Danze (performative) d’estate

19 Settembre 2025

È passata una settimana da quando, proprio su queste pagine, Gaia Clotilde Chernetich ci ha ricordato come e quanto tutto sia possibile, nella danza: “estetiche, stili, avanguardie, ibridazioni, sperimentazioni, aderenza alla tradizione o tradimento dei canoni”. Abbiamo pensato, o soltanto sperato, che fosse ormai un’ovvietà, eppure sono bastati pochi giorni perché il neo-direttore del Festival dei Due Mondi di Spoleto Daniele Cipriani ci smentisse. Intervistato da Valerio Cappelli per il Corriere della Sera, Cipriani ha rivelato le linee programmatiche per le prossime edizioni del festival, che vedranno meno proposte di “danza performativa”, quegli spettacoli nei quali “uno o due artisti, senza una vera e propria preparazione accademica, portano in scena la loro espressione”. La vera danza, questa l’espressione utilizzata, è un’altra, e intuiamo sia quella nella quale la vera preparazione accademica emerge con evidente splendore; d’altro canto, chiosa Cipriani, “il problema è la danza contemporanea”, che non ha visto da ormai trent’anni l’emersione di nuovi coreografi. Dunque siamo ancora qui, nel dibattito collettivo intorno alla danza? Dunque decenni di studio e ricerca, di creazione, di programmazione, di critica, ci hanno condotti qui? Si vorrebbe obiettare, con altrettanta colloquiale chiarezza, che semmai il problema è un altro, che la politica culturale nazionale ha reso impervio il percorso di artiste e artisti, che le condizioni nelle quali coreografe e coreografi (esistono, sono tante e tanti, e continuano a nascere nonostante le profezie contrarie) realizzano i propri lavori sono sempre più spesso ostili. Ma soprattutto si vorrebbe, una volta ancora, disinnescare quel linguaggio metafisico, quella supposta pretesa di una verità performativa (qualunque cosa voglia significare, secondo Cipriani) come corrispondenza a un modello, quell’approccio rigidamente matematico dello sguardo che tenta di incasellare in equazioni di stili e in corollari compositivi le inafferrabili possibilità della danza. Ciò che ho visto nelle ultime settimane, a Bassano del Grappa e a Bologna, è testimonianza di un’inafferrabile variabilità che sia in fondo proprio quest’irriducibile differenziazione, il problema che si vorrebbe risolvere?

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Jacopo Jenna, Manifestus, ph. Giancarlo Ceccon.

Jacopo Jenna, Manifestus

A isolarle dal corpo, separandole con l’immaginazione dalle braccia che le sostengono e dagli scampoli di volto che rivelano o celano, le mani dei performer di Manifestus potrebbero ricordare quelle che Ketty La Rocca fotografò nel 1972 in Appendice per una supplica: come quelle sono metamorfiche e banali, come quelle prive di una significazione predeterminata e tuttavia latrici di un senso ineffabile e cristallino. Sono loro le protagoniste del chirurgico lavoro presentato da Jacopo Jenna in prima assoluta a Bassano del Grappa, all’interno del fitto cartellone di B.Motion: sei mani per tre energici performer, sei mani per agire una partitura coreografica di stupefacente nitore, nella quale la cura per il dettaglio si affianca, a tratti, all’esplosione di una fisicità trascinante. Simone De Giovanni, Petra Audrey Mangoua Youaleu, Phex i tre meravigliosi performer di Manifestus – le portano all’altezza dello sterno nei primi istanti della creazione, quando a occhi chiusi azzerano le distanze tra loro e avvicinano le schiene gli uni agli altri, lasciando che i passi facciano ruotare il gruppo e che le braccia assumano un catalogo pressoché inesauribile di posizioni, di disegni di carne e articolazioni. Il paesaggio sonoro, realizzato da Alberto Ricca / Bienoise, è un susseguirsi di sonorità elettroniche pulsanti, al di sopra delle quali la cura compositiva di Jenna (con la collaborazione di Mattia Quintavalle SLY) articola un susseguirsi di sequenze corali, di istantanei assoli, di costruzioni collaborative e rari individualismi; Jenna accoglie le ambiguità semantiche del titolo, e alla mano che ne costituisce la radice etimologica affida il compito tanto di tracciare i legami tra le sequenze coreografiche, quanto di suggerirne i sensi estetici e politici. La Chiesa di San Giovanni, palcoscenico per il debutto nazionale, diviene così lo spazio pubblico per un’epifania, per un cristallino apparire una manifestazione di corpi e datità non azzerabili. Della strada e della piazza Manifestus recepisce d’altra parte il linguaggio: il movimento si appropria dei codici della break dance, del krumping, del voguing, armonicamente tessuti in figurazioni eclettiche, in una caleidoscopica geometria di linee e concrezioni. In questo senso, Manifestus – dopo Alcune coreografie, dopo Danse Macabre! – è anche una nuova tappa dell’itinerario di Jenna nelle danze (plurali, senza attribuzioni di verità), nella costruzione e ricostruzione di grammatiche spaziali e gestuali a partire da alfabeti già conosciuti e qui ricondotti a una molteplicità combinatoria mai casuale.

Le braccia definiscono gli spazi d’azione, schermano i volti, si stringono in sculture di carne, si uniscono in festoni di pelle; i freeze e il footwork fioriscono tra le rigidità angolari delle articolazioni, e delineano un complesso reticolato spaziale. I danzatori di Manifestus si offrono allo sguardo variando costantemente gli schemi: adesso sono allineati frontalmente rispetto a uno dei tre lati su cui è disposto il pubblico; adesso si pongono in diagonale, che rapidamente cambia disposizioni e vertici; adesso si accentrano, le braccia slanciate verso l’alto, le mani chiuse in un pugno che è un lemma di protesta, di affermazione del sé. Manifestus è agglomerato puntiforme e percorso, è slancio (ecco Phex distaccarsi per brevi istanti, e conquistare il pavimento con una sequenza di powermove) e intimità (lo sguardo di ciascuno che segue la traiettoria indicata dalle dita, le mani che si avvicinano ritmicamente al cuore). Jenna e i suoi performer si espongono, rivendicano una presenza, quasi un contraltare tematico dopo la riflessione sulla sparizione e sull’assenza che attraversava Alcune coreografie. È adesso in gioco un esserci, che la danza sistematizza e continuamente lascia deflagrare.

Salvo Lombardo, Birdsong

Devia costantemente, il percorso artistico di Salvo Lombardo: rifugge dalla persistenza di cifre, svicola dai tentativi di imbrigliarne le intuizioni in recinti estetici, impedisce all’osservatore la possibilità di riconoscere l’occorrenza di medesimi segni registici. In Casual bystanders ha estratto dalla quotidianità di una strada, con le momentanee apparizioni dei suoi passanti, un universo composito di gesti banali, dislocandoli e risemantizzandoli nello spazio scenico; negli energetici Present Continuous e Outdoor Dance Floor ha condotto il pubblico in un’esplorazione della dimensione del clubbing; ha poi fronteggiato, in una trilogia di lavori che prendeva le mosse dalle creazioni fin de siècle di Luigi Manzotti, la mitologia ballettistica nazionale, decostruendone gli immaginari coloniali. E l’ampiezza degli abbrivi tematici si è tradotta in formati sempre nuovi, muovendosi tra il ready-made gestuale e la complessità compositiva per grandi ensemble. Invariato, e ostinato, è invece un approccio intellettuale alla materia di volta in volta scelta come scaturigine, un afflato concettuale che lungi dal diluirsi nel tempo della ricerca, o dal costituirne soltanto la premessa, si deposita sui corpi in scena e ne determina la qualità, dirottando l’esperienza spettatoriale verso territori di studio e di senso dei quali il palco rappresenta soltanto una mappa temporanea, forse parziale.

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Salvo Lombardo, Birdsong, ph. Stefano Scheda.

Birdsong – presentato in anteprima a Bologna all’interno di Danza Urbana Festival, e in prima assoluta a Rovereto per Oriente Occidente, di cui è artista associato – è in questo senso una tappa coraggiosa di una ricerca filosofica, linguistica, politica, che Salvo Lombardo conduce attraverso la danza e che la danza non sembra mai riuscire a esaurire, financo a contenere. Come sempre più spesso nella performance contemporanea, il movimento esonda qui in voce e canto, in una fioritura acustica che trova la propria più profonda ragion d’essere nella frizione con la materialità dei corpi e con le loro movenze. Ad attraversare la fonosfera di Birdsong è però una sonorità animale e non umana, la chiave di volta di un dispositivo che – ed è forse qui che si può individuare il fulcro dell’arte di Lombardo – mina le consuetudini percettive e mette sotto scacco e sotto accusa gli automatismi del pensiero, quella supposta posizione predominante che ci vorrebbe – ora bianchi e occidentali, ora semplicemente uomini e donne – al centro di un universo sociale o naturale. È così al margine che l’allestimento, firmato da Maria Elena Fusacchia, ci pone: al limitare di una foresta di aste metalliche sormontate da luci a led, una selva della quale gli interni settecenteschi della Chiesa di San Mattia, in occasione della data bolognese, esasperano l’enigma. La semioscurità obbliga a ricalibrare lo sguardo, a riabituarci – riapprendere, o forse imparare per la prima volta – ad affinare una vista notturna, crepuscolare come la danza che da lì a poco, nel subitaneo e intermittente accendersi di poche luci, abiterà questo buio. Tra gli arabeschi del fumo di scena, reso plastico dai lividi colori del disegno luci, ci accorgiamo così dell’apparire di una figura che, come noi, cerca di appropriarsi di un ambiente ma che, a differenza di noi, sembra istintivamente capace di farlo, per una consuetudine biologica più che culturale. La silhouette di Marta Ciappina emerge dal fondale nella bicromia del costume (opera di Ettore Lombardi): veli di pizzo le coprono la testa, le gambe, si sovrappongono ai pantaloncini e alla t-shirt, donano alla funzionalità del tessuto la generosa bellezza della livrea, confondono la pelle con il piumaggio. Al di sopra del tappeto sonoro (pregevole creazione di Fabrizio Alviti) sono infatti singole vocalizzazioni ornitologiche a spezzare l’incanto della notte: strida, gorgheggi e trilli, fonazioni improvvise come lampi. Nel sottobosco, Ciappina ora attende immobile in ginocchio, in una stasi che è osservazione scrupolosa di un habitat, ora esplora con ampi movimenti di braccia e rapidi passi un territorio con cui sembra istituire una relazione vitale, simbiotica. Insieme a lei, a occupare l’areale è Daria Greco: la danza delle due è rigorosa eppure ferina, ibrida e chimerica, in grado di rifuggire da qualsiasi mera traduzione di un movimento animale e ciò nonostante capace di evocare per brevi accenni l’ambigua relazione tra una coppia d’uccelli. L’affermarsi di un legame dialogico, d’altra parte, avviene soltanto attraverso il canto: preannunciato dal passaggio tra le due di una piccola pergamena, conservata da Ciappina in una cartucciera, dilaga poi come una drammaturgia di glossolalie e cinguettii, la cui intenzionalità e il cui significato ci sono preclusi. Eppure i toni e i timbri, le pause, le interrogazioni e l’assertività delle risposte, il ritmo dell’incomprensibile dettato provano l’esistenza di una trama, di una vicenda che allontana lo spettro del nonsense e ci costringe a spiare una conversazione in una lingua straniera. La danza, adesso, è dei fischi e delle onomatopee, dei colpi di glottide e della lingua nel palato, quasi una trascrizione per voce umana delle sperimentazioni compositive che Olivier Messiaen affidò al Catalogue d’oiseaux. E il solista, in questa sinfonia di canti d’uccelli, è il chioccolatore Camillo Prosdocimo: il suo arrivo nel territorio abitato da Ciappina e Greco spezza un equilibrio, la sua voce si inerpica in un saliscendi di ciangottii, in un turbinare forsennato e vertiginoso di fischi, di quegli ancestrali richiami sui quali si fonda la violenta fortuna del cacciatore. Da sempre, i suoi canti di primavera adescano le prede, sorprese dal piombo durante le rotte migratorie: eppure qui, nell’arcana foresta di Birdsong, risuonano soltanto di virtuosismo, di vitale e generoso splendore. Un atto di risignificazione, di pacificatorio annullamento della violenza potenzialmente implicita nel canto, prende infine corpo: un processo di ribaltamento delle prospettive (è Daria Greco a osservare attraverso il binocolo il corpo del chioccolatore, statuario in proscenio) e al contempo un’indagine sulle possibilità connesse all’atto stesso del nominare, del chiamare e richiamare, là dove né la grammatica né la sintassi, o tantomeno le anatomie, possono aiutarci ad associare con certezze ruoli e funzioni in gioco. Ecco che una comunità di comunicazione giocosa ed etica prende a poco a poco forma, finalmente priva di qualsivoglia vincolo biologico e linguistico: colte sulla soglia tra zoologie possibili o immaginarie, le tre creature si scoprono simili, e si lasciano andare a una ridda di rumori e schiocchi, di frullii, di sogni sonori, adesso modulati da piccoli strumenti a fiato. La luce si fa aurorale, e l’addio a questa notte di chiacchiere e invocazioni ha il gusto dello sberleffo, dell’irrisione: ci danno le spalle, le creature di Lombardo, e cantando le loro canzoni si allontanano dal proscenio, dalle tassonomie coreografiche, dalle norme.

Manifestus è in scena il 19 settembre a Fabbrica Europa Festival (Firenze); il 27 settembre a MilanOltre Festival (Milano); il 3 e 4 ottobre a Fuori Margine (Cagliari). Birdsong è in scena il 10 ottobre al Festival Periferico (Modena); il 29 novembre a Teatro Sant’Agostino (Antrodoco, RI); il 30 novembre al Teatro dell’Unione (Viterbo); il 6 dicembre al Teatro della Tosse (Genova).


Nell’ultima foto, di Giancarlo Ceccon: Jacopo Jenna, Manifestus.

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