Macao. L'occupazione della Torre Galfa a Milano

9 Maggio 2012

Sabato scorso, in piazzale Lagosta a Milano, mentre si svolgeva il mercato rionale, un folto gruppo di persone si concentrava di fronte a un’edicola e aspettava il momento giusto per incamminarsi verso quello che da poche ore è stato ufficialmente battezzato col nome di Macao, un “nuovo centro per le arti di Milano”, uno spazio dove produrre arte e cultura, in cui, si legge nel comunicato stampa, “gli artisti e i cittadini possono riunirsi per inventare un nuovo sistema di regole per una gestione condivisa e partecipata”, per sperimentare in autonomia “nuovi linguaggi comuni”.

 

Macao ha trovato sede nella Torre Galfa, un grattacielo di trentuno piani che sorge tra via Fara e via Galvani, non distante dalla Stazione Garibaldi, vuoto e abbandonato da circa quindici anni. L’edificio, sorto nel 1959 su progetto di Melchiorre Bega, alla metà degli anni settanta fu acquisito dalla Banca Popolare di Milano che lo ha utilizzato come sede operativa per circa trent’anni. La Fondiaria Sai lo ha quindi rilevato nel 2006 per 48 milioni di euro, ma il tracollo finanziario subito dalla società del gruppo di Salvatore Ligresti ne ha bloccato il recupero, trasformandolo in uno dei tanti, troppi spazi abbandonati di Milano, privi di destinazione commerciale o istituzionale.

 

 

Nato sulla scia di esperimenti culturali e politici condotti in altri città italiane (il Valle Occupato e il Cinema Palazzo di Roma, i Sale Docks di Venezia, il Teatro Coppola di Catania, l’Asilo della Creatività e della Conoscenza di Napoli, il Teatro Garibaldi Aperto di Palermo), l’occupazione della Torre Galfa sembra aver colpito nel segno, riscattando un simbolo dimenticato del rinnovamento postbellico di Milano e facendo prendere consapevolezza dell’obbligo di restituirla alla comunità cittadina.

                                                       

Milano è stata del resto a lungo un grande laboratorio di innovazione politica, culturale e produttiva. Per decenni i media e la politica hanno enfatizzato il ruolo della sua industria creativa e della conoscenza individuandola come forza fondamentale di uno “sviluppo” di cui il paese ha nel complesso poco visto gli effetti. Mentre la si voleva modello trainante dell’economia, quella culturale è oggi di fatto una comunità impoverita e dispersa, che constata la propria  fragilità economica in un sistema ancora fondato su una vecchia e ormai fallimentare logica imprenditoriale. Oggi non più i “creativi” ma i precari rappresentano la spina dorsale dell’industria culturale, il Quarto Stato delle idee. Per questo motivo, tra le motivazioni degli promotori di Macao vi è anzitutto la volontà di condividere energie, professionalità, conoscenze, per generare nuove forme di autogestione, di comunità partecipata e condivisa, di senso civico.

 

 

L’occupazione è l’unica forma possibile per realizzare tutto questo? Letto in questa ottica, sì. Macao non ha occupato, ha piuttosto “liberato” da una condizione anomala e umiliante un luogo importane della città. Sabato scorso a Macao c’è stata la prima assemblea pubblica. Hanno partecipato oltre 500 persone, fra docenti universitari, artisti, filosofi, studenti e cittadini. L’emozione era visibile e certo la preoccupazione si facevano sentire, fra la polvere e i calcinacci. Ma gran parte degli interventi era rivolto alla costruzione di una progettualità operativa e immediata: come creare un’economia sostenibile? Come organizzare le idee e i progetti di ciascuno? Come mettere in sicurezza lo spazio, allestirlo, ristrutturarlo? 

 

Macao si è messo in moto per cercare il supporto di legali che promuovano nuove forme di gestione alternative, per attirare la collaborazione delle Università. Più di un mese fa, ha lanciato un bando, uno strumento tipico dell’industria culturale, utilizzato qui come involucro comunicativo con la necessità specifica di testare e monitorare le reazione delle persone. Una sorta di ballon d’essai, lanciato nell’aria, per coinvolgere le forze più eterogenee nel processo di ridefinizione di un luogo. Oggi il bando non ha più scadenza. È permanentemente aperto per proporre un’idea artistica e curatoriale che metta in forma un contenuto e per dare un significato all’acronimo Macao.

 

 

Al centro c’è l’idea del “bene comune”. A partire dalle consultazioni referendarie dello scorso giugno sull’acqua e il nucleare, il dibattito ha ripreso vitalità senza trovare significative sponde politiche istituzionali. Anche la cultura ricade all’interno di questo dibattito. È un tema “costituzionale”, che considera la cultura un bene da sviluppare e da implementare attraverso il ripensamento di un sistema gestionale diverso dalla logica naturale del mercato.

 

Quello di Macao è insomma un segnale alla città e al paese: il suo dovrà necessariamente essere un lavoro lungo e paziente, per non rischiare di cadere in quei meccanismi tipici della cultura “antagonista”, vecchi e inefficaci. Per fornire un’alternativa davvero dirompente occorre essere in molti, e considerare la cultura un esercizio di democrazia che sta alla base di un vero cambiamento.

 

Di notte Macao si accende ed il grattacielo si illumina di blu. I neon erano già lì, resti di una spettacolare campagna pubblicitaria che la Hyundai aveva lanciato nel 2011. Un’operazione che ha colto nel vivo un tema che appassiona tanto gli architetti quanto gli artisti. Hyundai non c’è più, ora dalla luce blu emerge un altro slogan: “si potrebbe anche pensare di volare”.

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