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III / Cinque domande sullo scenario futuro

Con queste cinque domande ci prefiggiamo di individuare i nodi che la crisi sanitaria del Covid-19 con le sue conseguenze ha provocato a livello mondiale, con l’idea che, come disse anni fa un economista americano, la crisi, per quanto terribile, è un’occasione da non perdere.

 

Romano Madera, psicoanalista

 

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

 

Intanto grazie a Doppiozero per avermi invitato a rispondere a queste domande che possono servire a inquadrare il famoso cigno nero. Vorrei però provare a guardarlo secondo una prospettiva anamorfica: un “cigno periodico trasformista”, che ogni tanto appare sotto le forme di virus, ogni tanto di guerra, ogni tanto di conti economici e finanziari che non tornano. Ogni sempre, invece, in catastrofi sociali e psichiche di parti consistenti degli umani. 

La disuguaglianza sociale sta crescendo da decenni. Dalla crisi del 2008 non si è certo usciti invertendo la tendenza, sempre più evidente dagli anni Ottanta in poi. Basta uno sguardo alle tabelle del World Inequality Report del 2018. Se solo si riuscisse a capire la sentenza di condanna al nostro modo di vivere, di produrre, di consumare che traspare da quei numeri, non potremmo evitare di prendere atto della necessità di trasformazione radicale che si imporrebbe a chi abbia l’ardire di pensare in grande e di guardare lontano. 

Il virus è certo tremendo di suo, pur se incomparabilmente meno tragico delle epidemie premoderne e moderne (una per tutte, la spagnola, che è già stata ricordata sulle pagine di Doppiozero da Marco Belpoliti), ma funziona anche come meccanismo scatenante di una condizione di crisi strutturale soggiacente, che può reiniziare per un problema finanziario che parte da crediti inesigibili come i mutui subprime, oppure da un’infezione a raggio mondiale. Niente di nuovo, in realtà, nell’economia-mondo capitalistica. Nel 1637 in Olanda un bulbo di tulipano poteva essere venduto al prezzo del salario di un anno e mezzo di un muratore. Quando il prezzo crollò venne giù l’economia internazionale. I Lehman Brothers furono il fattore scatenante del 2008. 

Il virus è un reagente “sociodelico”, se mi passate il neologismo: manifesta la struttura profonda della società. Ma noi siamo miopi, molto miopi, e accecati da una vecchia ideologia: la naturalizzazione della storia sociale, come hanno cercato di spiegarci – voci nel deserto – Marx ed Engels. Sembra che tutto sia dovuto al virus, ma gli effetti del virus sono infinitamente più legati alla storia sociale che non alla potenza del male naturale. Non si può fare qui che un accenno al fatto che rispetto alle nostre capacità economiche, sociali, tecniche e scientifiche, il pericolo di una malattia infettiva potrebbe essere molto, ma molto circoscritto e, comunque, superato in modo molto più efficace di quanto è accaduto e accadrà. L’Organizzazione mondiale della sanità prescrive il controllo delle capacità di far fronte alle epidemie ogni tre anni, ma in Italia ne sono passati nove senza simulazioni (negli Stati Uniti ancora di più). Dunque il problema non sta nei virus che sempre ci saranno, come i terremoti o le disgrazie naturali, ma nell’allocazione delle risorse, nelle priorità tecnologiche e scientifiche, nella preparazione e negli accantonamenti per le emergenze. Un esempio: si parla di guerra, ma fosse vero che siamo in guerra contro il virus! In realtà siamo sempre presi da guerre immaginarie che servono il complesso militar-industriale. Non si contano le esercitazioni fatte negli ultimi dieci anni dagli eserciti e dalle flotte di tutto il mondo. E per rimanere al Nord Italia: i vescovi piemontesi hanno giustamente protestato perché quasi tutto è fermo, ma non le fabbriche legate alla filiera dell’F35! 

Dunque: socialmente ed economicamente sarà un altro bagno di sangue per i poveri (una sottoclasse immensa) del mondo, per i proletari e per altre fette di ceto medio che crolleranno in una proletarizzazione sempre più sregolata e senza rete. Culturalmente crescerà l’affidamento di una parte della popolazione a soluzioni improvvisate, sia politiche che di concezioni del mondo (già ne siamo pieni: uomini ridicoli travestiti da omini forti, favolette pseudoreligiose, deificazioni di improbabili nature benigne contro rilanci di fantascientifiche sorti magnifiche e progressive garantite dalle tecniche dell’avvenire). 

Contro questa valanga distruttiva però, spero e credo che un “resto” (nel senso del “resto di Israele” di cui parlano i profeti biblici) di pensiero attivo e combattivo, di cultura finalmente legata alla vita concreta e misurata sul modo di vivere, avrà occasioni ed energie, risuscitate dal dramma collettivo, per risalire, per ricominciare a opporsi, per ritornare a inventare una politica (o meglio, una metapolitica) in grado, almeno prospetticamente, di misurarsi con le infinite possibilità di “conversione” del nostro modo di produrre, di consumare, di comunicare e di abitare insieme la terra, senza distruggere il ramo che ci dà da vivere.

Intanto vedo, tra gli analizzanti e in me stesso, la necessità di tenersi saldi e svegli di fronte agli incubi ricorrenti delle fantasmagorie dell’impotenza e dell’onnipotenza. Nel trauma collettivo, come per ogni altro danneggiamento ma anche come per ogni novità impensata, quando non si vedono soluzioni, si ritorna nello scenario angoscioso. Angoscioso perché senza soluzione: non si può scappare, non si può contrattaccare (applicando uno sguardo etologico alle reazioni psichiche collettive e individuali). Ritornare al nocciolo della ferita non è, secondo me, una riemersione del passato che non passa, ma una risonanza per qualcosa che si ripresenta, e si ripresenta perché, inevitabilmente, ciò che rimane irrisolto preme perché si trovi una soluzione. Come se si fosse chiusi e non si trovasse più la chiave per uscire… certamente il problema ci perseguiterebbe ossessivamente. Per capirci qualcosa, come accade sempre in ogni problema conoscitivo dell’adattamento (qui è da Piaget che mi faccio aiutare) cerchiamo di assimilare il fenomeno incompreso a qualcosa di già noto (assimilazione). Solo se non funziona proveremo a passare ad altro, a un tentativo nuovo (accomodamento). Così riemergono per molti traumi passati, altri addirittura vengono riscoperti dopo decenni di oblio. Possiamo cancellarli negandoli, svalutandoli, fuggendo in onnipotenze fantasmatiche come se tutto fosse già superato. O soccombere all’angoscia e precipitare nel panico. Oppure vederne il lato comune con il passato e l’aspetto inaudito da affrontare esplorando nuove direzioni. 

Una analizzante mi ha raccontato, tempo fa, che uscendo da un piccolo ospedale aveva notato sul frontone di una chiesetta questa scritta: “vivere è continuare a resuscitare”. Appunto. Per chi abbia l’orticaria per le chiese, sentiamo Neruda: “nascere non basta, è per rinascere che siamo nati”. Se c’è un tema ricorrente in questi mesi è proprio questo, volto in mille tradizioni e in mille nuove versioni: morte e rinascita. 

La psiche collettiva e individuale sente l’urgenza del passaggio, ma le sirene del mondo che c’è già, l’ideologia e l’affabulazione dello sviluppo progressivo dello stato di cose presente che si vuole perpetuare, soffocano sul nascere questa disponibilità a “immaginare altrimenti” non solo se stessi ma il contesto che, in realtà, plasma la presunta autonomia del “caro io”. 

 

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose? 

 

Ci saranno aggiustamenti e passi indietro, ma la globalizzazione come tendenza è irreversibile. Cambieranno, come peraltro sempre negli ultimi cinquecento anni, forme e gerarchie di potere. L’economia mondo, da Braudel a Wallerstein (ma con molte idee già anticipate nel Manifesto del Partito Comunista di Engels e Marx del 1848 e poi in Il capitale), si sviluppa dal XVI secolo in poi. Al suo centro stanno le zone capitalisticamente più avanzate e un sistema di relazioni statali nel quale si susseguono l’egemonia olandese, britannica e statunitense. Ma le sue radici sono ancora più profonde, come nella rielaborazione teorica di Giovanni Arrighi in Il lungo ventesimo secolo, scritto nel 1994 (Il saggiatore, 1996). Dunque non si tratterà affatto della fine della globalizzazione, ma dell’aggravarsi della crisi dell’egemonia statunitense e della prosecuzione accentuata della fase di caos delle relazioni internazionali nel sistema delle imprese, delle banche e degli stati, da tempo aperta. 

Per avere un piccolissimo saggio della ricchezza di sguardo dei testi di Arrighi (purtroppo morto nel 2009) citerò solo un piccolo brano da Caos e governo del mondo (scritto insieme a B. Silver, 1999, Bruno Mondadori, 2003). Le quattro controversie teoriche delle quali parlava sono le quattro contraddizioni fondamentali del nostro mondo: 

 

“Quattro controversie tra loro collegate inquadrano la nostra indagine. La prima riguarda i cambiamenti negli equilibri di potere tra gli stati, e in particolare se è probabile o no che emerga un nuovo stato egemonico. La seconda riguarda gli squilibri di potere tra stati e imprese, e in particolare se la ‘globalizzazione’ abbia irrimediabilmente minato alle fondamenta il potere degli stati. La terza riguarda la forza dei gruppi subordinati e in particolare se ci troviamo in piena “caduta libera” nelle condizioni di lavoro e di vita. La quarta si riferisce ai cambiamenti nei rapporti di potere tra civiltà occidentali e non occidentali, e in particolare se ci stiamo avvicinando alla fine di cinque secoli di predominio occidentale nel sistema mondiale moderno”. 

 

Così commentavo in un articolo apparso sulla Rivista di Psicologia Analitica (“Psiche bene comune. Economia e psicologia del profondo”, n. 46, 2018):

“Secondo Arrighi e Silver la crescita finanziaria globale è segno “che ci troviamo nel bel mezzo di una crisi egemonica”, per niente risolta dalla sconfitta dell’URSS, dalla lunga espansione interna e dal boom della Borsa di New York (che poi crollò nel 2007). Già alla fine degli anni 90 si diceva “l’America è tornata”, oggi lo slogan è “make America great again”, ma proprio il comportamento dell’amministrazione Trump nei confronti del commercio internazionale e dei suoi alleati europei mostra che l’egemonia USA (la capacità di indicare un modello di crescita in grado di soddisfare molteplici richieste di molte altre unità del sistema) sta rovinosamente disintegrandosi e che la “tirannia delle piccole decisioni”, a vantaggio di qualcuno contro l’interesse sistemico generale, sta prevalendo. Intanto, benché niente affatto completato, si delinea in modo sempre più marcato l’emergere dell’Asia orientale: dopo il Giappone, Hong-Kong, Singapore e Taiwan, anche la Repubblica Popolare Cinese. Siamo nel caos, senza una direzione nuova e minacciati dalla cecità della vecchia potenza egemone. Che il nuovo si sviluppi catastroficamente, o attraverso una transizione controllata, non lo sappiamo. 

Quanto al secondo conflitto, quello tra stati e imprese, “la proliferazione – in numero e varietà – di imprese e comunità d’affari internazionali è una caratteristica nuova e probabilmente irreversibile della presente crisi egemonica. Essa è stata un fattore importante nella disintegrazione dell’ordine egemonico statunitense e si può prevedere che continui a incidere profondamente sul mutamento sistemico in corso, attraverso una generale, benché per nulla universale, perdita di potere degli stati”. 

Questo conflitto e questi sviluppi – ultraconfermati nei venti anni seguiti al 1999 – comportano un disorientamento su scala mondiale di intensità ineguagliata, perché sempre più fuori della portata della sensibilità e dei quadri concettuali delle singole unità del sistema: la moltiplicazione, in numero e grandezza, delle forze economiche organizzate in imprese transnazionali rende ulteriormente imprevedibile il destino lavorativo, e quindi reddituale, della stragrande maggioranza della popolazione mondiale e, con ciò, delle prossime generazioni.

La terza controversia riguarda il conflitto tra gruppi sociali subordinati e dominanti, comprese le burocrazie politiche che dirigono gli stati. Arrighi e Silver concordano su questo punto con Immanuel Wallerstein circa l’incapacità del capitalismo attuale di conciliare le domande combinate delle classi lavoratrici del terzo mondo (avere relativamente poco a persona, ma per molte persone) e del mondo occidentale (per relativamente poche persone, ma molto a persona). La loro tesi è che “l’espansione finanziaria e la ristrutturazione dell’economia politica globale che ne è alla base sono indubbiamente riuscite a disorganizzare le forze sociali che erano portatrici di queste richieste nelle sollevazioni della fine degli anni sessanta e degli anni settanta. Ma il processo sta creando nuove forze sociali che l’ordine egemonico in declino avrà ancora maggiori difficoltà a conciliare”.

La quarta contraddizione, quella tra Occidente e Oriente per semplificare, dipende ovviamente da quello che cambierà negli altri scenari. Ma la tendenza a vedere la consumazione della egemonia occidentale di cinque secoli mi pare si rafforzi: il provincialismo senza prospettive degli USA che, come tutti i paesi in crisi, sa fare la voce grossa con il Venezuela, o sostenere la presidentessa boliviana con qualche vecchio arnese della CIA, mentre, dopo aver condotto catastroficamente le sue campagne in Medio Oriente, mina anche le alleanze di sempre con l’Europa, puzza di decomposizione in corso. Per non parlare degli altri occidentali: il glorioso United Kingdom si sfrangia nella farsa dell’isolazionismo e rischia di vedere andarsene pure la Scozia, la Germania ha perso due guerre mondiali nel vano tentativo di diventare egemone in Europa, adesso che se la potrebbe comprare a prezzi di svendita, è paralizzata da conti da avara ossessività. Per l’Europa, bel sogno tramontante, è purtroppo il sintomo della finale incapacità di costituirsi, quindi di contare qualcosa. Il declino accelererà dopo la crisi del corona virus. 

La mancanza di un’alternativa, o almeno di una compensazione dal basso, non riduce il caos, anzi lo aumenta perché parcellizza lo scontento e la protesta, deprimendo ogni speranza non fantasmatica di cambiamento. 

La comunicazione planetaria accelererà invece il suo passo: il Corona ha fatto vedere, ma non ce ne era certo bisogno, che possiamo chiuderci in casa, sbarrare per un po’ le frontiere per gli umani, ma proprio questo aumenta vertiginosamente il grado di connessione di tutti con tutti e la necessità di avere notizie il più rapidamente possibile. E adesso siamo qui a sperare che, da qualche parte del mondo, si trovi un vaccino che cominci a correre più veloce del virus, dappertutto e senza frontiere. Comunque, le reti delle interconnessioni (finanziarie, produttive, distributive, cognitive) non sono affatto recise, sarebbe peraltro davvero un’Apocalisse catastrofica. 

 

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

 

Non da oggi, anzi da sempre, mi produce tristezza intellettuale l’opporre la scienza e la tecnica all’umanesimo. L’umano senza la tecnica, come si sa, non sarebbe neppure nato come animale culturale che riproduce e innova le sue stesse condizioni di vita naturali. E ogni tentativo di correggere, o addirittura rivoluzionare, assetti tecnico-scientifici inadeguati, o dannosi, passa ovviamente per tecnica e scienza più intelligenti.

Anche qui, dopo quaranta anni di reazione al marxismo, non si riesce neppure a mettere in questione l’assunto che esista il – peraltro assai imprecisamente descritto – dominio della tecnica. Perfetta incarnazione del ragionamento oscurato dal feticismo del capitale: non sono i rapporti socialmente e storicamente determinati, tra gli umani e le classi che usano la tecnica, a plasmare le condizioni di vita, ma sarebbe la tecnica guidata dalla scienza. Sì? Una straordinaria, per la sua efficacia, ideologia, per convincere gli umani a guardare da un’altra parte, a sentirsi in mano a un destino del pensiero o alla presunta autonomia dei prodotti del loro cervello e delle loro mani… 

Quale umanesimo allora? L’unico umanesimo che mi interessa è quello che sa scorgere l’umano, storicamente e socialmente determinato, alla radice della tecnica e della scienza e voglia indirizzare le nostre capacità a liberarci delle servitù volontarie, nelle quali ci imprigioniamo da soli. 

Possiamo uscire dal sonno della ragione riconoscendo il fatto – e quindi il valore – della nostra universale interintradipendenza. Dipendenza dal cosmo e dal pianeta comune, dipendenza dagli altri (oggi da tutti gli altri), dipendenza dalla nostra costituzione complessa, fatta di sensazioni, emozioni, percezioni, fantasie, immaginazioni, riflessioni (un insieme senza autocrazia possibile, se non finta, da parte del nostro caro io – il continente che la psicoanalisi ha cominciato a esplorare con l’impreciso termine di “inconscio”). Questo è il nuovo e antico umanesimo, che ha solo bisogno di essere aggiornato. Era quello della origine della filosofia greca e romana, la filosofia come modo di vivere – Pierre Hadot è stato l’anello di congiunzione tra le generazioni per ritornare in contatto con questa sorgente vitale – che è esercizio spirituale teso a riconoscere la necessità, se si vuole avvicinare la verità di se stessi e del mondo, di “trascendere” il nostro illusorio egocentrismo per vedere come stanno le cose, per vederci come un “aggregato relazionale” nel mondo della natura e degli altri. 

 

Ecco un antico esercizio spirituale per l’oggi: guardare il mondo dall’alto e se stessi in basso in mezzo agli altri. Non vedremmo frontiere, vedremmo la terra insieme tutta, e capiremmo che è a questo tutto che bisogna pensare, che è questo di cui dobbiamo prenderci cura se vogliamo vivere, è questo tutto ciò che dobbiamo rivoluzionare, se non vogliamo condannarci alla vergogna cosmico-storica di una civiltà capace, potenzialmente, di far vivere decentemente le generazioni presenti e future degli umani e invece votata, incoscientemente, a distruggere e torturare noi e gran parte della natura. Per qualche “tesoro” che, come quello del ricco epulone, sa già di ruggine e di morte. 

 

 

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

 

Ho già detto, siamo nel caos di una transizione egemonica. Questa crisi non farà che aggravarla, senza ancora risolverla. Ma vedremo l’ulteriore indebolirsi della potenza egemonica precedente, gli USA, e la crescita della Cina e dell’Asia Sud-orientale (Corea del Sud, Singapore, Taiwan, Giappone). Tuttavia non mi convince la semplificazione: Cina uguale a capitalismo di stato. Troppo generico, troppo ideologicamente economicistico. Ecco qui: come se la storia sociale, la cultura, la regolazione economico-politica (piaccia o no), non facessero della Cina contemporanea qualcosa di inedito. Forse un ircocervo tra il capitalismo, il capitalismo di stato, il socialismo di stato e il socialismo di mercato: in ogni caso qualcosa da studiare attentamente come fenomeno storicamente nuovo. Non posso che rimandare ancora una volta al mio amico Arrighi, a quel libro fondamentale sul tema che si chiama Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo (2007, tradotto in italiano nel 2008). Molte tesi precotte sulla Cina, dopo la lettura, sarebbero più difficili da digerire. 

Comunque il punto non è il “sistema capitalistico”. Come diceva Marx nel Manifesto: “il capitalismo dipende (riposa su, si basa…) esclusivamente (attenti all’avverbio!) sulla concorrenza degli operai tra loro”. E siccome non vedo operativa nessuna cooperazione internazionale dei subalterni, deduco che il capitalismo è, e rimane, fortissimo. Benché sia una “tigre di carta”: la sua consistenza è quella di una fata morgana, che si dissolverebbe in ricordo se noi fossimo consapevoli della nostra interdipendenza e responsabili nell’organizzare la nostra cooperazione. Ma siamo mille miglia lontani dal solo intenderne la portata e, alla prova della prassi, il pensiero più significativo e complesso, che rimane per me quello di Marx, è rimasto “una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi, una terapia inconsistente” (questo è un sottotitolo di un capitolo del mio Sconfitta e utopia, Mimesis, 2018) Dunque come diceva Gino Bartali un po’ corretto: “gli è (quasi) tutto da rifare”.

Ecco, quindi che fare? Sembra che non si possa fare niente. Quasi niente, sì, se ci consegniamo alla prigione della politica politicante, nella quale i rapporti di forza sono drammaticamente sbilanciati a favore del capitale internazionale, mentre proletari e movimenti alternativi sono sbriciolati, lontanissimi anche solo da un lumicino di consapevolezza del loro comune destino. Bisogna avere il coraggio del tempo lungo, dei tempi nei quali, sì, saremo tutti morti come diceva ironicamente Keynes: il tempo dei profeti e degli utopisti. Le civiltà cambiano nei secoli e mentre il capitale diventerà sempre più il vero limite a sé stesso, come pensava Marx, i dissidenti devono cominciare – anzi hanno già cominciato da almeno un secolo e mezzo – a immaginare e praticare frammenti, intuizioni, esperimenti di una antropologia del futuro. 

Le esperienze sono milioni, piccolissime o di qualche consistenza. Non importa la loro grandezza, alcune sono infinitesimi subatomici, come la filosofia come stile di vita e l’analisi biografica a orientamento filosofico che cerchiamo di praticare a Philo. O come anche le pagine che state leggendo: Doppiozero non è cultura gratuita, sforzo di volontari, diversa ma paragonabile, fatte diverse le condizioni di partenza, a quei meravigliosi maestri socialisti di inizio del Novecento che spendevano le loro energie perché i proletari analfabeti imparassero a leggere? Oggi l’analfabetismo è quello dei concetti e del sentire, ma è un ostacolo di enorme influenza.

E come immagino l’ispirazione di un utopismo per il nostro presente futuro?

Molte idee si possono riprendere dai tesori delle antiche tradizioni sapienziali, rinnovandole. 

Per esempio, per la politica globale, la prima parola guida potrebbe essere presa dal Padre nostro, la preghiera di Gesù che sottintende il Giubileo biblico: rimettere il debito internazionale (l’ha chiesto, in forma un po’ attenuata, anche Papa Francesco nel discorso di Pasqua).

Il secondo punto viene dalla teoria dei bisogni di Epicuro: mettere al primo posto e perseguire la soddisfazione dei “beni naturali e necessari”. Sarebbe importante capire oggi quali sono, ma anche il virus ce l’ha ripetuto: la salute, il riparo, il cibo, l’istruzione. La vecchia sinistra incominciava sempre così programmi e comizi: lavoro, case, ospedali, scuole. Questi sono i bisogni naturali e necessari oggi. Perché no? Si dirà che il lavoro oggi non c’è più, ce ne è sempre meno. Vero. Ottima situazione per inventare il lavoro che ci stiamo già inventando, volontario e liberamente associato. Va solo riconosciuto come contributo alla comunità e quindi pagato e tutelato quando non sia in grado di sopravvivere con le sole sue forze sul mercato. 

Il terzo punto ha a che fare con i rapporti tra associazioni, comunità, società, stati: perseguire un patto di equilibrio e di pace. Il che significa cose ovvie: il declino graduale dell’industria degli armamenti e la sua riconversione, l’appoggio di ogni sforzo di mediazione nei conflitti, la delegittimazione progressiva della gigantesca rapina di risorse naturali e umane ancora in atto nei confronti della maggioranza dei popoli del pianeta, un balzo gigantesco verso un uso e un’abitazione della terra che la curi come un giardino, invece di abusarne facendone un immondezzaio pericoloso per noi e per l’ambiente che ci fa vivere. 

Un quarto principio orientativo sarebbe quello di riformare il possibile, radicalmente, e intanto di rivoluzionare la nostra cultura. Per primo il modo di vivere – il nostro, il mio – il pensare e sentire dei “rivoluzionari”, degli utopisti delle associazioni di cultura solidale e libertaria. Hadot cita spesso Georges Friedmann: “Fare il proprio volo ogni giorno! Almeno un momento che può essere breve, purché sia intenso. Ogni giorno un ‘esercizio spirituale’, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimenti migliorare. Esercizi spirituali. Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome (che di tanto in tanto prude come un male cronico). Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Eternarsi superandosi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta. Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni”. 

Adesso i rivoluzionari di una generazione fa, la mia, sono diventati come i panda, o stanno nelle riserve indiane dello spirito metapolitico – io mi sono rifugiato lì da 45 anni – ma queste parole valgono per il più grande errore di allora e per le speranze di domani: forgiarsi nelle pratiche delle piccole utopie di oggi, avendo come via l’esercizio spirituale che ci avvicini ad essere un cenno di quella stella polare di utopia che vorremmo diventare capaci di seguire.

Oggi ho visto un piccolo gesto di fratellanza, usuale in questi giorni di pandemia: un pacco con su scritto “chi non ha prenda, chi ha lasci”. Microscopica eco di un vecchio motto: a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità – un detto che serpeggiò dai santsimoniani ai marxisti. In realtà il racconto prototipico del principio comunista sta nel capitolo 16 del libro dell’Esodo, nelle regole per raccogliere la manna nel deserto. 

Il lungo cammino per uscire dal deserto è molto distante dal presente e, si dirà, del tutto astratto. Vero, ma non si arriva mai da nessuna parte senza osare i primi passi, la prima e poi la seconda tappa … e poi non sappiamo dove si arriverà. Ma certo si può provare a immaginare e sperimentare un altro mondo. Il capitalismo è storico e quindi morirà, prima o poi. Provare la via per qualcosa di meglio non può che rendere degna la vita presente. 

 

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

 

La politica si basa sul rapporto di forze che competono per esercitare il potere o per condizionarlo. La diseguaglianza è diminuita, dagli anni cinquanta agli anni ottanta, solo a fronte della competizione dei due blocchi nel sistema delle relazioni interstatali e della presenza organizzata, politica e/o sindacale, di movimenti operai basati sullo stato-nazione. Il capitale ha stravinto perché l’internazionalizzazione ha dissolto progressivamente le basi strutturali delle forze operaie nazionali. Non ci sono le condizioni per un cambio di scena. Certo ci potrebbero essere aggiustamenti anticrisi, perché l’accentuarsi delle diseguaglianze è, alla lunga, un grave impedimento per l’accumulazione capitalistica che, presumibilmente, ripartirà da un nuovo grande slancio, dopo la sbornia della finanziarizzazione, dai settori dell’industria del digitale e della robotizzazione, dal chimico farmaceutico e dal “capitalismo verde”.

Potrebbero però nascere nuove consapevolezze e embrioni di internazionalizzazione – come era già in nuce nel “popolo di Seattle” del 2000 – di un avvicinamento dei movimenti dei subalterni, degli ecologisti, delle donne e delle cosiddette minoranze di genere, uniti da obbiettivi e non da presupposti ideologici, così da meticciare la politica di sinistra, più o meno tradizionale, con gli sperimentatori delle utopie comunitarie e con i gruppi di ispirazione religiosa capaci di reale ecumenismo.

Sul piano politico sociale globale forse, ma dovrei conoscere molto meglio la situazione, si potrebbe aspettare un risveglio anti-Bolsonaro in Brasile, dove il Partito dei lavoratori potrebbe ritrovare la guida di Lula e aver imparato qualcosa dalle conquiste passate, ma soprattutto dagli errori compiuti nell’esercizio del governo. E anche la Bolivia potrebbe diventare un luogo di scontro dal risultato non scontato, con il ritorno del Mas e di Morales al governo. Ma naturalmente molto dipenderà da quanto accadrà negli USA e, ancor più, in Cina (dove potrebbero essere possibili degli aggiustamenti in senso più egualitario, dopo la creazione di una forbice notevolissima negli ultimi decenni a favore delle élites), e in India (dove il conflitto sociale e le disastrose condizioni delle masse vengono dirottate verso la persecuzione delle minoranze mussulmane da parte del fondamentalismo induista). Per l’Italia una certa diminuzione delle diseguaglianze può essere una linea di resistenza che unisca le forze meno miopi di tutti i settori sociali, di tutti quelli che vogliano evitare una discesa senza freni in un’epoca di decadenza economica. E questa sarebbe anche l’unica speranza degli europei avveduti, non accecati dal puro tornaconto immediato o dalla demagogia a qualsiasi prezzo. 

 

Claudio Piersanti, scrittore

 

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

 

Non credo che la pandemia produrrà cambiamenti sostanziali. Chi dice che ci renderà migliori ha voglia di scherzare. Alla fine della seconda guerra mondiale in Italia non si è più parlato di guerra per anni. Mio padre aveva combattuto in diversi paesi fino a pochi anni prima della mia nascita e mi ha parlato della guerra, in minuscoli frammenti, soltanto decenni dopo. Del resto senza rimozione gli uomini non potrebbero vivere. Credo che gli Stati e le Regioni a forte (e a volte neppure meritata o desiderata) vocazione parassitaria accentueranno questa loro caratteristica e annulleranno le già scarse attività imprenditoriali, mentre quelli a forte vocazione produttiva (intendo con questa parola qualcosa che va al di là del semplice PIL) godranno di una certa accelerazione reattiva. La crisi aumenterà le distanze tra questi mondi, rendendole definitivamente insuperabili. È probabile che il quadro politico vedrà un aumento del nazional-populismo con forti tendenze autoritarie, in entrambi i poli. 

 

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose? 

 

Trovo abusato il paragone tra guerre e pandemie, lo accetto solo come metafora della Grande Crisi. Qualcuno ricorderà il vecchio slogan che aleggiava attorno alle ultime guerre mondiali: trasformare le guerre imperialiste in guerre rivoluzionarie. Ora ci sono varianti più pacate di questa illusione ma il risultato sarà identico. Le ideologie rivoluzionarie si sono spente, il pensiero liberale è del tutto assente. Silenziosamente è entrato in crisi l’intero sistema democratico occidentale, che ha dimostrato di non avere più uno spirito vincente, anzi di non averne nessuno. L’attuale capitalismo finanziario non ha pensieri, non ha menti, in fondo non ha neppure idee, e così è destinato a perpetuarsi. 

 

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

 

Per cercare di rispondere a questa domanda impossibile devo ricorrere a un esempio. Negli anni sessanta del secolo scorso, tra le varie avanguardie, si è sviluppata in modo speciale la riflessione su quale musica potesse essere la musica del nostro tempo. Si raccoglievano suoni e voci dalla strada, li si elaboravano nei primi giocattoleschi computer, si alteravano le strutture tradizionali del pentagramma. L’intento era quello di avvicinare il grande pubblico (concerti di computer music nelle fabbriche) il risultato fu la creazione di un microcosmo, peraltro spesso interessante ma del tutto inaccessibile al pubblico, che ha continuato a preferire le solite melodie e le solite note. Della computer music è rimasto l’impianto tecnologico, supersviluppato, ma il suono che si produce è sempre quello dell’organetto di Barberia. La contemporaneità è un sapere settoriale e parcellizzato. I filosofi e i poeti (categorie entrambe ammirabili) non contano niente: quasi nessuno è in grado di leggerli. Come dicevo delle nazioni e delle grandi aree geografiche credo (temo) che le distanze (tutte le distanze) aumenteranno e non riesco davvero a immaginare un nuovo Rinascimento. Il cosiddetto Nuovo Rinascimento annunciato da tante teste vuote con vaghe reminiscenze scolastiche è soltanto un’espressione linguistica insignificante, da comiziante politico per intenderci. I nostri buffi rappresentanti politici meritano fino in fondo la disistima e il peggior qualunquismo: non so se siamo alla seconda o alla terza Repubblica ma assistere ai dibattiti delle due camere è desolante (forse per questo la sovietica televisione di Stato non li trasmette): le loro migliori energie le dedicano alla divisione delle poltrone nelle partecipazioni statali e alla loro inutile sopravvivenza. Il nostro sistema rappresentativo è pura apparenza, dietro c’è il nulla. Latitano persino poteri forti e occulti, non c’è neppure un pensiero debole tra questi che da sempre si chiamano peones. Neanche i comici che li imitano riescono a strapparci un sorriso. Il politico contemporaneo è una sorta di imbonitore televisivo che vende ciarpame agli incauti acquirenti. Se sei un mediocre profondamente ignorante, un chiacchierone, o un semplice furbacchione di provincia, il tuo posto è il parlamento. Gli unici segnali di vita intellettuale vengono dal mondo cattolico e religioso, o meglio da alcuni suoi settori, ormai (e dovrei dire paradossalmente) le ultime sopravvivenze dell’illuminismo. 

 

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

 

Ma quali sarebbero queste élites? In realtà non c’è una classe dirigente alla guida del mondo occidentale. La novità è proprio questa. Per la prima volta nella storia il mondo occidentale, e forse il mondo intero, è completamente acefalo. Mio figlio lavora in giro per il mondo per una multinazionale i cui dipendenti (dichiarati) sono un numero che sovrasta quello degli abitanti di una nostra città media. Ci sono vari direttori, di area, di zona, ma non c’è un vero leader, c’è un CdA, che si riunisce a volte in Giappone a volte in India a volte in America. Se dicessi il nome della società non direbbe niente a nessuno. Ha origine in un paese lontano, ma le azioni sono disseminate ovunque. Il capitalismo tende sempre di più ad assomigliare a un fondo di investimenti, anonimo per definizione. È la nostra cattiva coscienza. Il denaro va dove si produce altro denaro. Ha le stesse motivazioni di un virus, che in fondo è soltanto una cellula. L’immenso settore agro-alimentare, del tutto fuori controllo, è molto più nocivo di un virus, e sta letteralmente divorando il pianeta nell’indifferenza generale.

 

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

 

Circola una terribile fotografia di un parcheggio di New York, dove sono stati disegnati dei rettangoli tombali a terra, che rappresentano i posti letto degli homeless. La stessa fotografia che potremmo fare noi delle nostre sedicenti case di riposo per anziani, che sono state abbandonate al loro destino. O alle decine di medici e infermieri infettati per l’assenza (colpevole, omicida) delle più elementari misure di difesa. Prima si chiudono decine di ospedali poi si chiamano eroi gli operatori che restano e si applaudono dai balconi. Ora è il momento del furore opinionista, degli sciocchi scatenati. Anche tra gli scienziati ci sono parecchi sciocchi, che non vedono un millimetro più in là delle loro supposte competenze. Sento i famosi esperti fare certi discorsi sulle mascherine che il mio vecchio professore di logica li prenderebbe a calci nel sedere. (Le mascherine chirurgiche, quelle che non difendono dall’infezione ma che non la diffondono, sono per noi, per il pubblico: quelle filtranti vanno al personale sanitario. Ma non ci sono né le une né le altre. Quindi: è obbligatorio indossare le mascherine.) L’Italia sta dando una pessima prova in tutte le sue strutture, com’era facilmente prevedibile. Dovrebbe essere davanti agli occhi di tutti questo baraccone burocratico e parassitario, completamente acefalo, che ha succhiato energie al Paese per decenni e che certo non mollerà le sue posizioni. Ha messo in ginocchio le scuole, già straccione e inutili, ha abbandonato le obsolete università a figure di secondo piano, chiusi gli ospedali e ridotto drasticamente il loro finanziamento. Per non parlare delle condizioni in cui versa tutta la ricerca, scientifica e umanistica. Italsider e Alitalia possono essere i simboli dello sperpero di energie e di denaro pubblico di questa gigantesca struttura parassitaria. I giornalisti chiamano tutto questo “burocrazia”, come se fosse una parte legnosa dello Stato, un aspetto particolare, mentre in realtà è la sua anima: la burocrazia è lo Stato. Che impone una delle più alte tassazioni del mondo occidentale, ben oltre il 51 per cento rilevato. Con il 5 per cento della popolazione che detiene la metà del patrimonio totale. Ecco, questa forbice si aprirà di più con la grande depressione che è iniziata. Allo stesso modo questa crisi mette a nudo ogni cosa: dalla UE che festeggia la sua morte politica e civile, al nostro sistema informativo, che si è dimostrato irrilevante e grottesco, alle ridicole Regioni, che erano state il sogno di un’intera generazione. Se Ministero della Sanità e Protezione civile fossero guidati dall’astrologo Branko avrebbero certamente maggiori capacità previsionali degli attuali dirigenti, che avranno tutti adeguate promozioni. Non voglio risparmiare neppure la categoria (se così si può definire qualcosa che non esiste) a cui più o meno appartengo, quella degli autori, i cosiddetti Scrittori. Mai letto tante stupidità, tanti ridicoli diari della quarantena, tante insignificanti opinioni. Anche il buon Richard Ford che ci descrive le sue passeggiate al mare con la moglie e i loro pranzetti… Mai letto niente di più insignificante. Degli italiani meglio tacere: voglio impormi un po’ di residuo spirito corporativo. Sì, è tutto ben visibile, davanti ai nostri occhi. Ma non dobbiamo preoccuparci: resterà tutto uguale, non cambierà niente. Gli esclusi saranno sempre di più e sempre più poveri, i ricchi saranno sempre più ricchi e sempre di meno. Fino alla prossima pandemia. I cialtroni hanno conquistato il mondo. Da migliaia di anni filosofi e pensatori si affannano per trovare un modo che consenta ai più intelligenti di guidare la cosa pubblica, e molto raramente ci sono riusciti.  È sempre più vero, purtroppo, il detto di Lao Tse: chi sa non dice, chi dice non sa. In chiusura voglio rettificare la mia definizione di nazional-populismo. Se dovessi definire lo spirito dominante con più precisione lo chiamerei piuttosto: nazional-narcisismo. E non è un complimento.

 

Claudio Bartocci, matematico

 

Premetto che l’idea dell’economista americano (in realtà statunitense, credo, non messicano o canadese) non mi pare particolarmente intelligente. L’occasione da non perdere è quella della quotidianità. Solo con l’abitudine a riflettere anche quando ci laviamo i denti ogni mattina potremmo avere qualche vaga speranza di non farci cogliere impreparati ad affrontare la realtà – la ferrea concatenazione delle cause e degli effetti. Come diceva uno scrittore praghese, “la cosa più segretamente temuta accade sempre”. Ciò vale, mi pare, tanto per le emergenze sanitarie quanto per la crisi climatica in atto.

 

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

 

Nessuno sa quali saranno gli effetti complessivi e globali di questa pandemia. Per dire cose ovvie, a livello economico si verificherà di certo un rallentamento della produzione su scala mondiale, che innescherà una grave crisi occupazionale e una forte instabilità di quell’entità metafisica, dallo statuto ontologico incerto, che si è soliti indicare con il nome di “mercati”. A livello culturale temo che non cambierà nulla (vedi la risposta alla domanda n° 3).

 

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose? 

 

Mi pare che la “comunicazione planetaria” – cioè, il web e la rete di telefonia mobile, peraltro fortemente connessa con il web (tutte le altre modalità di comunicazione sono infatti obsolete o marginali) – sia inseparabile dalla “globalizzazione economica”, anzi ne costituisca la premessa fondamentale. È difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro (diceva Niels Bohr), ma forse non su questo punto specifico. Finché esisteranno Google, Amazon e Facebook, che nei loro rispettivi domini commerciali operano in regime di sostanziale monopolio, non cambierà granché. Come ha scritto Matthew Arnold, “è più facile ed economico allestire un programma di voli spaziali con equipaggio che costruire un motore di ricerca moderno”. Chi fra noi ha i soldi, le conoscenze e i mezzi tecnologici per preparare una gita su Marte il mese prossimo?

 

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

 

La domanda mi pare formulata in modo tendenzioso. Che cos’è l’“umanesimo tradizionale”? E perché mai accomunare scienza e tecnologia, quando la prima è (o dovrebbe essere) un’attività conoscitiva e la seconda invece un’attività di produzione di oggetti materiali? Sono convinto che non abbia alcun senso, né in una prospettiva storica né dal punto di vista epistemologico, operare una netta separazione tra sapere “umanistico” e sapere “scientifico”: la cultura – cioè, la capacità acquisita da Homo sapiens di affrontare e interpretare non solo la realtà di ciò che accade, ma di quel che è accaduto e, soprattutto, di quel che potrebbe accadere – è unica. La crisi sanitaria in atto ha messo impietosamente in evidenza il fatto che non pochi tra coloro che hanno (o avrebbero)  l’onere di prendere decisioni nell’interesse della comunità mancano della capacità di leggere la realtà in una prospettiva critica, problematica e inventiva, vale a dire “culturale”. Non parlo della sconcertante inabilità, per esempio, a fare 2 più 2 sulla base di un modello epidemiologico relativamente semplice (da parte di quegli stessi, magari, che non si peritano di fare previsioni sul PIL del 2030), ma della scarsa attitudine a pianificare strategie che non siano già imprigionate in tetri luoghi comuni economici o politici, a immaginare scenari diversi, a scheggiare la dura pietra che la realtà ci mette in mano per farne un utensile o un’opera d’arte. 

 

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

 

Quali élites? A me pare di vedere soltanto individui incerti e spauriti. E quale “sistema capitalistico”? 

 

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

 

La disuguaglianza sociale non è stata creata certo dall’emergenza sanitaria, ma è preesistente: gli effetti drammatici che abbiamo oggi sotto gli occhi sono quelli che tutti noi avremmo potuto, e forse dovuto, facilmente immaginare. I cambiamenti sociali, unitamente a una distribuzione delle ricchezze e delle risorse meno barbarica di quella odierna, potranno avvenire, temo, soltanto su una scala temporale molto lunga. E soltanto a condizione di riflettere, tutti quanti noi, ogni mattina quando ci laviamo i denti e di guardare fuori dalla finestra la realtà del mondo che è come è, con le onde gravitazionali che viaggiano alla velocità della luce e le epidemie virali che dilagano con andamento esponenziale.

 

Leggi anche:

Walter Siti, Matteo Meschiari, Francesco Guala, Cinque domande sullo scenario futuro (I)

Francesca Rigotti, Davide Sisto, Luigi Zoja, Cinque domande sullo scenario futuro (II)

 

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