5 per mille

Pusterla, il male e il dolore del mondo

10 Giugno 2025

In una intervista di pochi anni fa alla Radio della Svizzera italiana, Fabio Pusterla diceva di non apprezzare per nulla l’atteggiamento montaliano del poeta che “vive al cinque per cento”, e nemmeno l’aforisma di Rimbaud per cui “la vera vita [sarebbe] altrove”. A quelle aristocratiche rarefatte prese di distanza Pusterla opponeva anzi la necessità di stare intensamente nel proprio tempo e di far convivere nella scrittura (citando Wallace Stevens) il “peso della realtà” e la “forza dell’immaginazione”.

In linea con queste affermazioni, che rispecchiano un’idea di scrittura che è anche un’etica, si pone il nuovo libro, Fiumi nefrite vortici (Marcos y Marcos, Milano 2025), esempio – anche, sebbene non solo – di poesia civile, non così frequente nel panorama italiano, che fissa lo sguardo critico su un presente che appare desolante senza però accettare che la desolazione possa costituire una condizione assoluta.

Non si tratta di un atteggiamento inedito per l’autore, la cui scrittura è sempre stata attenta a “carpire ogni minimo sibilo della realtà” (come ha scritto Massimo Natale nel bel saggio che accompagnava l’auto-antologia Da qualche parte nello spazio. Poesie 2011-2021, Le lettere 2022). Ciò che colpisce però nel nuovo libro è la radicalità dell’operazione, parallela alla percezione, da parte dell’autore, della gravità di certi processi: dalle catastrofi ambientali, allo sradicamento dei gruppi umani, dalla guerra in Europa al riproporsi di oscure ideologie.

Chi ha consuetudine con la poesia di Pusterla non sarà sorpreso da alcune riprese di temi e immagini che collegano al nuovo libro certi testi delle precedenti raccolte.

Nella prima di esse (Concessione all’inverno, 1985), la poesia “Der blaue Bunker”, immaginava una installazione sotterranea avveniristica a prova di atomica dalla quale, su un monitor, apparivano «macerie fumanti, carri armati, / cingolati leggeri con sopra granatieri / dal volto nero», quindi «volti deformi, cadaveri nerastri, / gonfi […] “E anche questo / fa lo speaker – potrebbe succedere». In “Lettere da Babel” (Corpo stellare, 2012), al figlio che vorrebbe inventare un videogioco dal nome inquietante (PANDORA TOMORROW) e che aveva sognato i genitori sepolti dalle macerie della torre di Babele, si spiega che in effetti i suoi genitori si tengono davvero per mano tra le macerie (in questo caso ancora metaforiche) «di una cosa che non è crollata ancora, ma vacilla / e forse un giorno crollerà. Chiamala Europa, o mondo, / o solo un altro sogno».

In uno dei testi di apertura della nuova opera, l’eponimo “Fiumi, nefrite” (pp. 16-17), la voce – sofferente familiare voce di persona anziana – che tra virgolette parla vede una «Europa di corsi d’acqua e fiumi macabri / […] una vipera verde / una colonna armata che si avvicina // nefrite nefrite il mio rene è l’Ucraina / il mio corpo è l’Europa avvelenata […] quale sarà l’ultimo / quale sarà l’ultimo fiume». La malattia dell’individuo diventa così specchio (o metafora, o piuttosto sineddoche) del male storico che la stessa voce fatica a dire, incespicando in paronomasie ecolaliche («nella mia mente infetta sfatta sfitta», «le frattaglie / del mio corpo dolente dolina / che declina e rinsecca»).

Le immagini e le profezie visionarie a cui credere e non credere, fattesi reali, sono il punto di partenza di questo libro.

È opportuno sottolineare la dimensione di libro, ovvero l’articolazione non casuale della sua struttura, e questo per due motivi. Il primo è che ciascuna delle sue sezioni sviluppa (sia pure in maniera non esclusiva) altrettante costanti tematiche e formali della poesia dell’autore. Il secondo è che il percorso che il lettore è chiamato a seguire è – o almeno così sembra a chi scrive – funzionale al complessivo messaggio che l’opera vuole comunicare.

Il testo di apertura («Airone dell’alba, grigio di sangue rappreso / vola senza rumore sul territorio indifeso…» p. 11) e la prima sezione eponima, “Fiumi nefriti vortici” forniscono le coordinate generali, l’orizzonte – anzitutto storico – che il lettore è chiamato a considerare.

È un presente dominato da uno scenario di guerra e dal ritorno di novecentesche e velenose “fedi feroci” (per usare un’espressione montaliana), compendiate nell’immagine del “vortice”. Esso richiama iconicamente il simbolo della svastica (evocata direttamente nella poesia “Vortice”, p. 18), ma che – assunto nei suoi significati letterali – indica un moto non soltanto violento, ma anche circolare; un moto che trascina ma anche ritorna su se stesso, riportando al presente certe cose del passato. Per esempio immagini, voci, frammenti verbali entrati nel circolo mediatico della quotidianità; così in questo molto sereniano collage (“Giro di vortice”, p. 22-23):

Cambiato l’abito inalberati i sorrisi. / Lo sforzo delle mani che vorrebbero alzarsi ben tese, / e invece stanno lì, trattenute sul fianco, / rabbiose. Collezioni segrete di cimeli, / vessilli rune pugnali di antica fattura.

*

«Ma no» dice uno «erano solo ragazzate, / nessuno si è fatto male. Ammettiamolo!» / Poi si scusa, dice che è stato frainteso / dai soliti malevoli invidiosi. «Del resto / neppure gli altri erano stinchi di santo, cazzo, sicuro!»

Nella seconda sezione, “A che punto è la notte” il ritorno del passato si estrinseca attraverso la dimensione della memoria individuale e privata.

j
Fabio Pusterla.

La voce che dice io cede il passo (e forse si nasconde dietro) ad altre, anziane, sofferenti, che sono spesso, ma non solo, quelle di figure familiari.

In una ambientazione ospedaliera di cui l’autore dà conto nelle Note che accompagnano i testi, le voci che con lui dialogano – come ospiti di una piccola e struggente “montagna incantata” – incidono una serie di memorabili istantanee di piccoli e grandi drammi individuali, talvolta nello sfondo, una volta ancora, delle grandi tragedie del Novecento.

La capacità che ha Pusterla di cogliere “il male e il dolore del mondo” (riprendo una efficace formula del critico Andrea Afribo) raggiunge qui risultati molto alti, utilizzando una tonalità stilistica particolare. La rinuncia alla propria voce (o la sua dissimulazione) dà luogo a una specie di “pianissimo”; nella misura del verso lungo, si snoda un discorrere caratterizzato dalle formule del parlato quotidiano cui si accompagna un uso delle figure retoriche (in genere sintattiche) tanto discreto da essere quasi invisibile.

«Aveva un cane si chiamava Türk, / per via della guerra, in Cirenaica credo, / ma con l’età si era fatto nervoso, aggressivo, per cui / a malincuore il canile, sopra Ivrea, nel Canavese. /Abbandonandolo piangeva. Sì, un cane lupo era. // Due o tre anni dopo passeggiavamo proprio lì, / lui elegantissimo, abito bianco o crema. Il cane l’ha visto / riconosciuto rotto le catene aperto a forza i cancelli / è corso impetuoso gli ha messo le zampe sulle spalle guaiva / e poi un caldo fiume di orina, per l’emozione, su tutto il vestito. // Non so se ha senso adesso ricordare un simile esempio / di amore e fedeltà. Sono storie vecchie, / lasciano il tempo che trovano, lo so. Storie finite / nel dimenticatoio o nel cesso. Ma è vera, / e piangeva anche lui, gocciolante di piscio.» (p. 33)

La voce dell’autore torna, declinata al tempo presente, nelle sezioni, “Strade”, “La piccola sinfonia del fango” e “Viandanti, sentinelle, comete”.

La “Piccola sinfonia” è il luogo del sarcasmo e dell’indignazione legate alla cronaca. Nel metaforico fango ribolle una “piccola galleria degli orrori”: dichiarazioni ora strafottenti ora cautelose di influencer, amministratori, politici. Alla loro tronfia assertività fa riscontro una realtà che è talvolta banalmente tragica, come nel caso del bracciante Satman (p. 78).

(Notiamo tra parentesi che più volte in questo libro, alla particolare drammaticità di certi contenuti o a impennate di indignazione fa riscontro una dizione straniante che recupera le forme chiuse della tradizione poetica: filastrocche o strofe rimate di versi brevi, per esempio; qualcosa di simile fece Franco Fortini con le sue “Canzonette del Golfo”).

In “Strade”, il titolo rimanda a un significato che è spesso letterale: via Pasteur, via Orelli, la A 26, un lungolago gardesano; luoghi cui si collegano “apparizioni e incontri”: con se stesso bambino, con la nipotina Gemma, con anonimi studenti, con evocati amici e maestri prossimi (il poeta Giorgio Orelli, il filologo pavese Angelo Stella) o anche remoti, come il poeta Machado e il filosofo Benjamin, entrambi vittime delle “fedi feroci” di cui si è prima detto, le cui (ultime) strade si incrociarono lungo il confine tra una Spagna che si arrendeva al franchismo e una Francia che si sarebbe di lì a poco arresa a Hitler.

Ma la strada, ovvero il cammino – uno dei temi della poesia di Pusterla degli ultimi anni – è assunto a metafora della condizione umana per il fatto che è lo scenario in cui si realizzano le esperienze dell’incontro e della scoperta, della conquista e della perdita, dell’incertezza e della speranza; come nell’esemplare “Sulla spalletta del ponte” (p. 57)

«Cammina incespicando ma senza paura / sulla spalletta a picco sopra il fiume / la bimba infagottata. Da una parte / costeggia il vuoto s’inebria di vertigine, / di là cauta una mano la assicura, / di madre forse o sorella maggiore o chissà. / Tra vuoto e sicurezza un poco incerta va e cinguetta / senza guardare in basso l’acqua scura, / dimenticando la mano, va / perché si sente libera nel vento, più ardita. // Tutti i mondi davanti, / avventura, rischio vita»

Il motivo del cammino costituisce il tema conclusivo del libro, che esibisce un andamento per certi versi circolare. Esso si era aperto con l’immagine di un “ultimo fiume” e si

conclude con un poemetto dallo stesso titolo. L’autore spiega nelle Note che l’immagine dell’ultimo fiume è una suggestione del romanzo Stalingrado di Vasilj Grossmann. E proprio come in quel mirabile libro il Volga si caricava di significati ambivalenti – morte /vita, distruzione / rinascita, lo stesso avviene in questo caso. L’”ultimo fiume” di esordio presentava un movimento verso il basso («fiumi tanti […] scendono sotto le rocce si essiccano / diventando mistero o nulla si nascondono / nel cuore nero di strati profondi», p. 16). Nel poemetto finale quell’”ultimo fiume” viene lasciato alle spalle, in nome di un cammino che prosegue, verso altri e diversi “ultimi fiumi”:

«L’ultimo fiume alle spalle già invisibile sfuma / nella memoria. Attraversato, / senza dubbio attraversato. Ma come? Si avanza in una bruma frizzante, adesso, in un ignoto sfolgorio. L’ultimo fiume distante / dietro di noi era forse una frontiera / del mondo, un limite verso lo sconfinato.» (p. 113). Oltre questo limite, verso questo “sconfinato”, colui che avanza raccoglie dalla natura – non più, come al principio, in corruzione e disfacimento – l’incitamento a procedere: «Fiore d’argine e fosso, / rosso di lingua antica, / dice di andare avanti / dice che la fatica / non è mai troppa per chi non rinuncia / a vivere la vita.» (p. 114).

È, dopo la catabasi, una anabasi; quanto si vuole incerta («Siamo quasi arrivati, / non arriveremo mai», p. 127) ma vitale.

Leggi anche:
Umberto Fiori | Fabio Pusterla: ma chi è Truganini?  
Claudio Piersanti | Fabio Pusterla. Cenere, o terra
Massimo Gezzi | Campioni # 10. Fabio Pusterla

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
TAGGED: Fabio Pusterla