La scrittura della destituzione? / Kafka. Nella tana della metafora assoluta

18 Marzo 2019

È online K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, un progetto nato dalla collaborazione tra il laboratorio CECILLE dell’Università di Lille e il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Messina. La dirigono Pierandrea Amato e Luca Salza. 

Il primo numero monografico è dedicato a Kafka (Kafka, la scrittura della destituzione?) ed è disponibile a questo indirizzo

Ne presentiamo qui un estratto, la prima parte di un saggio del germanista Gianluca Miglino. 

 

Quando nell’inverno tra il 1923 e il 1924 scrive il frammento narrativo noto, a partire dalla prima edizione di Max Brod, con il titolo Der Bau (La tana), Kafka ha ormai alle spalle gran parte della propria parabola letteraria. Alla fine di agosto del 1922 è stato infatti costretto a interrompere la composizione del suo ultimo grande romanzo, Das Schloss (Il castello), a causa di un devastante crollo nervoso. E nel dicembre, proprio durante il lavoro alla Tana, consegna allo stesso Brod il testamento con il quale ordina all’amico di bruciare tutti i suoi manoscritti e di risparmiare soltanto i pochi racconti pubblicati. Il parallelismo tra questo testamento, la sua definitiva rinuncia alla letteratura come militanza – ormai solitaria – contro gli spettri del mondo moderno, e la stesura del racconto è un primo elemento per contestualizzare e focalizzare il ruolo cruciale che questo testo ha nell’opus kafkiano. L’ipotesi che guida questa analisi è infatti che l’opera di Kafka sia il risultato di una precisa evoluzione interna guidata da una serie di movimenti di progressiva, volontaria, progettata, oltre che sofferta destituzione.

 

In quella che non potrà fare a meno di essere una ricostruzione breve e sommaria di alcune tappe fondamentali della produzione e della riflessione poetologica di Kafka, il punto nodale è sicuramente l’esito, compiuto e fallimentare al tempo stesso, del Processo, romanzo che lo scrittore decide di mettere da parte nel corso del 1917, anno per molti versi cruciale nella biografia, esteriore, poetica ed interiore, dell’autore. Come ha mostrato e ribadito un’infinita letteratura critica, pur essendo il romanzo irrisolto in alcuni essenziali nodi centrali, la conclusione, insieme al capitolo che contiene la leggenda dell’uomo “dinanzi alla porta della legge” e la sua interpretazione, costituisce un primo chiaro punto di arrivo del percorso letterario di Kafka. Se è vero quanto scrive Giorgio Agamben in Nudità, nel Processo Kafka aveva messo infatti in atto una strategia volta a chiamare in causa l’essere stesso del diritto. La colpa di Josef K. consiste infatti propriamente in un’autocalunnia, un reato paradossale, in cui l’accusato da un lato sa di essere innocente, ma in cui, nel momento in cui si autoaccusa, diventa colpevole (di calunnia, appunto). È dall’autocalunnia che prende avvio nel romanzo un processo in cui non solo in causa non è nulla di preciso, ma in cui ad essere chiamata in causa è l’essenza stessa del processo in quanto “accusa”, trasformazione dell’essere in “causa”, in cosa.

 

Illustrazione di Guglielmo Manenti.


La sottigliezza dell’autocalunnia consiste nel fatto che essa è una strategia che tende a disattivare e a rendere inoperosa l’accusa, la chiamata in causa che il diritto rivolge all’essere. In altri termini, per Kafka l’unico modo di affermare la propria innocenza di fronte alla legge sembra essere quello di accusarsi falsamente, mettendo così in moto un processo che punta a destituire l’essenza del diritto. La calunnia che Josef K. fa nei confronti di sé stesso è quindi un mezzo di difesa contro le autorità che minacciano continuamente l’esistenza, irretendola nella logica della colpa, nella dimensione di una legge che appare sempre come una lancinante e grottesca caricatura di una Legge originaria a cui non è più possibile avere accesso. Ma, come Kafka sperimenta proprio attraverso la stesura del romanzo, si tratta di una strategia insufficiente, perché il diritto risponde trasformando in delitto la sua stessa chiamata in causa e facendo dell’autocalunnia, che doveva renderlo inoperoso, il proprio nuovo fondamento. La frase lapidaria che conclude il romanzo testimonia appunto del carattere radicale e fallimentare di questa strategia. Nel momento della condanna, che è anche esecuzione, Josef K., una delle figure più limpide dell’uomo della conoscenza e della ricerca della verità che attraversano l’opera di Kafka, diventa (come un) animale, tentando, dopo il fallimento della sua sottile strategia di destituzione del diritto, di sottrarsi alla presa della legge e alla colpa. Dopo aver cercato di destituire l’essenza della legge attraverso l’autocalunnia, nel momento della condanna-esecuzione il divenire cane è infatti un gesto di sottrazione, l’ultima mossa di una strategia disperata volta a disinnescare la logica della colpa, giunta, col romanzo, a un suo paradossale compimento.

 

Kafka impiegherà diversi anni ad elaborare il residuo di questa trasformazione in animale, quella “vergogna” che gli sopravvive, che è la vergogna dell’essere uomo della letteratura, di aver sacrificato alla pratica colpevole e solitaria, oltre che narcisistica, della scrittura tutta la sacralità della vita. Alla fine del 1917 scopre di essere ammalato di tubercolosi, l’equivalente di un’altra condanna a morte che però per lui significa, neanche tanto paradossalmente, la possibilità di dedicarsi alla letteratura in maniera totale, sciogliendo tutti i legami – dai progetti di matrimonio, al lavoro d’ufficio, ai legami con l’ambiente letterario delle avanguardie praghesi – con quel mondo ebraico-occidentale che era stato il termine della sua lotta con e nella letteratura (la westjüdische Zeit è l’unica categoria storica consapevolmente impiegata da Kafka nei suoi scritti, e significa per lo scrittore l’epoca della contaminazione delle culture, della storia mutilata, della tradizione ridotta a un mucchio di oggetti fuori uso). In più di quattro anni, fino al gennaio del 1922, non scrive quasi nulla (tranne alcuni fondamentali frammenti narrativi, i diari, i cosiddetti aforismi di Zürau, ovviamente tutti essenziali a seguire l’evoluzione interna della sua poetica), fino alla «decisione notturna» di portare avanti l’«assalto all’ultimo limite terreno» di cui parla nei diari tra il 16 e il 22 gennaio 1922, che ovviamente è la decisione di affrontare, con la stesura del Castello, la battaglia cruciale della propria opera letteraria. 

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