Il genere preso sul serio

6 Settembre 2023

«Quando la ricerca contemporanea sulle maschilità ebbe inizio, l’analisi femminista aveva già mostrato che quasi la totalità del discorso accademico era una forma di conoscenza quasi completamente costruita da uomini […]. Tuttavia, questa conoscenza esisteva senza che gli uomini venissero tematizzati in quanto “portatori” di genere. Di fatto, uno tra i tropi centrali delle scienze umane, delle scienze sociali e persino delle scienze biomediche era rappresentato dall’assunzione di “uomo” come norma, quale rappresentante dell’universale. Quindi gli uomini erano trattati come se fossero privi di genere, e come se “genere” significasse “donne”.» 

Il corsivo è mio.

Parte da questa constatazione l’ampia analisi sistemica Il genere preso sul serio. L’impatto dei corpi sessuati su lavoro, potere e percorsi di vita della sociologa australiana Raewyn Connell (trad. it. di Emanuela Abbatecola e Luca Guzzetti, Feltrinelli 2023). Già autrice di Maschilità: identità e trasformazioni del maschio occidentale (Feltrinelli 1996) e di Questioni di genere (il Mulino 2011), in questo nuovo saggio l’autrice assume la questione del genere – dell’ordine di genere e del suo possibile cambiamento – come chiave di volta per capire non solo la relazione tra uomini e donne, ma tra zone del mondo, aree sociali, strutture locali del mercato del lavoro e ruolo ad esse materialmente e metaforicamente assegnato nell’economia politica del neoliberismo.

Non disposta ad allinearsi semplicemente al discorso che in materia di genere più ha fatto scuola nella “Metropoli” (l’Occidente europeo e statunitense), Connell affronta il tema dalla duplice “Periferia” di donna transessuale e di australiana. Parla di giustizia sociale in termini di riconoscimento del non identico, del difforme, del fuori norma, ma non sposa neanche per un istante la logica delle identità chiare e distinte né sottoscrive la seducente, astratta poetica della fluidità. Il suo è, da un lato, un invito a vedere il nesso implacabile tra “estroversione” (l’assunzione dei modelli e dei paradigmi teorici e cognitivi che l’Occidente impone al resto del pianeta) e subalternità/asservimento e, dall’altro, un «tentativo di produrre conoscenza pubblica che possa avere qualche validità per chi legge pur non condividendo la mia esperienza biografica». 

Guardando al mondo e a come si distribuiscono, localmente e su scala globale, nella sfera pubblica e in quella domestica, poteri e doveri, consumi e risorse, Connell individua un «modello egemonico di maschilità» in grado di spalmarsi senza colpo ferire anche sulle donne. Basta che esse siano in grado di interpretare una parte del pacchetto “locale” della maschilità egemonica e il gioco è fatto. La biologia non è e non è mai stata un destino, perché il genere – l’idea sottesa al concetto di genere e al suo ordine – è relazionale. Il genere è ciò che il genere fa, la sua costruzione è un processo in perenne divenire, un percorso personale e sociale che presuppone uno schema di relazioni (famiglia, lavoro, società, istituzioni) da assecondare o contrastare. 

Poco convinta della teoria performativa e citazionale proposta già nel 1990 da Judith Butler, così come del pur sofferto cristallizzarsi delle posizioni identitarie in un indistinto universo lgbtq+, Connell propone come categorie-guida la contraddizione e la transizione, un farsi incessante fondato sulla passione di cambiamento, non su un ipotetico punto d’approdo o meta. Ed è lì, sulla contraddittorietà e sul mutamento, che l’autrice compie un affondo politico: «Se si riconosce che il progetto di genere è in transizione, diviene allora possibile vedere la sua profonda affinità con il progetto di trasformazione sociale del femminismo». La mutazione ha a che vedere non con gli interessi o i diritti di una minoranza, ma con un intero progetto trasformativo che obbliga ad allargare lo sguardo sul mondo, a mettere in risonanza fenomeni all’apparenza estranei tra loro, ad azzardare ipotesi inedite e disegnare nuove alleanze, a riconoscersi con pietas in maschilità abiette perché tali sono state rese dal modello maschile dominante. 

«La mia sensazione di pelle», afferma Connell, «è che qualsiasi donna transessuale che abbia la testa attaccata al posto giusto dovrebbe diventare una femminista». Se questo non avviene di frequente è perché ci si trova singolarmente impegnate in battaglie epiche per la sopravvivenza e l’esistenza sociale, per una ri-tessitura integrale e quotidiana del proprio habitat. La transessualità (ma non è la stessa cosa per chi intende vivere una vita femminista?) è un processo di genere: «incorporarsi», vale a dire riconoscersi in un corpo sessuato – di necessità desiderante, mutevole, instabile, mai definitivo sia per la percezione che tu ne hai, sia per l’immagine che di te la società ti rimanda – schiude la porta alle incoerenze, alle contraddizioni e al bisogno/paura del riconoscimento. «E non è possibile sfuggire a questo terrore: il genere è intransigente, sia come struttura della società sia come struttura della vita personale.» 

Poiché dissolvere l’ordine di genere non è affatto semplice, tentare di creare ordini di genere giusti – suggerisce Connell, facendo sua l’idea di giustizia basata sul riconoscimento di Nancy Fraser – potrebbe produrre condizioni in cui svolgere il lavoro di per sé infinito della transizione sia meno lacerante. E la transizione di cui parla l’autrice riguarda – non dimentichiamolo – tanto «la dimensione globale e transnazionale delle strutturazioni di genere», il tuttora coloniale sistema-mondo e le sue feroci disparità, quanto l’“incorporamento” di cui ogni essere umano è più o meno attivo/passivo soggetto e oggetto. 

Nella splendida postfazione di Cirus Rinaldi c’è un capitoletto che, se lo riferiamo ai fatti di cronaca nazionali e internazionali di questa tarda estate, fa piena luce su una verità «non-marcata, nascosta in piena vista», che potremmo sintetizzare così: un world gender order che si basa su sopraffazione e sfruttamento produce abiezione e servaggio, esattamente come l’ordine di genere domestico. È un ordine predatorio, che crea invisibili, paurose dipendenze reciproche. Più facile per la “vittima”, depredata del proprio corpo, delle proprie risorse, del proprio territorio, riconoscere l’ordine di genere che la rende tale. Più complesso per il “perpetratore”, educato a tradurre “naturalmente” in violenza il proprio bisogno e la propria fragilità. 

È l’iperbole del modello vigente di maschilità, l’hypermasculinity che si manifesta quando le maschilità egemoniche – familiari, neoliberiste e militari – si sentono minacciate e «tendono a enfatizzare, anche distorcendola, la propria maschilità tradizionale». Si produce allora un continuum di orrori in cui la persona, il gruppo sociale, il paese da sfruttare o subordinare viene alterizzato e naturalizzato non come inferiore, ma come cosa da annientare. Una faccenda violenta che alimenta e diffonde il terrore dichiarando di combatterlo. 

Che dire dunque quando la legge ipermaschile del taglione fa breccia anche tra le donne, biologiche, transessuali, etero, lesbiche, di destra, di sinistra, agnostiche, artiste, attiviste, intellettuali che siano?

Si salvi chi può! In inglese every man for himself.

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Dalla postfazione di Cirus Rinaldi, in Raewyn Connell, Il genere preso sul serio, pp. 278-9

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