Il mondo-immagine e l’insieme vuoto

9 Gennaio 2014

In L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine (Johan & Levi, 2013) il filosofo Federico Ferrari propone una riflessione su di una possibile nuova modalità del guardare, che parta dalla singolarità e dal suo spazio vuoto.
Il testo si prospetta come una raccolta di frammenti programmatici, non omogenei, provenienti da molte storie e da visioni che si sfiorano là dove le due superfici convesse chiamate a partecipare dell’azione, l’occhio e il mondo, accennano un contatto: l’immagine. Imprevedibile momento che ci coglie impreparati e che illumina, fa vedere, come avviene con la parola poetica. Come un’immagine. Un’immagine vissuta, quindi, come sintomo, come «segno inatteso, non familiare, spesso intenso e sempre disruptivo, che annuncia visivamente qualcosa non ancora visibile, qualcosa che non conosciamo ancora ».

 

Luca Caccioni, Overlaps, pigmenti e grafite su acetato

 

Il deambulare cittadino da flâneur, o da forcené, o il semplice insistere seduto su di una poltrona, si dimostrano essere momenti epifanici poiché in questi instanti vi sono immagini che scaturiscono dal flusso continuo e ininterrotto della vita per infrangersi sulle nostre vite. L’immagine è quindi l’incidenza del quotidiano, l’invisto velato dal cliché che serba la memoria del futuro. La scrittura che deve misurarsi con l’immagine, e che l’autore assume coscientemente fino al termine, non può quindi che essere una scrittura frammentaria, percorsa da fremiti laterali che parallelizzano la vita in una geometria che risulta sempre irregolare. Una scrittura fatta di incastri, di sovrapposizioni e di luoghi vuoti: una scrittura che si spazia sulla superficie delle immagini.

 

Se il problema delle immagini è il fulcro della trattazione, il percorso intrapreso da Ferrari fa sì che ci si focalizzi, in particolar modo, sulla pragmatica dell’immagine intesa come ritmo, come rapporto ritmico tra parole e immagini. Non risulta, però, essere il legame tra immagine e parola a rappresentare il tema centrale del libro, ma una riflessione che si assume il dovere di sentire e di cogliere il ritmo che questi due poli contribuiscono a creare. Una metrica, quella del mondo contemporaneo, che si rivela essere una metrica libera, slegata da una grammatica fissa e capace di essere continuamente innovativa.

 

Il problema di una pragmatica dell’immagine è, quindi, per l’autore, un’interrogazione sull’ontologia stessa di questo concetto. L’immagine, nel mondo contemporaneo, non possiede più le caratteristiche che essa godeva nel mondo romano o in quello medievale. L’immagine ha subito un cambiamento di statuto e, in questo modo, anche il rapporto che si instaura tra lo spettatore e l’immagine stessa si è dovuto, necessariamente, modificare.

Lo sguardo deve quindi necessariamente fare i conti con la propria disseminazione e, di conseguenza, la metrica che lo regola non potrà che essere una metrica “singolare-plurale” (immediato è il riferimento al filosofo e amico Jean-Luc Nancy e al suo testo, pubblicato nel 1996 per i tipi della Galilée, intitolato Être singulier pluriel).

 

 

Ma che cosa vuol dire l’autore quando parla di “insieme vuoto”? Derivando questa terminologia dalla teoria degli insiemi, Ferrari è qui a significare ciò che sottende a tutte le visioni possibili, «il nulla che è anche qualcosa» (Ivi, 12), ciò che è comune alla pluralità delle visioni. Il comune, lo sguardo, «ciò che ci precede e che resta aperto al di là di ogni visione possibile, di ogni immagine data» (ibidem). Lo sguardo si rivela quindi essere un grumo che perdura sia nell’orgiastica proliferazione delle immagini contemporanee, sia dopo la catastrofe che queste immagini hanno prodotto.

 

E il nostro mondo è il mondo-immagine heideggeriano, dove «la cosa sta così come noi la vediamo». Questo mondo è il «grande film della nostra epoca» (Ivi, 15) che non è semplicemente il supporto sul quale possiamo proiettare sogni, pensieri, esistenze. «Il mondo-immagine è il nostro spazio comune» (ibidem), già e sempre sazio, irriducibile, nel quale siamo contemporaneamente dentro e fuori, da una parte e dall’altra. Nastro di Möbius, luogo paradossale, affermazione-negazione, il mondo-immagine è il depotenziamento dei dualismi, il venir meno di un muro-contro-muro. Non è più possibile guardare al mondo contemporaneo assumendo una posizione cartesiana che ci assicuri delle posizioni chiare e comode di un “dentro” e di un “fuori”. La presa di posizione di Ferrari è chiara: bisogna attivare una scrittura che si situi alla superficie, che non porti altrove se non lì, sulla pelle delle cose, riportando tutto – ma davvero tutto – a livello dei sensi. Essere all’altezza della superficie. Un compito profondamente arduo.

 

Ferrari intraprende in questo libro una breve storia dell’immagine e dell’uomo facendo coincidere, nelle grotte di Lascaux, l’homo figurans e l’homo sacer, l’uomo che sa disegnare e quello in grado di donare la sacertà e, cioè, di separare qualche cosa dalla comunità degli umani. In questo caso, la vittima di una tale figurazione e separazione è l’animale: così facendo, «l’uomo […] cominciava a perdere l’animale, a non riconoscerne più lo sguardo, riducendolo al proprio guardare» (Ivi, 18).

 

Grotte di Lascaux © UNESCO Photo by F. Bandarin

 

Per pensare questo sguardo-insieme-vuoto, è necessario che nel nostro sguardo si conservi uno spazio vuoto. Ciò non significa che quest’ultimo debba risultare primordiale o preesistente allo sguardo stesso ma, semplicemente, lo sfondo nel quale la visione può comparire. «Pensare l’insieme vuoto significa aprirsi a una serie di sguardi elementari che possano cominciare a elaborare una nuova grammatica o tabella di elementi di una cultura visiva non più costruita su oramai obsolete categorie, ma su un nuovo sapere o una nuova teoria degli insiemi visivi» (Ivi, 22-23).
Tutto avviene sul mondo-immagine: non vi è un prima o un dopo, un al di qua o un al di là di questo mondo poiché ciò che avviene si trova sulla superficie. Nessun interno, tutto è pelle.

 

Luca Caccioni, Tour de mouche (1999), serigrafia su acetato a tre colori, cm 50 x 50

 

Ma quando lo sguardo si volge in visione? Ciò è dovuto ad un incidente, ad un imprevisto, che avviene quando vi è la presenza di un’immagine tesa tra due fotogrammi, di un’immagine che resta inceppata e che fa sì che lo sguardo giri a vuoto, che si liberi, senza poter passare all’immagine successiva. L’incidente avviene dando così luogo a ciò che Ferrari chiama come «l’invisto dell’immagine» (Ivi, 33), cioè l’inconscio dell’immagine, là dove l’apparenza si arresta e il non ancora visto accede alla visione. In questa situazione di destabilizzazione percettiva e vivente, l’inconscio si palesa quasi in contrappunto, facendo accedere, attraverso la fenditura dell’aperto, le immagini oniriche. Ma la visione «non è mai regressione onirica nell’inconscio» (Ivi, 34), bensì praxis imprevedibile del reale. Ecco che visione ed immagine si posizionano in una vicinanza strettissima, asfissiante e sintomatica.

 

Il mondo-immagine è un farsi del mondo. La praxis è in questo incidersi svolgendosi, in questa creazione del mondo che si effettua senza l’esistenza di disegno preparatorio a monte. Il mondo-immagine è quindi un mondo che non è copia di qualcosa e che, di conseguenza, esce dai cardini del pensiero platonico. Questo è il mondo in cui viviamo, e nel quale dobbiamo iniziare a cogliere il ritmo, il tempo. Imparare a sentire lo spazio vuoto guardando un’immagine.

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