Definisci “bambina”. La voce di Hind Rajab

25 Settembre 2025

Vincitore del Leone d’Argento-Gran Premio della Giuria all’ultima Mostra del Cinema di Venezia (ne avevamo parlato qui e qui), La voce di Hind Rajab debutta oggi nelle sale italiane, distribuito da I Wonder Pictures. Non si tratta soltanto di un’opera originale e di qualità, ma anche di un film spaventosamente capace di rimetterci in ascolto del mondo.

k

Cerchiamo una parola che ci aiuti a riflettere su cosa fa succedere La voce di Hind Rajab. Il termine migliore è “dentro”, perché tutto, cinematograficamente, accade dentro: dentro la stanza del centro operativo dei soccorritori volontari della Mezzaluna Rossa palestinese, in Cisgiordania, dove è ambientata l’azione del film; dentro l’abitacolo della macchina crivellata da trecentocinquantacinque colpi di un carrarmato israeliano, e da cui proviene la richiesta di aiuto dell’unica bambina ancora viva; dentro la sala cinematografica, dove chi assiste al film resta in ostaggio, e in qualche modo anche costretto, in una morsa di tensione progressiva, a udire e vedere qualcosa che, se non fosse stato proprio per il cinema, si sarebbe riusciti a continuare a ignorare. Stavolta invece ci tocca sentire, non possiamo simulare, perché la struttura drammatica del film ci rinchiude in una scena unica, e ci sprofonda dentro la voce di Hind Rajab: bambina palestinese, morta il 29 gennaio 2024, a cinque anni e mezzo, mentre stava cercando di scappare in auto insieme agli zii e ai tre cugini. Sopravvissuta al primo assalto, la piccola è rimasta vittima di un ulteriore attacco, rivolto anche contro l’ambulanza che stava andando a salvarla. Hind è morta dopo aver passato molte ore nascosta, chiedendo aiuto in telefonate di cui sono rimaste le registrazioni e da cui è partito il progetto del film realizzato dall’autrice tunisina Kawthar ibn Haniyya.

A proposito di questo massacro, il governo di Israele ha più volte negato la presenza di truppe nella zona, ma grazie alle immagini satellitari e alle indagini condotte da giornalisti è stata provata non solo la presenza dei carrarmati ma l’aggressione con centinaia di colpi, malgrado la presenza di civili, tra cui bambini – quattro in questo caso, che si aggiungono alle decine di migliaia di piccoli palestinesi finora uccisi nel genocidio contro Gaza.

Mescolando tecniche documentarie e linguaggio del cinema di invenzione, il film ha ricostruito un corpo di immagini e di azioni intorno alla voce reale di Hind, con cui gli attori hanno interagito direttamente sul set. Sarebbe stato osceno riprodurre la voce, fingerla; in questo caso sì che si sarebbe trattato di sfruttamento e vampirismo. Il titolo stesso del film, infatti, lo spiega bene: Kawthar ibn Haniyya, invece di usare le registrazioni come testimonianza, intende proprio mettere al centro l’esistenza, insilenziabile stavolta, della voce di questa piccola, vivace e intelligentissima creatura, che dice cose spaventose per la sua età, frasi adulte che nessuna bambina dovrebbe conoscere e aver bisogno di pronunciare (le più terribili: «Morirò presto anche io» e «Venite a prendermi!»). Parole che interpellano chi le ascolta, nella sala operativa ricostruita dal racconto; ma interpellano anche noi, che eravamo fuori finora, ma invece siamo tirate dentro. Non siamo più soltanto davanti al dolore degli altri; diventiamo partecipi di ciò che sta succedendo a Gaza.

Tutto il film, ad eccezione delle ultime immagini, avviene dentro la stessa stanza operativa. Lo spazio del cinema, inteso anche come spazio spettatoriale, diventa campo di complicazione, co-implicazione e costruzione del senso: per questo sbaglia chi volesse impoverire l’importanza (anche politica, certo) di questo film e dei premi che ha ricevuto, svalutandone le risorse formali.

Andando avanti in presa diretta, per tutto l’arco del film vediamo solo quattro persone. C’è l’operatore Omar (Motaz Malhees), che dopo aver ricevuto la richiesta di soccorso proveniente dalla Germania, da uno zio dei bambini a bordo della macchina, richiama il numero indicatogli e stabilisce il contatto dapprima con una donna, uccisa in diretta, e poi con una voce di bambina, che a quanto pare è l’unica ancora viva (ma lei per adesso crede che gli altri stiano dormendo). Nella stessa stanza, che fino a pochi minuti prima si presentava come un normale ambiente di lavoro (scrivania, computer, carta appallottolata sul tavolo), c’è anche il responsabile (Mahdi: Amer Hlehel), che esita a cercare e mandare subito dei soccorsi perché, fin quando non sarà assicurato un corridoio, anche l’ambulanza potrebbe essere attaccata. Oltre ai due uomini, che spesso crollano, perdono la pazienza e si colpiscono persino, ci sono anche la direttrice della sala operativa (Rana: Saja Kilani), che gestirà la maggior parte della comunicazione; e Nisrine (Clara Khoury), la psicologa, che sta accanto a lei. Sono due donne differenti, anche nell’aspetto e nella tradizione di mostrare o non mostrare i capelli: entrambe disperatamente forti, insieme.

k

Guardando questo scenario, le uniche due cose certe che possiamo dunque dire su quale avrebbe potuto essere il futuro di Hind, se non fosse stata uccisa, sono: in primo luogo che nel mondo che la aspettava abitavano usi culturali diversi, e la possibilità stessa di una convivenza tra diversità (che questo messaggio provenga dalle donne è significativo); in secondo luogo, definendo questa situazione, si può aggiungere che era straordinariamente vivace e intelligente, potremmo perfino dire geniale. Riguardare la foto (già circolate sui social, ma che ritroviamo nei titoli di coda), in cui la piccola indossa una toga, stare dentro quella scena dopo averla sentita parlare, fa molto più male di quando, affidandoci solo alle immagini, potevamo solo immaginare un travestimento giocoso. La sua voce, anche cinematograficamente, dà profondità alle immagini e contemporaneamente ne buca l’illusionismo estetico. Ventimila bambine e bambini uccisi non sono soltanto il numero di una strage di innocenti ma anche l'orribile sottrazione di tutte le intelligenze e le creatività di cui quelle piccole persone anche da adulte avrebbero arricchito il mondo.

Non si piange, durante la visione di La voce di Hind Rajab. Si piange dopo, casomai, quando si torna fuori, con addosso l’esperienza appena fatta di quanto possa essere stata forte e grave, sinora, la nostra capacità di incredulità all’orrore che sta accadendo. Anche grazie all’uso dei neri, per staccare le scene, e dei fondi scuri su cui si alzano o restano immobili le onde sonore dell’audio via via disturbato dalla debolezza della rete, mentre guardiamo e tentiamo di ascoltare, proiettiamo a nostra volta sullo schermo l’inimmaginabile; come se, finalmente, si aprisse spazio a una sorta di ritorno del rimosso collettivo – che è cosa del tutto diversa dal consumo televisivo e voyeuristico di una disgrazia eccezionale e fortuita. Non c’è intrattenimento del dolore, nel film di Kawthar ibn Haniyya; c’è una voce bambina che chiede, che ci chiede: «venite a prendermi». In assenza di immagini, ecco che il cinema ci ha fatto vedere e ha fatto esistere l’osceno, anche di noi stessi. Un genocidio non è soltanto un crimine misurabile in termini numerici e demografici. Chi sta compiendo un genocidio commette un crimine di rilevanza internazionale e deve essere condannato da un tribunale sovranazionale.

Tre giorni fa, lunedì 22 settembre, in occasione dello sciopero generale organizzato nelle piazze di tutta Italia, più di mezzo milione di persone ha manifestato e dato voce contro il genocidio in atto a Gaza. Sono loro, il popolo che dice basta (“Enough”), la parte reale e offesa dalle sparute azioni scellerate di distruzione di qualche vetrina. Su uno degli striscioni più belli alcune ragazze avevano scritto: «Facciamo silenzio quando i bambini dormono, non quando muoiono».

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO