(Le difficoltà del) trasformare un lamento in danza

11 Febbraio 2015

Nelle pagine finali del suo corpo a corpo con alcuni frammenti di Hegel – il Systemfragment von 1800 (Frammento di sistema del 1800) e un piccolo testo dal titolo Liebe (Amore), che il filosofo tedesco compose in un qualche momento intorno ai trent’anni –, Judith Butler, che da sempre si definisce «perversamente hegeliana», si sofferma su un passo che ha il pregio di essere oscuro e, a un tempo, il difetto di sporgere il testo sull’abisso; un passo la cui irruzione, nell’originale hegeliano, viene presentata da Butler come un autentico «cambiamento di tono», come «un’alternativa» rispetto al modo in cui, fino a quel momento, si sono succeduti uno dopo l’altro gli argomenti. Nelle riflessioni conclusive del Frammento di sistema, si legge, Hegel – «curiosamente» – «si richiama alla danza»: «la danza», commenta Butler, «sembra dare un significato concreto all’idea di una legge vivificata e vivificante» – «la danza manifesta, infatti, quel momento in cui i corpi prendono vita in un modo che, certo, segue delle regole, ma non si conforma precisamente a qualche legge». Questa immagine della danza – o, meglio, questo sbrégo, liberatore, sulla scena dei corpi in relazione, che danzano – sembra consentire a Hegel di riprendere a respirare, di approssimarsi a una via d’uscita dalle varie impasse concettuali nelle quali si è dovuto imbattere nel momento in cui ha deciso di intraprendere la propria meditazione sull’amore – o, sarebbe più corretto dire, nel momento in cui si è trovato a sondare fino in fondo «che cosa mantiene in vita ciò che nell’amore è vivente».

 

                                       

Sondare ciò che «mantiene in vita ciò che nell’amore è vivente» equivale a meditare sull’amore? Si tratta di due cose interscambiabili? L’interesse di Hegel, in effetti, non sembra essere orientato alla comprensione dell’essenza dell’amore («in seiner innersten Natur»). Il filosofo, al contrario, sembra aver già sgomberato il pensatoio da ogni intento astratto: Hegel, scrive Butler, «non ci dice niente sull’essenza dell’amore in ogni tempo», «ma ci parla solo di come è costituita l’essenza dell’amore nelle condizioni di un sacrificio obbligato». E tuttavia, c’è sempre qualcosa che sfugge al controllo, al resoconto cosciente che si tenta di dare del fenomeno amoroso: il filosofo, analizza la sua commentatrice, nei brevi frammenti in cui i registri e le proposizioni si accavallano, i punti di vista soggettivi si tradiscono, e le dichiarative iniziali infine tornano indietro o svaniscono, «compie un capovolgimento che appartiene al tema quanto alla sua esposizione». Al punto che se Hegel ci comunica qualcosa, involontariamente, sull’essenza dell’amore, è che esso

 

è reversibile, o che esso stesso si capovolge, e noi dobbiamo trovare un modo di scrivere che riconosca e spieghi questa reversibilità. La modalità di presentazione deve conformarsi alle esigenze di ciò che viene presentato; ciò che “è”, per essere, richiede la sua presentazione. Detto in altri termini, la presentazione dell’amore è uno sviluppo o un’elaborazione temporale dell’oggetto dell’amore; quindi non possiamo distinguere esattamente l’amore stesso come oggetto, tema o problema, dalla sua presentazione (ciò non vuol dire che l’oggetto possa essere ridotto al modo in cui viene presentato, ma che l’oggetto diviene accessibile solo tramite questa presentazione).

 

Questo perché, continua Butler, in un moto quasi benjaminano,

 

l’amore non può rimanere un sentimento muto ed interiore, ma richiede in qualche modo la sua presentazione. Con questo non intendo dire che ogni amore, per qualificarsi come tale, debba essere dichiarato o confessato, ma solo che […] l’amore deve [potersi sviluppare] nel tempo; deve assumere una certa forma o figura che non può essere limitata a una sola proposizione. Ci deve essere una specie di catena di proposizioni dichiarative e interrogative, che non solo registri una crescente sicurezza e poi il suo disfarsi, ma dia anche l’avvio a impreviste forme di conclusione […]. Alla fine, il fenomeno dell’amore, non importa quanto muto o dichiarato, quanto interiore o esteriore, ha una sua propria logica – una logica che si dispiega o si sviluppa nel tempo e che, come vedremo, non fiorisce mai effettivamente in una forma definitiva.

 

Se dunque ciò che di essenziale vi è nell’amore consiste nella sua «presentazione», nella sua restituzione tortuosa, e processuale, a quel «fuori» da cui proviene – tale movimento estatico irromperebbe forse solo indirettamente, a dispetto di ogni intento cosciente? In Hegel, l’esigenza dichiarata di analizzare il fenomeno dell’amore nella sua forma – potremmo dire – «immanente», così come si dà nelle condizioni di un «sacrificio obbligato», e non in ogni tempo, lo porta a rifuggire ogni possibile rifugio nella trascendenza; ma questo non rende meno problematica la sua riflessione. Hegel, nel richiamarsi alla «danza», per quanto non riesca a padroneggiare o a gestire totalmente la sua propria scrittura, sta forse manifestando il desiderio di invocare una forma sociale dell’amore che sia in grado di render conto di questo movimento, di questi «rivolgimenti» – che sia dunque in grado di mantenere un qualche rapporto critico e trasformativo con la «legge»? E un’altra sarebbe la domanda, più contemporanea, da sottoporre al dettato hegeliano – dal quale, tuttavia, non riceveremo risposte immediate: se l’amore deve trasformarsi in danza, aggirando quella staticità, quell’immobilismo, a cui è sacrificato, significa che esso può preesistere ai suoi schemi di intelligibilità, alle sue forme sociali – che proprio Butler ha così contribuito a mettere a fuoco con le lenti dell’eteronormatività, della norma monogamica, del validismo ecc. –, e che al contempo può eccederli?

 

Lei disse sì, regia Maria Pecchioli, 2014

 

«Nelle circostanze di un sacrificio obbligato», si domanda Butler, «quale vita affettiva è possibile per gli individui?». Questo «sacrificio obbligato» è ciò che consente a Hegel di stabilire una distinzione fondamentale tra l’amore inteso come filantropia, come essenza del messaggio di Cristo (che Hegel analizza in maniera più approfondita altrove, nel coevo Lo spirito del cristianesimo e il suo destino), e l’amore, invece, come «relazione vivente tra eguali in potenza» – come «luogo» in cui «si trova la vita stessa come una duplicazione di se stessa e come sua unità». Hegel ci chiede di fare uno sforzo immaginativo, simile a ciò che fanno i filosofi contrattualisti, quando ci chiedono di immaginare uno «stato di natura» privo di leggi. Egli ci esorta qui a pensare alle prime comunità cristiane, in cui il fondamento etico del messaggio evangelico, quell’amore filantropico «che si deve estendere a tutti, anche a coloro di cui niente si sa», «con cui non si è in nessuna relazione», impone agli individui di sacrificare «ogni oggetto» in favore del «bene comune». In tale circostanza, secondo Hegel, l’amore si realizzerebbe nei termini di «un ideale non soddisfatto», ambiguamente egualitario, perché in seno a esso si manterrebbe inalterata la coscienza di un «padrone» e di un «servo». Inteso in questi termini, dunque, l’amore cristiano lavora al servizio di una produzione costante della scissione tra soggetto e oggetto, ostacolando paradossalmente proprio «la vita stessa, come duplicazione di se stessa e come sua unità» – ossia quel sentimento «in cui il vivente sente il vivente», in cui l’idea di «unità» è ben lungi dall’essere una meccanica giustapposizione di parti.

 

L’affermazione di questo paradigma etico e sociale sacrificale si ripercuote direttamente sulla «vita affettiva», impregnandola di un’irrisolta «oggettività». Se la religione, come condizione di appartenenza alla comunità, richiede agli individui di privarsi dei propri «oggetti», costringendoli a vivere in un mondo di «oggetti morti», gli individui sono privati anche di «una relazione vivente con gli oggetti» – potremmo dire, di una relazione di «uso». In tale condizione di consumo, gli individui continuerebbero a vivere, e ad amare, rapportandosi a una serie di oggetti e instaurando una «relazione vitale con ciò che è morto»: «gli oggetti morti, infatti, costituiscono l’altro termine di una relazione d’amore». Nelle condizioni di questo sacrificio, in ogni caso, la proprietà non è annullata, bensì prodotta: essa consiste, in senso proprio, nell’idiozia (dal greco idion, «ciò che è proprio»), per cui ciascuno vive attaccato ai propri oggetti, e li custodisce imperiosamente, con i quali però la relazione vivente, che deriva dall’uso, è perduta e subordinata a una relazione mortifera, inerente il mero consumo, la mera disposizione egotistica. E nelle condizioni di questo sacrificio non è annullato nemmeno l’amore: «esso assume piuttosto una nuova forma», commenta Butler,

 

si potrebbe persino sostenere che l’amore assume una specifica forma storica. Chi vive in una tale configurazione non ha solo perso il mondo degli oggetti ma continua ad amare qualcosa che, per lui, è diventato morto; allo stesso tempo, confida nel fatto che la sua perdita verrà compensata, che raggiungerà una qualche eternità, o infinità, e allora sarà libero da tutta la materia.

 

Se nelle condizioni di questo sacrificio «la materia» deve essere messa fuori gioco, deve diventare «morta», allora a morire è anche la «materia corporea». Se l’individuo perde e continua ad amare la propria materialità corporea ormai morta, egli diviene morto a se stesso – proprio nel restare aggrappato, «melanconicamente», a quella propria materialità con cui non ha più una relazione vivente, ma alla quale non può rinunciare, poiché su di essa è inevitabilmente schiacciato: «ciò che per lui è morto è, nel contempo, il presupposto del suo vivere». L’amore, così come si manifesta in seno a questo «supplizio», è dunque intriso di quella resistenza che si oppone all’«unificazione» tra soggetto e oggetto: è innanzitutto il corpo, vissuto ora come una proprietà con cui si ha una relazione mortifera, a ostacolarla.

 

Gustave Doré, Paolo e Francesca

 

Se il sacrificio produce varie forme di morte – della relazione vivente tra gli individui, sostituita da relazioni di dominio, così come di una relazione vitale con la propria materialità, lacerata dalla paradossale compresenza di automortificazione e di narcisismo –; se il sacrificio assurge dunque a «pratica sociale per cui l’omicidio o il suicidio è stato trasformato in principio strutturale», ciò significa che il presupposto per una forma sociale dell’amore come possibilità di «sentire ciò nell’altro è vivente» consista, per opposizione, proprio in una riappropriazione del concetto di «vita»? E il corpo, che di questo concetto astratto non è che l’incarnazione – il corpo può essere pensato o vissuto fuori da ogni soglia di proprietà – e dunque ri-appropriato, non per essere fatto proprio, bensì per essere restituito a ciò che gli è proprio? Se, come abbiamo detto, per Hegel la proprietà è sempre mortifera, ciò significa che l’amore non può sopravvivere a chiunque debba aggrapparsi a se stesso come una proprietà (secondo una logica di autoconservazione, o di sopravvivenza), o a chiunque debba consumare l’altro, come una proprietà (secondo una logica di possesso). L’amore, in altri termini, non può sopravvivere in una relazione improntata alla «diseguaglianza»: l’amore non può che darsi in una relazione tra uguali, secondo Hegel, e la proprietà è sempre una questione di diseguaglianza – e «tutto ciò che gli uomini possiedono», d’altronde, «ha la forma giuridica della proprietà» («weil alles, in dessen Besitz die Menschen sind, die Rechtsform des Eigentums hat»).

 

Hegel, chiaramente, in queste riflessioni non riesce a riconoscere che la proprietà, lungi dall’essere immediatamente mortifera, può essere anch’essa vivificata, e vivificante. Questo può accadere perché la legge della proprietà risignifica, e produce, a sua volta, la vita: sarà Marx, qualche decennio dopo, a sostenere che questo è il significato e l’effetto del feticismo delle merci, le quali vengono rese persone e investite di potere d’azione. E sarà sempre Marx a intuire che la risignificazione del concetto di vita è ciò che rende possibile «metterla al lavoro» e «a valore», nei rapporti di produzione, economici e sociali, capitalistici. Hegel stesso, per altri versi, ha un’intuizione che Foucault definirebbe biopolitica, quando comprende che nelle condizioni del sacrificio che descrive si manifesta una specifica forma di amore, un amore che assume una sua specifica forma sociale e storica – lasciando dunque irrisolta la questione se l’amore preesista a questa forma storica o se l’amore, come lo conosciamo, non sia null’altro che il prodotto di specifiche modalità di relazione sociale. Ma è chiaro che non possiamo attenderci da Hegel ciò che ci diranno altri dopo di lui. Ciò che si evince tuttavia da questi frammenti è che in Hegel vi è un desiderio – il desiderio di non cedere sulla distinzione tra ciò che è vivente, e il mondo della proprietà; il desiderio di contestare la «legge della proprietà», che ha sue specifiche istituzioni, e che si dà quando gli oggetti, da usare, perdono la propria funzione sociale, diventano mezzi – incluso il proprio corpo – attraverso i quali consumare, sfruttare, mortificare, la vita, altre vite, la propria.

 

Là dove c’è la Legge (la morte) non può esservi l’amore (la vita), dunque. Eppure Hegel, pone giustamente in rilievo Butler, «non era un anarchico», e «non tutte le leggi sono cattive o sbagliate». La morte, allo stesso modo, non può essere radicalmente esclusa dalla vita. Il punto è comprendere, allora, in che modo «vivificare la legge», in che modo risignificare il concetto stesso di legge in modo da metterlo al servizio della vita – e non il contrario. Quando Hegel pensa alla danza, come a quel momento in cui i corpi, non a caso, «prendono vita», se la prendono in un modo che segue delle regole, ma non si conforma a una legge immutabile o statica, pensa a una legge che possa derivare dal «fenomeno dell’amore», da quella condizione vivente tra soggetti e oggetti, una condizione che ha «una sua propria logica», e questa logica – che ci sfugge e che irrompe nel resoconto cosciente, per restituirsi al «fuori» – consiste nel dispiegarsi e nello svilupparsi nel tempo, nel farsi e nel disfarsi, e nel non fiorire mai in modo definitivo o immutabile, ma nel caratterizzarsi per una «illimitata apertura». Questa legge vivificata non vince la morte, non ha alcuna pretesa di onnipotenza. Essa però contrasta le derive mortificanti della proprietà, perché sorge tra corpi che antepongono la relazione alla sovranità di se stessi – una relazione che non ha nulla di trasformativo in se stessa se non presuppone la rinuncia alla proprietà di se stessi, se non contrappone la danza – e le sue regole – alla giustapposizione meccanica di due proprietà. Questi corpi che danzano hanno sospeso la necessità della legge mortifera, vi hanno preso le distanze, e da questa distanza hanno ricavato uno spazio critico e un luogo di azione – un’azione che è innanzitutto orientata contro la legge mortifera. Nell’interpretazione di Butler, questa legge vivificata e vivificante può emergere infatti solo da una forma di rinuncia – la rinuncia della fantasia che il dominium scongiuri la caducità, la rinuncia della fantasia che la proprietà scongiuri la precarietà.

 

La vita, così, sembra emergere paradossalmente dall’elaborazione di un lutto – il lutto di una certa radicata idea di se stessi, di una certa radicata idea delle relazioni con gli altri. «A volte», commenta Butler, «il lutto per la perdita del possesso è il presupposto dell’amore stesso», il disfacimento di un’illusione che cede il passo a qualcosa di vivente. E forse ciò coincide con quella «lotta per il riconoscimento», con quello scambio, o quella danza, conflittuale, che già riferisce di una dislocazione dalle nostre posizioni soggettive: «quando riconosciamo l’altro, o quando chiediamo il riconoscimento di noi stessi», scriveva d’altronde Butler in Vite precarie (2003), ci troviamo già implicati in una situazione in cui «non stiamo chiedendo a un Altro di vederci come siamo, come già siamo, come siamo sempre stati, come eravamo prima di quell’incontro». Al contrario, nell’atto stesso del chiedere «siamo già diventati qualcosa di nuovo, dal momento che è l’atto stesso della convocazione che ci costituisce, e ci inaugura. Chiedere il riconoscimento significa sollecitare un divenire, incoraggiare una trasformazione, ricercare un futuro sempre in relazione all’Altro». Si tratta di celebrare il lutto del proprio essere, della permanenza di sé – si tratta di intraprendere una de-soggettivazione radicale, nella lotta per il riconoscimento, di disfarsi dell’operatività di qualunque dispositivo di sovranità.

 

Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Perfect Lovers), 1991

 

«Senza dubbio», si legge nelle battute finali di questo piccolo testo, «nel lutto ci può essere qualcosa di vivificante». Il che è precisamente il contrario di ciò che è idiota della vita della proprietà e che, così, «è diventato morto come la proprietà». Che nel lutto – questo potente responso di socialità, in cui la traccia dell’altro che ho perduto letteralmente mi spossessa – vi sia d’altronde qualcosa di drammaticamente vivente, possiamo già renderci conto proprio in tutti quei momenti che «testimoniano, indirettamente, una persistente vitalità in seno alla perdita», tutti quei momenti in cui nell’impossibilità di aggrapparci a chi abbiamo perduto, ci aggrappiamo ai suoi oggetti – e in cui ci facciamo bastare la vita infinita che riecheggia «tra il fruscio di vestiti dismessi e la vecchia roba che il morto casualmente ci ha lasciato in eredità», o tra le parole scritte, le immagini, o gli oggetti che abbiamo rubato di nascosto, o che abbiamo finto di dimenticare. Parole, immagini, oggetti che in tutti quei momenti non testimoniano più dell’idiozia di nessuno. E che vengono raccolti, e forse usati, da un altro corpo – in un altro movimento, «evanescente e vivo».

 

Sentire ciò che nell’altro è vivente. L’amore nel giovane Hegel di Judith Butler (introduzione e cura di Mariafilomena Anzalone, Orthotes 2014)

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