Il personaggio è tutto

28 Aprile 2014

David Thomas è nato a Boulogne-Billancourt (Île-de-France) nel 1966 e vive a Parigi. Ex giornalista, dal 2007 si dedica esclusivamente alla narrativa e alla scrittura per il teatro. Ha pubblicato due raccolte di micro-racconti, La patience des buffles sous la pluie (La pazienza dei bufali sotto la pioggia, Traduzione di Maurizia Balmelli, Marcos y Marcos, 2013) e J'ai n'ai pas fini de regarder le monde e il romanzo Un silence de clarière.

 

 

 

David Thomas, Marcos y Marcos


Ha pubblicato due raccolte di micro-racconti. Come mai ha deciso di cimentarsi in un formato così breve?

Perché mi piace. E più scrivo testi brevi, più sono bravo. È un po' come nell'atletica: ci sono discipline nobili, come i 100 metri, e altre che lo sono meno. Io sono uno specialista nel lancio del giavellotto. Siamo in pochi, ma adoro farlo. E anche se faccio fatica ad esistere sul mercato e gli editori continuano ad aspettarsi un romanzo, mi piace troppo scrivere testi brevi e non vedo perché dovrei forzarmi a fare altro.

È difficile pubblicare questo genere di testi?

Molto difficile. Soprattutto con i grandi editori. Se il racconto è il parente povero della letteratura, il micro-racconto è il suo parente precario. È molto difficile per un editore scommettere su un autore che fa questo genere di cose. Pare che vendano troppo poco. Quando sei con un grande editore come il mio (Albin Michel, ndr), che pubblica almeno trenta libri al mese, non c'è tempo per occuparsi degli autori. Il libro deve camminare con le proprie gambe. Se vende, allora cominciano a investirci su.

Non pensa che pubblicare trenta libri al mese sia un po' troppo?

Certo che lo penso. E non è bene né per gli autori, né per i librai. Ma io non sono un imprenditore, non devo fare i conti. Dicono che visivamente un ripiano di una libreria pieno di libri di uno stesso editore, faccia più effetto sulle scelte del cliente.

Dato lo spazio limitato che concede alle sue storie, diventa difficile sviluppare delle trame elaborate. Nei suoi testi la forma è più importante del contenuto?

Diciamo che la trama non mi interessa affatto. È un peccato che quando si parla dei libri li si debba ridurre a una storia, anche se posso capire che sia difficile parlare solo dello stile. Secondo me lo scrittore è uno che fa delle frasi. Ne fa una, poi due, poi tre, poi una pagina, poi un capitolo. Ciò che mi interessa non è ciò che un personaggio fa, ma ciò che sta provando. Per me è il personaggio che fa l'opera, il suo punto di vista, il suo linguaggio, il suo modo di esprimersi. Una vecchia di novant'anni, un ragazzo di venti o una ragazza di venti, o una donna di quarantacinque non hanno lo stesso modo di osservare il mondo.

Ne “La pazienza dei bufali sotto la pioggia”, alcuni racconti – penso ad esempio a “16.224 minuti”, “Giornata no”, “Vicina”, “Scopare” – potrebbero essere dei post di un blog personale o delle pagine di un diario intimo. Quanto c'è di lei in queste storie?

Ci sono cose che ho vissuto e cose che mi capita di ascoltare o che immagino. Ecco, spesso immagino qualcuno dire o vivere qualcosa. In effetti, la parte autobiografica è molto ristretta. Quando sono seduto in un bar, ad esempio, mi capita di vedere qualcuno, di ascoltare qualcosa e l'ispirazione cade come un frutto maturo. Spesso si tratta di una frase. Mi concedo il tempo di osservare; sono molto solitario e non ho molti amici. Per fortuna vivo con una donna che ha molti amici e così ho l'occasione di vedere delle persone.

Nel racconto “Sorpresa” e nei suoi due sequel, uno stesso evento – cioè una classica scena di adulterio – viene descritto volta per volta dal punto di vista di ciascuno dei tre protagonisti. Difficile non pensare a una tecnica cinematografica. L'ha presa in prestito dal suo mestiere di sceneggiatore?

Direi di no. Per me non ci sono differenze tra la scrittura per la scena e la narrativa. È la voce del personaggio che fa tutto. Ciò che dice o ciò che non dice. Scrivo sempre alla prima persona ed è come se fosse una sceneggiatura. Ecco perché i miei racconti sono spesso rappresentati a teatro. Sono in molti a chiedermi di poterlo fare. I miei testi sono incentrati sul personaggio e sul suo modo di esprimersi.

Nel racconto “Massa di coglioni”, un improbabile scrittore pubblica un romanzo costituito da una sola frase riscuotendo un incredibile successo di pubblico e le lodi incondizionate dei giornalisti che lo trattano come una star. Si tratta di una critica al mondo della cultura e del giornalismo?

Non esplicitamente. Vedi, ho fatto il giornalista per 20 anni quindi so di cosa parlo. Il problema non è dei giornalisti, ma del sistema, visto che ognuno di loro dipende dal caporedattore che a sua volta dipende dal direttore della pubblicazione che a sua volta dipende dall'editore che  a sua volta dipende dalle vendite. Pensa al caso Hollande-Gayet: dov'è l'informazione che giustifica una tale risonanza mediatica? Il giornalismo sta scomparendo perché deve vendere pagine. I giornalisti non fanno più il loro mestiere; mi chiedo se sappiano ancora cos'è un'informazione. I casi emblematici sono i canali all news, che non sono altro che riempimento. Si riempie del vuoto per fare soldi; ci si muove, ci si agita, si parla per non dire niente. Non è possibile fare dell'informazione 24 ore su 24; farlo bene diventerebbe noioso e nessuno se ne interesserebbe. Parlare di una notizia di cui nessuno parla, per esempio di un buon libro, non è possibile perché tutti hanno paura di non vendere. E quindi niente, i media si limitano a copiarsi tra di loro.

In quel racconto, a mio avviso, c'è anche una critica ai gusti del pubblico di massa. Che ne pensa dei best seller come ad esempio le “50 sfumature”?

Questi libri non sono letteratura. Appartengono ad un mondo parallelo. Come Dan Brown. Ho intervistato Marc Levy e lui stesso ha ammesso di non avere alcuna pretesa di fare della letteratura. Le persone che leggono questi libri non leggono della letteratura. Ma non bisogna criticarli. Meglio leggere 3 libri di quel tipo che niente. E poi chissà, magari grazie a quelle letture un giorno arriveranno a leggere Proust. C'è da dire comunque che questi casi editoriali sono molto preziosi per i piccoli scrittori: è grazie ai soldi che le case editrici incassano con i best seller che hanno la possibilità di essere pubblicati.

Il genere del micro-racconto, che è stato già definito “twitteratura”, sembra adattarsi perfettamente ai gusti attuali di un pubblico che non ha tempo di leggere. Cosa ne pensa?

Sono d'accordo. Questo genere di formato può trovare dei lettori grazie allo stile di vita delle persone. Ma gli editori non la pensano così. Sono l'unico a pensarlo. Questo genere di formato può conquistare le persone che leggono poco e che non hanno molto tempo. È perfetta per i più pigri, è facile da leggere e non richiede sforzi particolari.

Qual è il suo rapporto con le nuove tecnologie e in particolare con i social network?

Non c'è niente che mi interessi meno della tecnologia. Mi annoia. In più sono negato per i social network. Uso Facebook una volta all'anno giusto per comunicare ai miei contatti che ho pubblicato un libro. Per questo è utile. Ma gli “stati” su Facebook sinceramente non li capisco. Non me ne frega nulla. I social network sono un tipo di legame con gli altri che non mi interessa, un legame artificiale. In più, contribuisce a uno dei più grandi mali della nostra società, che oltre a quella economica e morale, sta attraversando una crisi di senso. Le cose che diciamo, che facciamo, non hanno più senso. Nessuno si interroga più sul senso delle cose. Lo dicevamo, l'informazione continua non ha senso. Non c'è tempo per digerire un'informazione, per rifletterci su. Oggi la rapidità di reazione che ci è imposta dai social network non ci permette di capire realmente ciò che succede. La polemica su Dieudonné ne è un esempio: non ha alcun senso. Nessuno ne sa niente sulla quenelle: l'ha inventata lui?; è un gesto antisemita? Si fanno solo ipotesi a destra e a sinistra ma dietro non c'è nulla. Dieudonné non pensa nulla, è Alain Soral che pensa al posto suo e parlandone gli facciamo solo pubblicità, martirizzandoli. Eppure il discorso è semplicissimo. Quando c'è crisi gli estremismi si rinforzano. Non bisogna farsi troppe pippe mentali, le persone hanno paura dell'avvenire, c'è troppa disoccupazione, vogliono delle idee rassicuranti. Punto.

Ho letto che le piacciono gli autori del nord Europa. Cosa la colpisce in particolare?

Andavo spesso in Danimarca perché stavo con una danese. Lì ho scoperto gli autori nordici, principalmente danesi e svedesi. Adoro il loro humour nero, assurdo, molto divertente. Le atrocità più aberranti vengono descritte con un timido sorriso sulla bocca, è geniale. In particolare, trovo che il cinema e la televisione danesi siano incredibili. Hanno dei programmi umoristici molto tosti, molto neri. In generale, penso che i Paesi nordici siano molto più intelligenti dei Paesi latini, che i protestanti siano molto più furbi dei cattolici. Il nord funziona meglio. Parlano meno, fanno meno polemiche. Sono più pragmatici e vanno più veloci; sono più collettivisti. In più, nel nord se hai i soldi non devi vergognartene.

Cosa ne pensa degli e-book? Il libro è destinato a scomparire?

Non saprei. Si parlava della fine del libro già nel '97-'98, quando uscirono i primi e-book. Secondo me non sarà la fine dei libri, ma dei librai. Ciò che sta facendo Amazon è un orrore per il mercato librario, sono dei truffatori. A causa loro c'è sempre meno contatto con i librai, si parla sempre meno di libri. Che ne sarà degli autori come me, che vendono proprio grazie ai librai. Pensa che in una piccola libreria di Deauville, hanno venduto 1500 copie del mio libro perché il gestore l'aveva letto, gli era piaciuto e l'ha consigliato a tutti i suoi clienti. Quanto al  libro, no, non scomparirà. L'odore, il tatto, il fatto che si personalizzi man mano che la lettura procede, lo rendono un oggetto insostituibile.

 


 

Un ringraziamento speciale a Maurizia Balmelli per avermi aiutato ad incontrare l'autore in quel bel caffè di rue du Poteau (F.I.)

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