad e altri, poi i resoconti alpinistici di Lammer, Whymper e Mummery avevano indirizzato quell’aspirazione verso le conquiste alpinistiche. In una nota e bellissima conversazione con il giornalista Alberto Papuzzi (La rivista della montagna, marzo 1984) così spiegò quell’incrociare letture di mare e imprese alpinistiche: «La montagna per noi era anche esplorazione, il surrogato dei viaggi che non si potevano fare alla scoperta del mondo e di noi stessi; i viaggi raccontati nelle nostre letture: Melville, Conrad, Kipling, London. L’equivalente casalingo di quei viaggi erano il ghiacciaio e la cima dell’Herbetet». 

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Il lago Bianco, caro a Primo Levi e a Mario Rigoni Stern, foto di Giuseppe Mendicino.

Negli anni che seguono l’approvazione delle leggi razziali e l’inizio del conflitto mondiale, in città si avverte una diffusa e generica paura del futuro: “il cielo sopra di noi era silenzioso e vuoto”. Salire le montagne era una presa di distanza da un’Italia oppressa dai dogmi della dittatura fascista, e un modo di mettersi alla prova, di affermare il proprio valore individuale in anni in cui il solo appartenere alla razza ebraica era un connotato d’inferiorità: «Tu fascista mi discrimini, mi isoli, dici che sono uno che vale di meno, inferiore, unterer, ebbene io ti dimostro che non è così» (da "Ferro" in Il sistema periodico). 

Insieme all’amico e compagno di studi Sandro Delmastro raggiunge e scala i Picchi del Pagliaio con il Torrione Wolkmann, i Denti di Cumiana, Rocca Patanüa (Roccia Nuda), il Plô, lo Sbarüa (oggi la Sbarüa). In Il sistema periodico, nel racconto "Potassio", ricordando quei giorni scrive: «… le montagne attorno a Torino, visibili nei giorni chiari, e a portata di bicicletta, erano nostre, non sostituibili, e ci avevano insegnato la fatica, la sopportazione, ed una certa saggezza». In una nota foto scattata all’amico Sandro su Rocca Sella, si scorge sullo sfondo proprio la Patanüa innevata.

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Primo Levi. foto di Giovanna Borgese.

Ferro, forse il più bel racconto di montagna del nostro Novecento, è pubblicato nel 1975 in Il sistema periodico. Levi aveva ripreso con sicurezza stilistica e forza evocativa un testo pubblicato nel 1961 sulla rivista Il Mondo, La carne dell’orso. Il titolo e il suo significato richiamano i primi due capitoli di Smoke Bellew, di Jack London, ma il tema del racconto è apertamente conradiano, con al centro della trama il ricordo di momenti difficili affrontati e superati, come in Gioventù, e la presenza di alcuni testimoni che lo narrano. Diverso il contesto, in uno l’alta montagna nell’altro l’immensità dell’oceano, identica l’etica della prova e del coraggio. Consapevole della modesta riuscita del testo originario, Levi ne aveva estrapolato la parte migliore, l’aneddoto della carne dell’orso, riunendolo al ricordo di Sandro Delmastro, in un testo denso di valori etici universali. Si sofferma soprattutto sul ricordo di un bivacco ad alta quota, in pieno inverno, con i piedi negli zaini per salvarli dal congelamento. «Come faremo a scendere?» aveva chiesto Primo all’amico quando la notte stava salendo veloce e inesorabile dal fondo della valle. «Per scendere vedremo», gli aveva risposto Sandro, aggiungendo che al più avrebbero «mangiato la carne dell’orso», che voleva dire passare la notte al freddo e ad alta quota. Nell’ultima pagina di "Ferro" Primo Levi scrive: «Ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino».

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La parete Nord-Ovest del Gran Paradiso, foto di Giuseppe Mendicino.

La libertà di Primo Levi finisce proprio tra le montagne, l’ultimo luogo dove avrebbe immaginato di perderla. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, lo sbandamento dell’esercito e l’invasione delle truppe tedesche, Primo Levi decide di salire con alcuni amici tra i monti della Val d’Aosta. Si aggregano a un gruppo di partigiani di Giustizia e Libertà dislocato tra Saint Vincent e Brusson. Sono consapevoli di essere dei ribelli inesperti, privi di abilità militari, con poche armi e pochissime munizioni, ma immaginano di imparare alla svelta, e intanto restare liberi. Qualcuno però li tradisce, e il 13 dicembre del 1943 trecento militi fascisti accerchiano il loro rifugio. Otto riescono a fuggire, non Levi e altri due compagni. Il 26 gennaio del 1944 è inviato con altri nel campo di concentramento di Fossoli, e da lì, un mese dopo, ad Auschwitz.

Sopravvissuto al lager e tornato a Torino nell’ottobre del 1945, Levi chiede notizie di parenti e amici, poche le notizie confortanti. Tra i sommersi anche Sandro Delmastro. Viene a sapere che è morto nell’aprile del 1944. Componente del Comando militare piemontese di Giustizia e Libertà, era stato catturato dai repubblichini in un posto di blocco: quando il camion che lo trasportava giunse nei pressi della Casa littoria di Cuneo, Sandro saltò giù e corse via verso la libertà, ma venne abbattuto da una scarica di mitra alle spalle. Il suo corpo fu lasciato a lungo in strada, come monito. Vide tutto dalla finestra Anna Delfino, futura moglie di Nuto Revelli. Oltre che nel racconto Ferro, Sandro Delmastro è ricordato infatti anche in La guerra dei poveri, il diario di guerra e di Resistenza di Revelli, comandante di Giustizia e Libertà.

Dopo la guerra, nei tempi concessi dal lavoro, Levi cercherà di riprovarla “la carne dell’orso”. Salì infatti la Testa Grigia, sopra Gressoney, poi nel 1964 la Punta Gnifetti nel Massiccio del Monte Rosa e infine, nel 1983, il Pian della Tornetta, presso Cogne.

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Sandro Delmastro nei pressi di Rocca Sella, sullo sfondo la Patanua.

Un altro luogo facilmente raggiungibile da chi voglia seguire i sentieri di Levi tra le montagne è la zona del lago Bianco e del lago di Miserin, nell’alta valle di Champorcher. Lui l'aveva percorsa una prima volta nell’aprile del 1940, in un lungo raid scialpinistico con Delmastro e con Alberto Salmoni. Saliti a piedi da Bard a Champorcher carichi di trenta chili di zaino e con gli sci, il giorno successivo avevano oltrepassato la casa di caccia reale di Dondena, il lago di Miserin, la Finestra di Champorcher ed erano giunti a Cogne, con l’obiettivo di salire il Gran Paradiso. Primo, sfinito, rinunciò e si fermò nella valle, Sandro invece proseguì con Alberto, risalendo la Valeille e raggiungendo poi il Vallone di Piantonetto.

Nei primi anni Ottanta, insieme ad Alberto Papuzzi, Levi era tornato a rivedere quei luoghi: il lago Bianco, che gli evocava i racconti di Jack London, e la Rosa dei Banchi, secondo lui la montagna ideale, per l’elegante forma piramidale. Era con loro la figlia di Papuzzi, Barbara; mi ha detto che serba forte il ricordo di quel giorno.

Levi avrebbe voluto tornare lassù ancora una volta, con l’amico Mario Rigoni Stern, che tra quei laghi e quelle cime era passato nel 1939, ne parlarono più volte insieme, ma restò un’idea, un sogno irrealizzato, spezzato per sempre un giorno di aprile del 1987. 

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In copertina, Primo Levi al Colle della Tournette, 31 luglio 1983, foto di Alberto Papuzzi.

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