Jean Cocteau: una piccola enciclopedia

24 Febbraio 2023

“Ammiro gli Arlecchini di Cézanne e di Picasso, ma non amo Arlecchino” scrive Jean Cocteau (1889-1963) nel famoso Le Coq et l’Arlequin, manifesto antimanifesto del 1918 fatto di aforismi, contra Wagner e contra l’elusività impressionista, per la riscoperta del gallo francese (“che ripete due volte Cocteau”), della semplicità emotiva (non della povertà), della linearità della melodia essenziale, come in Erik Satie (come poi nel gruppo dei Six). “Audacia di aprire le gabbie del sublime” si legge.

Musica di tutti i giorni, come quella del caffè-concerto, come la “musica di arredamento” di Satie. L’arte guardi al circo, al music-hall. Come fa quella storia rivoluzionaria, Parade, musica sempre di Satie, messa in scena da Léonide Massine nel 1917 per i Ballets Russes, in cui due imbonitori, un prestigiatore cinese, una ragazzina americana e due acrobati di fiera cercano di attirare gli spettatori nei loro baracconi con numeri eccentrici eseguiti in strada, mentre ai suoni dell’orchestra si sovrappongono rumori di clacson, ticchettii di macchine da scrivere, suoni di bottiglie e di una pistola. Azzerata la psicologia e il melodramma, scoppia la vertigine della città moderna, fantasticata nella meraviglia delle povere, mirabolanti attrazioni del circo.

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Al rifiuto di Arlecchino corrisponde un’opera che assomiglia al suo vestito, fatto di pezze di tanti colori, come scrisse, con malcelata cattiveria, un suo segretario, spia e uomo della Gestapo alla fine della vita, Maurice Sachs, un’opera che è uno “straordinario pot-pourri di petali strappati ai fiori più diversi, e che si sono immancabilmente seccati tra le sue mani”.

Cocteau fu come la città moderna un labirinto, una vertigine, una fuga continua tra l’arte povera e la raffinatezza estetica: surrealista prima del surrealismo (il termine che fa capolino nel 1917 in uno scritto dell’amico Apollinaire), legato a Satie e ai Six, autore di balletti e di drammi in prosa, regista di film che fanno scivolare dal piano della realtà, anche più banalmente borghese, alle profondità della psiche attraverso i salti dell’analogia e della metafora. E poi disegnatore, figura intima di grandi della moda a iniziare da Coco Chanel, salottiero dandy, oppiomane, mistico in cerca dei riscatti della fede con Maritain. E ancora: scopritore di talenti, come Raymond Radiguet, suo amante, la cui morte assai prematura lo prostrò in una crisi esistenziale profonda.

Mentore di Jean Genet, prima che Sartre gli scippasse la primogenitura intellettuale sul grande scrittore irregolare sommergendolo sotto le oltre cinquecento pagine di Santo Genet commediante e martire. Amante ancora di Jean Marais, attore che fu interprete di molte sue opere. Collaboratore di Stravinskij, di Satie, come ricordato, di Auric e Milhaud, soprattutto, tra i Six. Accademico di Francia e autore scandaloso dei Parenti terribili, una pièce borghese tutta giocata sull’incesto. Amante della boxe e della corrida, amico di boxeur e di toreri, dei due De Chirico, presidente della giuria del festival del cinema maledetto (1949).

Esploratore dell’angelico e del banale, scrittore di un altro famoso pamphlet, Il ritorno all’ordine, anche quello composto di vari brani, propugnatori della necessità di tornare al classico, di onorare l’angelo che è in noi, che continuamente offendiamo, mentre dovremmo essere noi i suoi custodi. Cocteau passa attraverso specchi per raggiungere altri mondi, come il suo Orfeo, il protagonista del dramma del 1927, dove il mito è calato in un salotto contemporaneo dominato da un cavallo e dallo spiritismo, riscattato dall’Angelo Heuertebise, che colpisce (heurte) e frantuma (brise), figura liminale, all’apparenza operaio riparatore di vetri, incarnazione della dolcezza del terribile, abitatore di una terra di nessuno tra cielo e inferno.

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Fotogramma del film Il testamento di Orfeo (1960).

Come raccontare questo artefice cui sta stretta ogni definizione, quella di regista, di autore, pittore, performer, sceneggiatore eccetera, riconoscendosi solo in quel sinonimo appunto della parola artefice che è poeta? Con un libro come la sua opera fatto di pezzi, di focalizzazioni e divagazioni, una piccola enciclopedia Cocteau, che diventa un viaggio per frammenti in un Novecento ‘moderno’, che sembra portare già verso le sponde composite della postmodernità. 

Tentano con buon esito l’impresa Luca Scarlini, autore uso al brillante pastiche, e Marco Dotti in Cocteau AZ, quinto volume di una serie Electa che raccoglie la multiforme vita e opera dell’autore in 124 lemmi, che percorrono opere, incontri, amicizie, disgusti. Il libro segue quelli dedicati a Gianni Rodari, Alberto Savinio, Saul Steinberg, Virginia Woolf.

“Jean Cocteau vive di contraddizioni continue, di maschere che cancellano il volto e di volti che sembrano travestimenti” scrivono nella postfazione i due curatori. Ricordano come i fuochi d’artificio della sua presenza sulla scena culturale servano anche a distogliere da una intimità segreta, che si nutre dell’idea di poeta come veggente, che soffre l’amore e la morte o l’abbandono dei suoi amanti, ma anche dei suoi amici. Sottolineano come dopo la scomparsa di Radiguet, poco più che ventenne, Cocteau passi un momento di grave crisi, che lo porta prima all’oppio e poi all’incontro col cattolicesimo di Maritain, in una conversione innestata su una personalità incline al misticismo. Tratteggiano, Scarlini e Dotti, il suo anticipare il nostro mondo, prendendo su di sé, scrittore, ruoli e modalità di solito demandati ad altre arti, fondendo arte e vita ben prima di Andy Warhol.

Enumerano i tanti giovani di talento scoperti, lanciati o sostenuti, facendo i nomi iconici di Orson Welles, Truffaut, Godard, Edith Piaf, tra gli altri, oltre quelli già ricordati. E notano: “Sul suo personaggio si sono stratificate le sue invenzioni, ma madame Colette, che molto gli fu legata, nell’età sua maggiore, spiegò chiaramente che sotto quella girandola c’era un’anima continuamente colpita dalle crudeltà del mondo, che assumeva continue maschere come forma di difesa e di offesa nel gran teatro del mondo”.

La poesia, “una lingua a parte, una matematica senza prove”, fu la sua guida e il suo salvagente, contro i naufragi, contro l’eclettica divagazione, soprattutto contro la disposizione sempre più esclusiva all’utile montante nella società di massa. Cocteau esplorò l’invisibile e l’indimostrabile, in una poesia e un’attività vorticose, che chiedevano l’abbandono.

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Foto di Philippe Halsman.

La postfazione tira i fili, ma il bello del libro sono proprio i diversi panorami che si aprono in ogni voce, in ogni pagina. È un libro da leggere tutto d’un fiato per rimanere senza fiato, e poi da aprire a caso per rileggere una, due singole voci; o viceversa da esplorare saltando di qua e di là, per poi ripercorrerlo dall’inizio alla fine per cercare di ricomporre il quadro. 

Cocteau è come il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, una delle sue grandi passioni: una figura che sembra non modificarsi mai, sempre alla moda, eternamente giovane e brillante, ma la sua personalità è percorsa da correnti sotterranee che lo mutano anno per anno, giorno per giorno, lo incrinano, lo esaltano, lo prostrano. Egli è l’odore di sterco di cavallo della pista del circo, che sa della meraviglia dell’infanzia, ed è il viaggio iniziatico nell’oltretomba di Orfeo, oltre gli specchi dell’arredamento borghese, dentro gli specchi, dall’altra parte. È rivoluzione novecentesca e ritorno al mito greco, ad Antigone e alla macchina infernale di Edipo, moderno e antico, indisciplina e ordine, come il suo grande amico e ammiratore Yukio Mishima. È la donna abbandonata che parla al telefono disperata all’amante lontano del suo La voce umana, musicata da Darius Milhaud e portata al cinema da Roberto Rossellini con Anna Magnani, “che ha girato con crudeltà il documentario della sofferenza di una donna”, mostrando “un’anima, un volto senza trucco”.

È strazio e estasi, come Orfeo: “che tratti di omosessualità, di oppio, di lutti, oppure di speranze, di giovinezza, felicità il compito del profeta è sempre sospeso tra dolore e gioia”. È viaggio attraverso i regni, gli stati, nei film visionari, surrealisti (anche se lui con Breton fu in polemica). È un occhio che ci guarda e si guarda, mille occhi, come quelli della Cappella Saint-Pierre, donata da Cocteau ai pescatori della comunità di Villefranche-sur-Mer.

Cocteau è il Novecento delle provocazioni, delle sperimentazioni, dei richiami all’ordine; del cinema, dello sport, della moda, del bel mondo, della canzone. È il Novecento scettico, materialista, iconoclasta, e quello della fede. Ed è quello della riscoperta del corpo in una danza che rompe gli schemi, con una musica fatta per essere ballata, dipinta, trasformata in mascheroni ridicoli e grotteschi, fuori dal soggetto e dal simbolo, dal significato, in storie di jazz bar come in Le boeuf sur le toit di Milhaud, una sarabanda da music-hall interpretata dai clown Fratellini in cui “un boxeur, un nano nero, una donna elegante, una russa vestita alla maschietta, un bookmaker e un signore in abito da sera” si incontrano e si scontrano. 

Cocteau è pure molti tradimenti subiti, primo tra tutti quello della morte che scompagina la gioia di vivere, la leggerezza. Poi quelli degli amici passati ai nazisti e di lui stesso vicino a collaborazionisti, o almeno non schierato, “non schierato affatto e, dunque, semplicemente poeta”, ma perciò stesso “incapace di cogliere le conseguenze politiche delle sue azioni” o “semplicemente impegnato a non uscire di scena”. È un uomo solo, circondato da amici e nemici, che gode a essere sempre sotto i riflettori, uno che giostra in un mondo complesso in cui le sue mille maschere si confondono e sbiadiscono perché tutto, gradualmente, sempre di più, diventa spettacolo?

Il libro, nonostante la postfazione, giustamente non tenta ampie sintesi. Costruisce il labirinto in cui muoversi: chi legge deve trovare da sé il filo per uscire, o per rimanere avviluppato dalle spire di una continua danza. 

Cocteau A-Z, a cura di Luca Scarlini e Marco Dotti, Electa, pp. 230, euro 34.

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