Asteroide. Paleontologia dell’amore
Sarà forse per una coincidenza priva di qualsiasi valore statistico, eppure alcune delle creazioni più sorprendenti delle ultime stagioni teatrali vedono il canto dispiegarsi sulla scena come un dispositivo imprevisto, alieno rispetto alle consuetudini e alle tassonomie che lo vorrebbero relegato in un altrove di volta in volta più commerciale – quello della commedia musicale e del varietà – oppure colto e storicizzato come il melodramma. Sempre più numerosi, artiste e artisti affidano alle canzoni il compito di sostituirsi in tutto o in parte alla recitazione, perfino alla danza, invitando così il pubblico alla partecipazione collettiva, a quell’impercettibile e silenzioso lavorio delle labbra che sussurrano melodie conosciute o tentano di seguire il rapido avvicendarsi dei soprattitoli. Si pensi all’esplorazione del repertorio corale popolare portata avanti da un coreografo radicale come Alessandro Sciarroni in U. (un canto), al Concerto fetido su quattro zampe eseguito da Alice e Davide Sinigaglia, all’incursione nel soul di Nina Simone ideata da Fanny&Alexander e a quelle nel rock di Babilonia Teatri, o infine all’indagine sull’eredità del fado nello struggente No Yogurt for the Dead di Tiago Rodrigues (andato in scena pochi giorni fa all’interno del cartellone del Wiener Festwochen, in attesa di un prossimo debutto italiano): ecco che una pluralità di suoni, melodie, tradizioni invade con crescente frequenza lo spazio d’eccellenza della parola.

Anche nei primi minuti di Asteroide, al debutto assoluto al Piccolo Teatro Studio Melato, la voce di Marco D’Agostin sembra a tratti fiorire, sfumarsi con acuti e gorgheggi, ricamare con virtuosismi quella singola parola del dettato, quella frase al di sotto della quale intravediamo, carsica, la persistenza di una canzone. E i vocalizzi, i vibrati, gli ornamenti con cui D’Agostin dipinge il testo sono il preludio acustico di atipici freeze, il correlato sonoro di pose in cui il corpo del performer si cristallizza, restituendoci il fermo immagine di sequenze che immaginiamo più complesse e ciò nonostante trattenute, più articolate ma ancora incatenate, bloccate dal pudore o dalla consuetudine. È l’emersione di un sintomo, l’apparire di un vocabolario nuovo: attimi nei quali un linguaggio sconosciuto sembra interferire con il noto, e l’approssimarsi del ballo ormai prossimo e inarrestabile. Qui, in questo studio del momento in cui al tempo ordinario subentra l’eccezionalità della performance, nell’esplorazione della millimetrica frontiera tra la vita e l’arte – o piuttosto nella placida ammissione della loro coestensione – si situa d’altro canto una delle plurime chiavi di accesso ad Asteroide, che affabula una vicenda tanto reale quanto immaginifica intorno al più paradossale, degli interrogativi: perché, a un certo punto, tutti iniziano a danzare? Perché, a partire da un determinato istante (su di un palco o in un film, nelle nostre anonime esistenze e nella vicenda dell’umanità) iniziamo a cantare? Che il lavoro di Marco D’Agostin si inscriva nel microscopico interstizio tra un prima e un dopo – coreografico e storico, antropologico e culturale, personale e collettivo – è d’altra parte evidente fin dalle sue prime produzioni: Everything is OK, del 2015, rispondeva all’esigenza di salvare, dalla prossima dissoluzione delle immagini, un archivio di frasi celebri e di gesti; Avalanche, del 2018, affidava a due performer il ruolo dell’ultimo essere umano sulla terra, depositario di una memoria sterminata e terminale; Gli anni, indimenticabile solo affidato a Marta Ciappina, traduceva in danza quella manciata di minuti in cui una vita si spezza e una vocazione prende forma. Asteroide si pone così alla confluenza di molteplici istanze, esplicitando il legame in precedenza soltanto accennato tra apocalisse globale e dramma individuale, fronteggiando in campo aperto l’ambigua relazione tra biografia e storia. La fine di tutte le cose – prima portata in scena con un approccio escatologico, che consegnava alla danza e alle interpolazioni testuali il compito di restituire l’astrattezza filosofica dei destini ultimi – è invece oggi realmente accaduta, è cronaca protostorica, inappellabile capitolo della vicenda del pianeta. L’estinzione di massa del Cretaceo, che circa 66 milioni di anni fa condusse alla scomparsa dell’80% della fauna, è così l’evento intorno al quale si dipanano plurime linee narrative e altrettante soluzioni sceniche, in un mosaico di storie e in un alternarsi di registri e linguaggi che restituisce la complessità di un’operazione ambiziosa, il climax di una ricerca pluriennale condotta intorno a un riconoscibile nucleo di senso.

“Ci sono esperti di paleontologia?” è d’altro canto la domanda con la quale, su un palco vuoto chiuso da un fondale nero, D’Agostin – autore di una performance eccezionale per eclettismo di linguaggi e modulazioni emotive – fa il suo ingresso in scena, illuminata a giorno così come la platea: sembra quasi volersi scusare per le imprecisioni con le quali attraverserà vicende lunghe ere o pochi secondi, spostandosi dalla penisola dello Yucatan nel tardo Mesozoico alla Gubbio del 1980, spaziando dalla geologia all’aneddotica, dall’indagine sperimentale sui depositi stratigrafici alla ricognizione delle insondabili ragioni, e risorse, del cuore umano. Fin dalle prime battute, la vertiginosa drammaturgia di Asteroide sovrappone il destino del pianeta – i secondi che precedono l’impatto con il meteorite che condusse all’estinzione dei dinosauri – a quello di un singolo individuo, quel Walter Álvarez che per primo ipotizzò la collisione astronomica come causa del collasso della biosfera, e che nei giorni della sensazionale scoperta veniva lasciato, senza alcuna chiara ragione, dall’amata moglie Molly. La lirica scrittura di D’Agostin – chirurgica nel restituire l’apocalittica potenza della fine di un amore, e cristallina nel dipingere lo sconvolgimento senza precedenti subito da un’anima e da un territorio – ripercorre le tappe di un’educazione alla scienza, ricostruisce con ironia un’infanzia trascorsa collezionando minerali e dialogando con lo scheletro fossile di un T. Rex, tratteggia i concitati giorni trascorsi dallo scienziato in Umbria, in quella Gola del Bottaccione dove un’anomala concentrazione di iridio avrebbe fatto insospettire micropaleontologi e geologi: ma soprattutto tesse, tra i fili di questa trama, un ordito autobiografico, nel quale la prima persona singolare mostra l’artista e illumina il suo dolore. Come Álvarez, anche il pianeta D’Agostin – lui è l’ambiguo pronome con il quale, nelle prime battute della performance, il testo indica le vittime di identici cataclismi, di similari catastrofi – ha subito un drammatico impatto, ha sofferto lo schianto con il quale un amore si è interrotto. Soprattutto, come il geologo statunitense anche Marco ha dovuto, e saputo, risalire il lungo pendio dei resti geologici di ricordi e vissuti, immaginare una teoria e ricucire una visione del mondo: sopravvivere, come quello sparuto e coraggioso 20% di specie che resistette alla distruzione del tardo Cretaceo.

La paleontologia, ricorda Asteroide, ci consente di risalire dalla morte alla vita, di riprodurre a partire da una manciata di fossili un intero ecosistema, e il paleontologo D’Agostin – come Álvarez prima di lui: e come tutti noi in platea, esperti nella lenta, microscopica sutura dei frammenti d’ossa in cui il lutto di un amore ci ha frantumato – può solo riedificare sé stesso, rimodellare il proprio scheletro, formulare una spiegazione onnicomprensiva che dia un senso all’accaduto, e lenisca la pena con l’asettica certezza di dati, composizioni chimiche, cause ed effetti. Take your broken heart, make it into art è l’asciutto consiglio che Marco riceve nei giorni dell’abbandono, ed è anche questa sfida – questo privilegio – che Asteroide racconta, restituendoci l’epopea della costruzione di uno spettacolo e della ricostruzione di una vita. La drammaturgia di D’Agostin, mai così stratificata (l’immagine geologica sembra quanto mai opportuna) e tuttavia pervasa da un rinnovato gusto per la narrazione, aggiunge perciò ai piani del racconto un’ulteriore traiettoria metaperformativa, ripercorrendo le caratteristiche, le difficoltà, le intuizioni e gli slanci di quel genere teatrale che, più di altri, sembra somigliare allo scontro con un meteorite. Il musical, nel quale ex abrupto attori e personaggi iniziano a cantare e ballare, diviene il correlato di un cataclisma e del suo superamento, il simbolo dell’irruzione della straordinarietà nel quotidiano e nel banale. Come in una conferenza-spettacolo, D’Agostin a poco a poco mette in scena, tra passi di danza e lacerti di canzoni, uno show in puro Broadway style dedicato alla storia di Walter Álvarez, e al contempo scompone il musical nei suoi elementi fondanti – la progressione degli inserti musicali, dall’I am song che definisce il carattere del protagonista al magniloquente production number destinato a restare impresso nella memoria del pubblico – in un nuovo affondo sulla persistenza dell’entertaining nell’immaginario collettivo. Già Best Regards, la creazione del 2021 dedicata alla memoria di Nigel Charnock, citava Cheek to Cheek e si chiudeva con una canzone originale, il cui ritornello – “you died so I can live and dance” – sembra oggi poter costituire un’anticipazione di quel grumo di dolore e creatività artistica che Asteroide lascia deflagrare in un’esplosione di paillettes: ma mai come oggi una raggiunta maturità autoriale consente a D’Agostin di far emergere, in equilibrio tra comicità e dramma, le prospettive dell’ineffabile mistero sul perché tutte e tutti noi ci si riunisca qui, intorno a uno spazio vuoto, ad ascoltare storie, ammirare attori, fonderci con le loro voci.

Le canzoni – cofirmate da D’Agostin e Luca Scapellato, autore anche dell’eccellente sound design – inizialmente soltanto accennate da vocalizzi e colorature, prendono il posto dei dialoghi tra Álvarez e la moglie, o tra lo scienziato e la collega Isabella Premoli Silva; le sequenze coreografiche onorano la grande tradizione del modern jazz e di Bob Fosse, tra mani che vibrano e sedie usate come strumenti di seduzione, o citano gli esiti contemporanei del genere (tra cui la celebre book dance di Wicked, creata da Christopher Scott per Ariana Grande); un costume da paleontologo del primo Novecento è abbandonato per uno scintillante completo di lustrini, creazione di Gianluca Sbicca. È un crescendo scenico, Asteroide, e un progressivo svelarsi della potenza del musical condotto in sincrono con la rivelazione di quella teoria che sola potrebbe dare conto all’apocalisse subita: e tuttavia, con ammirevole acribia scientifica e commossa onestà intellettuale, è D’Agostin stesso a ricordarci che in fondo ogni ipotesi è poco più di un modello, soggetto a costanti verifiche e smentite, e che la catena di cause ed effetti con cui vogliamo irreggimentare le piccole, gigantesche tragedie della nostra vita su questo pianeta è soltanto uno tra molteplici punti di vista, parziali e consolatori. Si ferma, D’Agostin, interrompe l’entusiasmante rincorsa verso il numero conclusivo del musical, e invita una spettatrice d’eccezione – nelle repliche al Melato si sono succedute Sara Bonaventura, Lucia Limonta, Federica Fracassi, Lucia Sauro, Matilde Vigna, Chiara Bersani – a leggere insieme a lui un denso dialogo scritto da Pier Lorenzo Pisano; lo scambio falsifica la fin troppo lineare successione di eventi che, nella ricostruzione di Álvarez, ha condotto alla quinta estinzione di massa, instilla il dubbio che in fondo si tratti di una storia tra le tante possibili, e che solo uno sguardo realmente cosmico, astronomico, planetario, possa abbracciare il senso e la ragione profonda di un fato globale. È con l’ultimo numero del musical, l’atto conclusivo di una creazione che con rigore affastella orizzonti tematici e trovate drammaturgiche e sceniche – forte dell’encomiabile disegno luci di Paolo Tizianel, e della scena creata da Paola Villani – che D’Agostin imprime un’ennesima torsione all’itinerario dell’Asteroide, non più artefice della fine dei dinosauri e di una storia d’amore, bensì prezioso motore di una rivoluzione zoologica e climatica, privata e artistica, la scintilla grazie alla quale il fuoco della vita muta aspetto ma permane, irresistibile e perenne.

“Forse siamo noi i nuovi dinosauri e dobbiamo stare attenti. Oppure forse, contro ogni previsione, migreremo su Marte dove fonderemo una colonia di custodi gentili, (…) e arriveremo a chiederci se non sia proprio per questo che è crollato tutto”, scrive Samantha Harvey nelle pagine conclusive di Orbital, il romanzo vincitore quest’anno del Booker Prize, omaggiato da D’Agostin nei primi momenti dello spettacolo. Forse non ha senso maledire quel meteorite che ha colpito la penisola dello Yucatan e ha devastato la nostra anima, né temere la catastrofe ecologica che inarrestabile sconvolgerà il pianeta tra incendi e uragani, e che invece ha già avuto luogo, è alle nostre spalle insieme a tutto quel dolore: piuttosto possiamo tentare di ascoltare il canto che sale delle viscere del pianeta e della sua storia, e che raccoglie in versi e strofe la complessa, commovente varietà della vita scomparsa, presente e futura. Perché là, nel buio dell’apocalisse, nel silenzio del trauma, stanno iniziando nuove danze.
Asteroide replica il 15 giugno a Sarzana, il 12 luglio a Civitanova Marche, il 18 luglio a Sansepolcro, il 19 luglio a Bassano del Grappa, il 26 luglio a Dro, il 28 luglio a Bolzano.
Le fotografie sono di Masiar Pasquali.
