Ineditudine

3 Gennaio 2023

A un anno dalla morte pubblichiamo un testo inedito di Gianni Celati con un’introduzione di Andrea Ruggeri.

Si sa che dopo la morte degli scrittori c’è un accanimento a scovare quel che hanno scritto e mai pubblicato per non si sa quali misteriose reticenze, o solo perché la ritenevano roba venuta male, cioè merda. Con gli inediti gli scrittori morti vengono trattati dagli editori come “c’è vita oltre lui”. Che dire, gli inediti sono un business editoriale come un altro. I cattivelli insinuano che se uno scrittore schiatta senza lasciare inediti è già sospettato in vita di tirchieria letteraria, accusato di ineditudine, di non lasciare nulla agli affamati, o peggio, allo sciacallaggio editoriale. Premessa d’obbligo dato che quel che segue non è qualcosa di scritto ma di trascritto, sono parole ritrovate, niente a che fare con il tirar fuori manoscritti dal cassetto del defunto e propinarli come pepite. Non voglio dar roba da masticare ai cacciatori di inediti, ma fare un regaluccio a tutti gli affezionati a uno scrittore che hanno letto in pochi ma che molti dicono di amare. Il suo nome è Gianni Celati, tanto studiato per come scrive. Ho per le mani un ritrovamento casuale di una trascrizione da nastro su di un quaderno, un’ineditudine involontaria cercando altro nell’archivio del mio amico Mario Zanzani alias Marion Blando. In testa a un quadernello Pigna c’è scritto Sbobinata Fondazza Gennaio 1979. Gennaio, forse il compleanno di Celati. Ricordo occhio e croce: fu una “lezione” notturna che fece all’ultimo piano di una casa in via Fondazza 33 a Bologna, proprio davanti a Casa Morandi. Oltre a me c’erano Marion Blando Zanzani†, Luciano Luc Capelli†, Nicoletta Vitamina Billi, Conce Ventimiglia e una torta salata del pasticcere Laganà. A quel tempo Celati aveva un’autentica passione per l’insegnare al DAMS, alla scuola del dubbio, ma questa non divenne una lezione, è rimasto solo un torrente di parole stizzite proferite a bassa voce dopo molto fumo e vino. Ci sono ragionamenti sul sentimento di essere perduti, sull’aridità di una generazione, sul guardare e trovare il proprio posto tra le cose. 

Sta tutto nel quaderno Pigna di Marion Blando Zanzani. Tutto molto incerto. Un’ineditudine che inizia dove mi pare e piace, tipo qui. (Andrea Ruggeri)

…ciascuno è impegnato continuamente nel corso della vita in un lavoro di costruzione del di fuori. 

Il mondo non è qualcosa di già dato, le cose non sono già date, il mondo e le cose sono un continuo presente, tutto quanto sta insieme attraverso estenuanti lavori. Sto parlando di quel lavoro di riordinamento dell’esterno, che è necessario per trovare il proprio posto. 

Harvey Sachs, che è il fondatore di una disciplina che si chiama etnometodologia, aveva una frase essenziale “per essere uomini normali noi lavoriamo dalla mattina alla sera in modo infaticabile”. 

I rapporti sociali sono il prodotto di infinite mosse, sottigliezze. Guarda anche in letteratura! Come sia tramontato per sempre un orizzonte contemplativo! Il fatto di decidere se e come contemplare qualcosa, se in modo realistico o fantastico, non ha più senso perché la contemplazione non è altro che una costruzione ideologizzata. Il problema della costruzione è alla base di tutto.

Sì, va bene, si dirà, ma costruire cosa? Sembra che siamo tutti già belli che costruiti, e poi non vogliamo mettere sullo stesso piano la costruzione artistica e quelle quattro coordinate che ci servono per vivere nel mondo in mezzo agli altri? È proprio qui l’inganno. Non c’è alcun soggetto che costruisce. Non esistono cose, soggetti, forse non esistono nemmeno le persone ma esistono dinamiche. Si parla dell’altro come collega, amico, maschio, superiore, inferiore, etc, e ciò non vuol dire che l’altro sia qualcosa di tutto questo. Vuol dire solo che nella relazione costruisco in questo modo una dinamica. Ciò che l’altro è non ha importanza, perché è prima di tutte queste cose. 

Una macchina semantica. Esiste qualcuno che non è ancora un membro, che non è ancora categorizzato? Già, quando si nasce si diventa bambino. Non c’è luogo per soggetti, ossia quella del soggetto è ancora un’altra categorizzazione. Nei rapporti che si costruiscono ci si può presentare come pura macchina semantica, giovane, vecchio, maschio, femmina, bambino, adulto, oppure ulteriormente come dottore, idraulico, falegname, oppure in modo ancora più ravvicinato come dottore che ama i quadri, o che ha la mania di correre dietro alle bambine. Quest’ultimo livello di caratterizzazione è un avvicinamento nella dinamica delle relazioni sociali. Questo è la certezza dello sguardo dell’uomo borghese. La tematica borghese dell’esistenza coglie queste ulteriori possibilità, immagina, propone agli altri degli stimoli perché gli altri immaginino che io sia qualcosa oltre il maschio, adulto, giovane, vecchio, idraulico o meno. Ma c’è una incertezza dello sguardo? 

Che cos’è? Vale la pena domandarselo?

Questo significa che nei rapporti sociali sono più importanti altri elementi, incerti. Diciamo per esempio quelli che definiscono la situazione e lo status degli interlocutori.

Prendiamo qualcosa del genere. Prendiamo due vecchiette che parlano per strada, e si raccontano i loro fatti. L’uomo colto, di questa situazione ha sempre avuto una percezione anomala: queste due che stanno perdendo tempo. Se pensiamo che un regime famigliare è quello che è, continua ad essere una famiglia fintanto che tutti i suoi membri hanno modo di raccontarsi l’uno all’altro quello che fanno, e che crolla il regime famigliare quando uno dei suoi membri muore, o se ne va, o litiga con gli altri, e non continua più questo infinito racconto di cos’è la famiglia. Allora possiamo spiegarci perché le due vecchie si incontrano la mattina e si raccontano tutto. E questo vale in generale per tutti, raccontare è costruire la relazione. Si trova l’altro e con lui si costruisce il gioco sociale. 

La tua identità non esiste in alcuna misura se non c’è qualcuno che la conferma in quanto gliel’hai raccontata prima. L’identità è un racconto che per esserci deve essere ri-raccontato da un altro. 

Le due vecchie che s’incontrano non solo hanno il problema che l’una deve ri-raccontare l’identità dell’altra all’interno di un gruppo sociale e famigliare, hanno anche il problema di raccontarsi lo spazio, un lavoro costante di tipizzazione dello spazio, il vicino del terzo piano, il droghiere, il vicinato in genere, etc. E questa è una cosa che non può essere preorganizzata. Ci sono un sacco di pregiudizi sui rapporti tra gli umani. Partendo da problemi di valore è impossibile sospendere il giudizio su ciò che avviene. Si valutano i discorsi pieni piuttosto che i discorsi vuoti, ma non esistono differenze tra vuoto e pieno, non esistono discorsi vuoti. Queste manutenzioni possono avere categorie logiche diverse, per esempio quella del racconto puro e semplice, mio figlio ha fatto questo, oppure ci può essere un altro tipo di manutenzione, quella metalinguistica, si tratta sempre di un racconto, di una diceria, la critica letteraria per esempio non fa altro che fare dicerie su un tipo logico che si chiama metalinguaggio. Ci può essere un altro tipo di manutenzione che possiamo chiamare metacomunicativo, cioè a dire intanto che faccio qualcosa io ti segnalo che tipo di relazione abbiamo, se mi stai scocciando, divertendo, se sto scherzando. Oppure altri tipi di manutenzione, ma non c’è possibilità di dire che c’è un discorso vuoto, perché un qualcuno si presenta ad un altro qualcuno. Non esiste un discorso privo di senso, mai. 

Io penso che nella vita c’è bisogno di storie, di racconti, di mitologie, perché sono l’impalcatura della comunicazione umana, la maggior parte delle conversazioni riguardano storie sentite, storie nostre. Quindi come fare il pane, fare i tavoli, fare le case. Cioè una risposta a necessità organiche di tipo ambientale. È un’attività anonima e collettiva, riguarda l’impianto costitutivo della comunicazione umana. Allora tutto questo casino che la letteratura fa sul senso e le sue rovine, è privo di senso. 

Si rifiuta di riconoscere coerenza nel tuo discorso, la letteratura pensa che il tuo discorso è incoerente perché c’è qualcosa che non è dentro le parole, che riguarda il mio tipo di percezione, di categorizzazione. Per es. rispetto ai bambini e ai matti tendiamo ad avere una presa di posizione che ci siano dei non sensi. Il senso esiste in quanto accezione di coerenza percepito o costruito naturalmente o attesa o ipotizzata nel discorso altrui. Oppure può esistere una terza cosa: la simulazione di una incoerenza, il gioco di parole tende a mettere in rilievo che il senso potrà passare nel non senso. Il percorso di una generazione è stato sempre orientato sulla direzione di trovare l’identico e il differente, dove l’identico era il ripetitivo, ciò che si ripete sempre uguale a se stesso, e il diverso era di volta in volta fantasia, immaginazione o addirittura pazzia. Un brutto sentimento di presa del mondo, il di fuori è già tutto categorizzato come se veramente ciò che è là fuori avesse a che fare con le mie intenzioni e i miei desideri. Il mondo non corrisponde alle mie attese, lo diceva già Hegel. È ormai insopportabile trovare l’identico che si ripete, si deve avere un’ironia sul distacco, sul distanziamento dall’identico, dalla sua aridità.

La differenziazione è un desiderio impotente, o anche peggio. In un mondo in cui tutti siamo differenziati, tecnicamente siamo tutti uguali, questo è solo un paradosso. Qui c’è uno sterminio di una generazione, lo sterminio del sé. Una nuova forma di aridità, tanto più grave per chi voleva abbattere la cultura borghese. Però se si accetta la metafora dell’arido dobbiamo contrapporlo a quello che comporta tutto il contrario del lavoro di differenziazione, che comporta dedizione e lavoro fino alla morte. 

Ma dopo la catastrofe dell’arido sei vivo come prima e stai facendo quello che fanno tutti, sei perduto per il semplice fatto che sei al mondo. Essere perduti significa che prima o poi ti accorgi che sei nella tua bolla di parole e che tutti i pensieri di fuga non sono stati altro che il rafforzamento di questa bolla, ma nessuno è capace di vivere sentendosi perduto perché è un modo di dire. Finalmente ti rendi conto che essere perduti significa che devi avere cura del di fuori.

Dunque non spaventarsi del fatto di sentirsi una rotella insignificante nel meccanismo sociale, ma spaventarsi del fatto di non poter dire: io l’ho fatto, io lo so fare. 

Dillo a te stesso, senza farlo sapere troppo in giro.

E poi l’aridità è spesso uno stile, e mi ha stancato, non porta a niente, uno stile culturale vale un altro. Lo stile è uno dei vecchi principi di esaltazione della parola individuale, che oggi non ha più senso. Appunto, uno stile vale l’altro. Io avevo tentato un arretramento, avevo tentato di retrocedere verso modelli narrativi in disuso, come la favola, le narrazioni orali, la narrazione epica. Cioè retrocedere nel senso di regredire e lasciar minor spazio alle proiezioni e identificazioni che riportano una narrazione all’attualità. Non c’è epica nell’attualità. 

Una narrazione deve essere fuori dal tempo. E quando parlo di epica penso ai film di Ford, che mi sembrano l’ultima vera narrazione epica che abbiamo avuto al mondo. In Ford è come se tutte le azioni si assolutizzassero davanti agli occhi, sullo sfondo di un paesaggio inanimato. È questa l’epica, l’avventura. Poi i suoi personaggi sono sempre portatori di un codice, d’un codice di comportamento. Attraverso di loro non vedi quasi mai una psicologia, vedi solo un codice. 

I personaggi di Ford non si raccontano quasi mai, non si giustificano quasi mai, si installano nel paesaggio e basta. Ad esempio Henry Fonda nei film di Ford non ha mai gesti o accenni a qualcosa che puoi chiamare interiorità. Tutto quello che si ricorda di Henry Fonda è il suo modo di camminare e di guardare di traverso. A me è sempre sembrata una grande lezione narrativa, sulla possibilità di costruire storie solo su dati esterni. Tutto in esteriorità, sullo sfondo d’un paesaggio inanimato. Non trovo narrazioni moderne così convincenti, così distaccate dal mondo, così nude senza le certezze della letteratura. Senza l’indicibile della letteratura, le storie diventano incertezza su chi sei, cosa fai, in che modo vivi, diventano ricostruzioni avventurose, non più dati di fatto. Niente è più dicibile con sicurezza, tutto è solo congetturale. Tu cominci ad andare in giro dovunque con un doppio te stesso, che trasforma quello che vede in categorie verbali, in ovvietà, che parla e giudica e crede di sapere in che mondo vive. Poi questo doppio di te stesso impari ad osservarlo, ti rendi conto che è un automa, che parla e giudica e descrive quello che vede solo perché l’hanno programmato così. Ha impressioni, sensazioni, desideri, ed è lui il vero narratore, perché vuole sempre parlare di tutto, e ripetere storie sentite dire come se fossero le sue. Tu sai che vede solo quello che è programmato a vedere e dice solo quello che è programmato a dire. Così cominci a studiarlo bene questo doppio te stesso, e attraverso le congetture che fai su di lui, allora puoi raccontare delle storie. 

È questa l’incertezza dello sguardo.

Aggiunta:

Mi rendo conto che dopo aver letto si potrebbe pensare che tutto questo discorso fatto più di quarant’anni fa vada a parare contro quegli scrittori che si sentono impegnati a scrivere il Krishna delle loro esistenze, con tutta la fotta impegnatissima di chi fa letteratura. Credo che no. Invece sia rivolto ai persi a far niente che trovi in giro, quelli che ti raccontano una storia a voce, e poi se ne vanno camminando per chissà dove. 

Con spirito ignorante tutto questo è stato affidato ad Ermanno Cavazzoni. 

(A.R.)

 

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L'immagine in copertina è di ©Nicoletta Billi.

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