Emozioni di un colore e storia di una pietra / Il turchese di Ellen Meloy

14 Novembre 2020

Il color turchese è una tonalità pastello che sta tra l’azzurro e il verde; viene anche chiamato color uovo di pettirosso blu, un uccello americano molto diverso dal nostro pettirosso, classificato come Turdus migratorius. È il colore scelto da Tiffany & Co. per le scatoline e i sacchetti dei preziosi gioielli, una tinta con il codice Pantone 1837 che però – ci spiega Riccardo Falcinelli – non compare nella mazzetta dei colori dell’azienda di grafica: 1837 è l’anno di fondazione di Tiffany e il colore 1837 è il suo marchio registrato, «racconta il suo prestigio per assenza; qualcosa di esclusivo, che di certo esiste, ma che non è possibile comprare o usare. Non da tutti, perlomeno» (Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, Einaudi, Torino 2017, pp. 349-350). Per il momento ci possiamo accontentare di sbucciare un piccolo uovo sodo di quaglia per vedere un color turchese nostrano.

 

L’etimo di ‘turchese’ rimanda però alla turchese, alla pietra turchese, e non è un termine antico, risale al Medioevo: deriva dall’antico francese turqueise o turquoise (sottinteso pierre, pietra), ‘pietra turca’, originaria delle terre dei Turchi, portata in Europa attraverso la Turchia, o dai Turchi per primi, e proveniente dalle miniere della Persia. Tra i primi scrittori che citano la pietra, indicando la derivazione del nome dalla Turchia, troviamo Arnoldus Saxo, filosofo sassone del XIII secolo, che nel De virtutibus lapidum la descrive come gialla tendente al bianco, molto probabilmente per sentito dire o per l’ambiguità dei nomi dei colori. Anche Marco Polo chiama «turchie» le pietre estratte da una montagna della provincia di Gaindu (Birmania o Bengala) che erano destinate solo all’imperatore. Leonardo Camillo, nello Speculum lapidum del 1502, chiama la pietra turchion, turchesia o turcois, Giovanni Battista Ardemanio dedica alla turchina o turchese un capitolo del suo Tesoro delle gioie trattato curioso, nel quale si dichiara breuemente la virtù, qualità, et proprietà delle Gioie del 1602, e Giacinto Gimma ne riprende i contenuti nel capitolo dedicato alla turchina nell’importante Della storia naturale delle gemme, delle pietre, e di tutti i minerali, ovvero della fisica sotterranea, stampato nel 1730, riportando le varianti turcoide, turquesa, turcosa, turchina. 

 

 

La turchese.


Nel mondo antico era chiamata con nomi diversi: alcuni autori la trovano addirittura nel Libro dell’Esodo e la identificano poi senz’altro con la callais di Plinio il Vecchio che nella Naturalis historia dice essere simile allo zaffiro e del colore del mare vicino alla costa (Callais sappirum imitatur candidior et litoroso mari similis, 37, 151), ma l’indicazione non è accettata da tutti gli studiosi. In ogni caso è certo che la turchese, anche se denominata diversamente, era già nota ai popoli antichi: agli egizi che la estraevano dalle miniere del Sinai, ai persiani che possedevano le importanti miniere di Nishapur, ai popoli nativi delle Americhe che utilizzavano i depositi della California e del Nuovo Messico, ma anche ai cinesi che avevano diversi siti minerari, uno dei quali, risalente a più di duemila anni fa, è stato recentemente scoperto nella provincia di Xinjiang. È un minerale che gli scienziati definiscono fosfato basico idrato di alluminio con tracce di rame; viene detta appunto turchese orientale o di vecchia roccia, per distinguerla dall’odontolite, turchese occidentale, di nuova roccia, di origine fossile, più fragile e sensibile ai raggi del sole e ai cosmetici. 

 

Chi è affascinato dal colore e dalla pietra troverà senz’altro coinvolgente il libro di Ellen Meloy Antropologia del turchese. Riflessioni su deserto, mare, pietra e cielo, recentemente tradotto da Sara Reggiani per le edizioni Black Coffee e che inaugura la nuova collana “This Land”, ripensamento critico sul rapporto degli americani con il loro territorio. Il filo conduttore del libro è il colore turchese, ma il libro è pieno di colori, tutti i colori di quella parte del territorio americano che si estende dallo Utah alla Riserva Navajo, dal Deserto del Mojave al monte Whitney fino all’Oceano della California, attraversati e vissuti dalla scrittrice, che non si risparmia il coinvolgimento emotivo e il richiamo alla sensazione immediata.

 

 

Meloy disegna, racconta di essersi guadagnata da vivere con l’illustrazione tecnica riproducendo con penna e inchiostro pietre, fiori, animali e paesaggi; l’osservazione minuta delle cose e dei loro colori la spinge a studiare le teorie cromatiche, Goethe in particolare, ma non è questa la parte più interessante del libro, lo è piuttosto la capacità di raccontare la storia naturale dei colori della sua terra. La narrazione prende avvio dai ricordi dell’infanzia, che emergono in un viaggio che attraversa le piscine della California per giungere al deserto di Mojave. Come nel racconto The Swimmer di John Ceever (e nel film di Frank Perry) il viaggio è insieme reale e metaforico, descrive la fine di un’illusione, del sogno californiano della villa con piscina negata alla piccola Ellen dal padre, il quale nei viaggi sceglieva rigorosamente di fermarsi nei motel senza piscina. L’esito è però molto diverso: dal mondo infantile dei rettangoli turchesi delle piscine californiane, nelle quali da bambina impara a nuotare con perizia, Ellen si allontana definitivamente; la famiglia dei Quigley, i personaggi immaginari che a bordo dell’automobile giocattolo seguono la macchina del padre, mettono la freccia in una diversa direzione e imboccano una strada che non li riporta più indietro. Ellen sceglie di vivere lontano dalla città, si ritira con il marito in una piccola casa di roccia rossa nello Utah a Bluff, una cittadina sperduta in mezzo al deserto, e da lì percorre i paesaggi desolati e selvaggi dell’Altopiano del Colorado, descritti nelle centinaia di sfumature di colore che declinano il contrasto principale tra l’ocra del deserto e il turchese dei fiumi e del cielo. Segue le rive del fiume Colorado, lo naviga con il marito che ha il ruolo di river ranger, e vi si immerge, alla ricerca di qualche tratto che mantenga i colori di un tempo, il color ruggine del limo, le sfumature di verde e i riflessi blu.

A questo punto della narrazione, insieme autobiografica e antropologica, l’autrice inserisce la storia della pietra turchese che «si forma in luoghi aridi, polverosi, luoghi di terra nuda, esposta. Abita esclusivamente la geografia dell’ascetismo, fra rocce spaccate dal sole e sporadica flora. In una palette di desolazione, un frammento di turchese è un foro aperto verso il cielo» (p. 136). Nel Mojave, ai confini tra California Arizona e Nevada, Ellen Meloy va alla ricerca dei siti delle antiche miniere della turchese, si mette in viaggio verso le miniere scavate nelle pendici del Monte Chalchihuitl, racconta miti e leggende della pietra che per gli indiani Navajo e Zuni è ornamento, gioiello e talismano.

 

Serpente a due teste, XV-XVI sec., mosaico in pietra turchese e conchiglia su base lignea, British Museum, London.


Diventa anche lei colore, nuotando nel mare delle Bahamas, nello Yucatan, dove si reca alla ricerca della storia della sua famiglia e suggestionata dal blu che i Maya chiamavano con nove nomi. Collocato tra il verde e il blu, il turchese è per l’autrice «il colore del desiderio doloroso, il colore che combina la tensione spiraleggiante del verde e la seducente pace dell’azzurro» (p. 354). Dopo altre mille avventure, mescolate a citazioni letterarie, interessi botanici per l’eros delle piante, curiosità sul mondo animale, Meloy conclude il suo libro parlando della sua collana di turchese, una collana che non cederà per nulla al mondo, nemmeno per un preziosissimo gioiello fatto di zampe iridescenti di coleottero: la turchese «è la pietra che acuisce la vista, dicevano i persiani. […] È acqua, dicono gli Zuni. È nutrimento per il cuore, sostenevano gli Aztechi. Per me è semplicemente istinto, e forse è tutto ciò che una persona può sperare di mettere in ogni singolo giorno: attenzione alla luce, slancio verso la bellezza che fugge» (p. 356). 

 

Nota bibliografica: una fonte importante per lo studio della turchese è un vecchio libro, del 1915, di Joseph E. Pogue, The Turquois. A Study of Its History, Mineralogy, Geology, Ethnology, Archeology, Mythology, Folklore, and Technology

Ringrazio Lino di Lallo per alcuni preziosi suggerimenti.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO