Salone del libro 2019 / Fascismo. Macchina mitologica

10 Maggio 2019

Le polemiche sulla partecipazione al Salone del libro di Torino dell’editore Altaforte, legato al circuito di CasaPound, hanno sollevato un polverone mediatico. Come spesso capita, in questi casi, il rischio è che dietro (e dentro) esso, in quanto tempesta di sabbia, ad emergere sia più il pulviscolo atomizzato di parole, immagini e idee (precostituite) che non la sostanza del problema. Già, qual è il problema? Ossia, qual è il nocciolo della questione? «Fuori i fascisti dal Salone», è stato detto, riferendosi al chiaro posizionamento ideologico, prima ancora che strettamente politico, della casa editrice in questione.

 

Posizionamento non solo evocato ma apertamente rivendicato dal suo titolare. Si è poi aggiunto che sarebbe stato impossibile fare aprire questa edizione della kermesse libraria da una sopravvissuta alla Shoah, che nel mentre aveva già declinato l’impegno, qualora tale casa editrice fosse rimasta al suo posto. Non di meno, una serie di nomi di rilievo avevano peraltro dichiarato la loro indisponibilità a partecipare. Per ragioni apertamente politiche: se ci sono “loro”, i fascisti, noi non verremo. Punto e basta. Pochi giorni prima che la querelle raggiungesse il suo punto estremo, già si era registrato un dibattito acceso, soprattutto nei social network. L’intervento congiunto, su un piano istituzionale ma in base a una precisa e chiara decisione politica, da parte della Presidenza della Regione Piemonte e della Città di Torino, ha quindi portato alla rescissione del contratto con la casa editrice, motivato in base al danno di immagine che la sua presenza avrebbe comportato per la città medesima e l’evento culturale collegatovi. È stato infatti detto dagli interessati che si tratta di «una scelta politica di cui ci assumiamo tutta la responsabilità»; e ancora: «non potevamo permettere che certe ideologie entrassero in un Salone fortemente orientato ai temi dell'antifascismo, vista anche la coincidenza del centenario dalla nascita di Primo Levi»; inoltre: «ogni mediazione non è stata possibile – così Sergio Chiamparino, presidente della Regione – e io dico comprensibilmente. Bisognava scegliere se lasciare fuori dal Lingotto Halina Birenbaum, testimone dell'Olocausto, che deve tenere una lezione agli studenti, e stare dentro con chi ne nega l'esistenza: un'opzione inaccettabile per la storia democratica di Torino, del Piemonte e dell'Italia». In altre parole, dinanzi agli organi direttivi della Buchmesse torinese, in chiara difficoltà tra l’incudine dell’iniziale avallo alla presenza dell’editore e il martello rappresentato dalla piega assunta dagli eventi, le massime autorità del territorio sono intervenute e hanno deciso con tempistica perentorietà, anche a nome e per conto di chi era in una condizione di oggettiva difficoltà.

 

Decisione politica, va ribadito ancora una volta, a rischio di ripetersi. Per l’appunto, decisione in merito a cosa, ovvero per quale ragione? A dei negazionisti, per capirci? Un inciso a questo punto occorre. Il catalogo dell’Altaforte, ma soprattutto i link a editori omologhi, di “rete”, è quello tipico di una casa editrice di destra non liberale. Quasi un eufemismo per dire “neofascismo” in altro modo. Copre un’area di lettori, più o meno nostalgici, in misura maggiore o minore militanti di gruppi, partiti, movimenti che si richiamano a quel milieu. Così come anche di “curiosi”, variamente attratti dal feticismo fascistico (immagini, simbolismi ma anche richiami alla “bella morte”, all’eroismo dei disperati, alla vita come lotta e sacrificio e così via) e dall’abituale repertorio di temi del neofascismo italiano ed europeo. La fumettistica – la quale, segnatamente, ha sempre contato al suo interno un certo numero di capaci autori per nulla estranei ai “neri” – si offre con una sua discreta visibilità. Nel suo insieme, il catalogo che Altaforte licenzia – di suo o in rete con altre edizioni – sembra garantire le esigenze di conoscenza dei «fascisti del terzo millennio»: geopolitica, sovranismo, identitarismo, “patrimonio fascista” (spacciato per conoscenza storica o opinione “alternativa”, quella degli sconfitti di allora), letteratura «non conforme» (gli autori “dannati e maledetti”, spesso pubblicati anche da editori con i massimi crismi della democraticità), un volume sulla «resistenza palestinese», insieme a testi di stretta attualità. Firmati da alcuni autori che sono spesso ospiti di talk show televisivi. A riscontro che una certa idea di fascismo, perbenista poiché normalizzata, “tira”, piaccia o meno. Soprattutto quando non si fa dottrina ma linguaggio, ibridato ai temi ricorrenti e ricorsivi di una politica che si è invece resa sempre più vuota, rarefatta di sostanza e quindi, come tale, piena di ideologismi concavi, privi di reale spessore. La politica senza sostanza, infatti, è stata storicamente una grande opportunità per il fascismo (movimento, partito, regime che fosse), poiché esso ha portuto riempirne il vuoto delle sue suggestioni seduttive. Non a caso rimane ad oggi una grande macchina mitologica, fatta di parole d’ordine, immagini di cartapesta e richiami a vacui “principi”. Il tutto rivestito del demagogico richiamo alla perentorietà e all’insindacabilità del proprio agire, ispirato ai più alti e nobili “valori”, quelli del sangue, della stirpe, dello “spirito”. E dello Stato, non sociale ma penale; non pluralista ma punitivo. Su questi elementi ha quindi costruito buona parte delle proprie fortune (così come le disgrazie dei più). Fine dell’inciso.

Nelle annualità precedenti del Salone del libro, gli editori di tale fatta non erano mancati. In genere confinati in spazi minori, guardati con distrazione dalle grandi folle di transumanti, osservati con malumore da alcuni astanti, cercati dagli affezionati. Nessuno si era scagliato contro la loro presenza. Ovvero, dubbi, perplessità e distinguo erano stati manifestati, anche ripetutamente. Tuttavia, non aveva avuto seguito una mobilitazione come quella alla quale abbiamo invece assistito in questi giorni. Una sorta di nuova battaglia di Guadalajara, tra repubblicani e franchisti, dopo oltre ottant’anni.

 

 

Perché è successo adesso? Qual è il vero casus belli? Per davvero la questione di inopportunità riguarda la negazione dello sterminio degli ebrei? Oppure c’è dell’altro? Domande non peregrine e neanche gratuitamente oziose. Domande di merito. Che rimandano non solo all’editore in sé ma alla sua ultima pubblicazione, pubblicizzata – evidentemente non a caso – in prossimità dell’inizio delle kermesse libraria. Si tratta dell’«intervista allo specchio» (così recita il sottotitolo) di Chiara Giannini a Matteo Salvini. Cento domande, con relative risposte, il tutto prefato da Maurizio Belpietro. Difficile attribuire ai tre menzionati una vocazione “negazionista”. Recita infatti lo strillo del testo: «Cento domande all’uomo più discusso d’Europa. Perché l’Italia non è la Polonia, l’Ungheria o la Repubblica Ceca. L’Italia è uno dei paesi fondatori della Unione Europea e il suo terzo contribuente. Cento risposte per raccontare quanto di sé stesso [sic] informa la propria azione di governo. Cento risposte a chi lo ama, a chi lo critica, a chi ripone fiducia in lui e a chi lo vorrebbe vedere “penzolare a testa in giù”. E poi tante testimonianze; quelle della gente della strada, di chi vive la propria vita e di chi si è trovato a difenderla, dei politici amici e di quelli nemici, degli animatori dei salotti televisivi e della carta stampata. Un confronto a distanza che, ancora una volta, traccia il solco, sempre più invalicabile, tra popolo e classe dirigente». Il punto di collassamento si è registrato su questa uscita editoriale. E sui suoi successivi echi, tra i quali la comparsa delle medesima Giannini al Salone, per rivendicare una libertà che le sarebbe stata negata («la morte della libertà di espressione»), dissociandosi dal fascismo ma accostandosi ai deportati: «ho il massimo rispetto per gli scampati ai campi di concentramento. È un capitolo della storia vergognoso che mi addolora moltissimo. Hanno subito una restrizione della loro libertà, la stessa che ora sto subendo io». Al di là dell’inaccettabile accostamento, che rivela a dir poco una propensione alla banalizzazione del passato, il libro e la sua autrice hanno conquistato la scena mediatica. E quella delle vendite. Si è trasformato in un libro «proibito», uno di quei testi che proprio l’editoria di nicchia prossima al neofascismo rivendica come parte integrande della sua proposta culturale. Proibito non per il suo contenuto ma per l’abbinata tra editore ed intervistato/biografato. CasaPound (ovvero i suoi paraggi cartacei) e il ministro dell’Interno. A lasciare intendere, senza neanche troppa malizia, che il secondo interloquisce, quanto meno alla bisogna, con soggetti che rimandano alla prima. La qual cosa, a giudicare dal richiamo a simbolismi assortiti, sta divenendo parte del nostro quotidiano.

 

Vale allora la pena di ripeterlo, come discorso di cornice critica: i fascismi, quello storico come peraltro quello odierno, vivono di idealizzazioni feticistiche. Non di politica, quindi; semmai della sua progressiva cancellazione per saturazione di immagini, inflazione di sollecitazioni, eccitazione perenne. Il “fascismo eterno”, se mai esistito, è tale cosa, più che un mero regime politico. Si tratta di brand e di loghi commerciali – i «fascisti del terzo millennio» sono molto attenti al merchandising, del quale la politica sempre più spesso sembra essere divenuta una specie di succursale – ma anche di luoghi reali (curve degli ultras, spazi sociali di incontro e di celebrazione, quali i cimiteri, le piazze, le «occupazioni non conformi») trasformati in spazi di culto. Ciò che sta avvenendo, all’interno di questo processo collettivo, è quindi una defascistizzazione del fascismo, una sua decontestualizzazione storica che ne neutralizza le ricadute drammatiche per enfatizzarne invece la natura di merce facilmente fruibile, in maniera del tutto innocua, nella stessa misura di tanti altri “prodotti”. Si tratta di offrirlo come un bene consumabile senza eccessive angosce, anche di fronte alle ripetute denunce dei «professoroni», quelli che invece si scagliano contro di esso come farebbe Don Chisciotte dinanzi ai mulini a vento. La polemica inesausta e inflazionata sulla equiparabilità dei «crimini» del comunismo con quelli del fascismo risponde – tra gli altri – ad un tale schema. Il cui nocciolo non è certo il pensiero critico, e forse neanche la sola speculazione politica di una parte, bensì il conformismo, semplificatorio, banalizzante e omologante che riposa nell’idea che fuori dal principio di autorità (imposta) non ci sia nessun spazio di azione politica che non sia la tragedia. Quindi neanche di salvezza. Questo è il nocciolo dell’autoritarismo. Di ieri, di oggi. Si tratta di un procedimento che è proprio non solo di società dove la mercificazione di cose e idee, di risorse e prestazioni, se non delle medesime persone, è un fatto acquisito come prassi sociale fondamentale. Si tratta semmai del ritorno del «sempre identico», di cui il fascismo è stato, nel Novecento, il vettore politico più abile. L’identico, l’uniforme è ciò che sorge, grazie alle politiche della paura, quando l’aspirazione all’uguaglianza tramonta. E quando il declino di essa porta inesorabilmente con sé anche quello della democrazia sociale, segnata dallo sfrangiamento sociale, dalla parcellizzazione del lavoro e delle identità, dalla precarizzazione delle esistenze. Tutti fenomeni che reclamano «protezione». Si cerca uniformità, infatti, quando si nutre angoscia per un orizzonte indecifrabile: un’autorità che ingeneri la sicurezza di un’appartenenza, per non sentirsi raccontare della propria irrilevanza.

 

L’intervista a Salvini racconta di questo processo in atto. Non per il suo materiale contenuto ma per il suo rivestimento editoriale. Poiché in essa a contare non è il primo ma il secondo: è il luogo (una casa editrice) che si fa logo (un universo simbolico fascistizzato). Verrebbe da dire, in omaggio a un calcolato paradosso, che non è il ministro degli interni a “sdoganare” la destra radicale ma è quest’ultima a concorrere alla sua legittimazione, dinanzi al grande pubblico, in quanto politico d’«ordine». Anzi, politico finalmente capace di ridonarci un po’ di ordine nei significati, altrimenti tanto babelici quanto indecifrabili, del nostro presente. Tale poiché in grado di rifarsi a “valori” imperituri, gli unici che possono aiutarci (ovvero, fingono di poterlo fare) ad affrontare la grande trasformazione globalizzante in atto aggrappandoci disperatamente ad essi: la «gente» (il popolo verace e autentico, non i «professoroni»); l’«amore» incondizionato per i propri omologhi (di contro alla confusione tra i «diversi»); le «gerarchie naturali» (rifiutando la miscela e il sovvertimento delle cose e dei legami) e così via. Tutti discorsi molto radicali, molto a destra. Di cui, non a caso, quindi, è depositaria la destra radicale. Il fascismo ha storicamente lavorato su questo versante. La destra non liberale di oggi, tale poiché odia l’autonomia degli individui e si presenta come il discorso della disemancipazione necessaria, ha recuperato quel lascito. Mentre le polemiche sul Salone impazzavano, la crisi condominiale di Casal Bruciato si trasformava in uno psicodramma nazionale. All’interno di una configurazione mediatica ossessiva, ripetitiva, conativa, dove la battaglia è sempre la medesima, quella per il controllo del pregiudizio di senso comune. Quanto gli antifascisti stiano concorrendo – non importa se in misura inconsapevole e del tutto innocente – a un tale processo di vero e proprio sgretolamento delle relazioni democratiche, usando vecchi strumenti e ricorrendo ad antiche regole, a fronte di un nuovo quadro politico, sociale ma anche cognitivo (e quindi portando involontariamente acqua all’altrui mulino), è tutto da capire. La vicenda del Salone va letta anche su questo versante problematizzante, nel momento in cui la kermesse avrà chiuso i battenti. Altrimenti rischieremo di chiudere i nostri, di battenti.

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