il cinema dentro la vita / Hanna Polak, il cinema di comunità

6 Febbraio 2020

C’è un ritmo silente e rapido che raccoglie – nel cinema – l’istante che ci abbandona, trasformandosi in calco indelebile e devastante che sovrasta le nostre relazioni umane.

 “La facoltà di giudicare bene e di distinguere il vero dal falso è per natura eguale in tutti gli uomini, e che perciò la diversità delle nostre opinioni non dipende dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli altri, ma semplicemente dal fatto che conduciamo i nostri pensieri per vie diverse e non consideriamo le stesse cose”. Questa riflessione di Cartesio, del 1637, può ben introdurre la particolare azione di Hanna Polak sul cinema documentario: non considerare le stesse cose, restituendo con l’obiettivo anche il fuoricampo delle vite ai margini.

Per la Polak il cinema non è solo un metodo che può disvelare conoscenze, condurre indagini o sintetizzare una particolare visione di mondo, ma è essenzialmente un linguaggio che deve crescere insieme all’oggetto che filma. E questa crescita non è solamente autoriale ma è innanzitutto biologica e affettiva: ovvero fa parte di un film che azzera l’occhio sull’estetica per – letteralmente – convivere con la storia. 

 

È quello che possiamo chiamare cinema di comunità, ovvero quel tipo di cinema che precipita nella vita.

Il modo che Hanna ha di filmare si rivela da subito, già nella corrispondenza epistolare per comunicare i suoi spostamenti da un luogo secretato in cui sta lavorando e prendere gli accordi organizzativi relativi al suo workshop tenuto poi all’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari. Scrive: "Parto oggi dal luogo dove sto filmando. Grande amarezza. Per noi è solo un film, per loro è la vita". 

Senza saperlo Hanna si è già connessa col titolo che si era dato all'incontro con lei, "il cinema dentro la vita". Il suo modo di fare documentari entra in ogni molecola di vita delle persone che incontra e raccoglie – all’etimo – sotto la protezione della macchina da presa. 

Nessuna forzatura narrativa, nessuna reificazione dei fatti, nessuna manipolazione degli sguardi.

È testimone proattiva della vita dei suoi personaggi, lascia che la potenza, l'energia e il pericolo del reale si espandano davanti a lei, col solo scopo di essere possibile catalizzatore di mutazioni incipienti. Quindi nel suo cinema è bandita l’indifferenza, spezzata l’autoreferenzialità, assente ogni istinto gregario della rappresentazione. Niente a che fare, comunque, con la "mosca sul muro" tipica del cinema documentario “osservazionale” classico. Hanna interagisce con i suoi personaggi, ma soprattutto sono i suoi personaggi a interagire con lei. Li cattura nel lungo istante tragico: un istante elefantiaco in cui l’invisibile assurge, con lentezza estrema, all’autoritratto corale. Lo schermo, in tal senso, non è un’enunciazione che si focalizza in un punto luminoso, ma un dramma abitato da persone prossime; persone in carne e ossa di cui la Polak non raccoglie solo il pathos, ma l’essenza cristallina della sua relazione con loro.

 E tutto questo in un rapporto da pari a pari, dove non ci sono regista e personaggi, ma esseri umani che condividono un’esperienza, senza gerarchie e senza sceneggiature.

 

Hanna è in tutto e per tutto una documentarista "femminile", non soltanto perché è donna, ma anche perché persegue quella modalità di fare cinema documentario che è tipica di una cifra femminile, secondo una distinzione spesso richiamata da Lorenzo Hendel, organizzatore e animatore degli incontri internazionali del documentario nell’Accademia sarda: il femminile che tende a contenere, comprendere, accogliere, raccontare senza alterazione; il maschile che tende invece a dare una forma anticipata alla realtà che racconta, magari forzando la realtà stessa, forzando i personaggi e le situazioni. Una distinzione che non passa solo dalla appartenenza di genere del regista, perché una donna può attivare un paradigma maschile, e un uomo uno femminile.

In questo senso Hanna è due volte femminile. In più, nel suo cinema, il tempo non è un’arma ma una condizione da plasmare, un oggettivo e scomodo carattere della vita.

Polak è una regista non prolifica (per fare il suo film più conosciuto ci ha messo 14 anni) che usa il tempo nel solco di un patto antropologico con ciò che filma e, per questo, il suo lavoro è il rovescio di una serialità implosa in un unico e denso atto espressivo: atto che ritaglia del mondo un pezzo di realtà oltremodo cruda e senziente.

 

Hanna Polak ha iniziato il suo percorso artistico e professionale laureandosi all’Istituto Cinematografico della Federazione Russa, dove ha studiato sotto la direzione di Vadim Yusov, il Direttore della Fotografia di Tarkovski. Nel 2004 ha diretto il film documentario “The Children of Leningradsky” (I ragazzi di Leningrado), che ha ottenuto la nomination all’Oscar nella categoria del Miglior Cortometraggio. Dal 2000 al 2012 ha girato il film documentario “Something Better To Come” (In attesa di qualcosa di meglio), la storia di una bambina che vive nella discarica di Mosca seguita per dodici anni della sua vita. Questo film è stato premiato in oltre trenta festival internazionali.  Oggi Hanna Polak è una delle documentariste più importanti e affermate sul piano internazionale, i suoi lavori, caratterizzati da una grande empatia con i personaggi e da una immensa sensibilità, sono stati presenti da protagonisti in centinaia di festival in tutto il mondo e trasmessi dalle televisioni di tantissimi paesi.

 

Hanna, tu dici che il tuo incontro con il cinema è stato casuale, frutto di contingenze che non erano proprio il frutto di una tua scelta consapevole. Ci puoi spiegare come?

Certo, in realtà tutto è cominciato dalla solidarietà che sentivo verso i ragazzi homeless che frequentavano (e ancora frequentano) le stazioni della metro di Mosca. Sono bambini perduti, spesso abbandonati dalle famiglie, o trascurati da genitori distratti o spesso ubriachi. Bambini lasciati ai margini e guardati con diffidenza e spesso odio, eppure ognuno di loro porta con sé incredibili sofferenze e un grande bisogno di affetto. Allora ho pensato di aiutarli, portando generi di conforto, poi ho anche pensato di fotografarli, e a un certo punto perfino di fare un film su di loro. Il caso ha voluto che in quel tempo frequentassi degli amici che seguivano i corsi di Vadim Yusov (il direttore della fotografia di Tarkovski) all'Istituto Cinematografico della Federazione Russa, che mi hanno suggerito, se volevo fare un film sui ragazzi homeless di Mosca, di seguire quei corsi. Così ho fatto, e così sono diventata regista di documentari. E naturalmente la prima cosa che ho fatto è stata di fare un film su quei ragazzi (Children Of Leningradsky)

 

Per fare il tuo film più importante, Something Better To come  hai impiegato 14 anni.  14 anni in cui hai seguito una ragazza che viveva all'interno della più grande discarica europea (a Mosca) da quando aveva 10 anni a quando ne aveva 24. In un’epoca dove tutto corre e tutti corrono, cosa significa per te questa lentezza?

In effetti Something Better to Come ha rappresentato uno sforzo immenso, sia per girare le centinaia di ore che ho girato, sia soprattutto per montare quel materiale e dare ad esso una forma. Ma non è sempre così, ho fatto anche film in tempi molto più rapidi, ed il film che sto attualmente girando, iniziato lo scorso anno, dovrà essere terminato nel corso del 2020 per obblighi contrattuali con i produttori. Però è vero che il tempo per me è importante, perché il rispetto profondo che ho per i personaggi delle storie che voglio raccontare mi porta a tener conto dei tempi reali della loro vita, che non voglio modificare o alterare. Nel caso di Something Better to Come devo anche dire che l'interesse per un personaggio come Yula, la ragazza della storia, nasce molto prima di fare quel film. Come ho appena detto il mio interesse per il cinema era nato quando avevo desiderato fare un film sui ragazzi senza casa, e questo stesso interesse mi ha portato a seguire Yula, ragazza che non era senza casa e senza famiglia ma che abitava in una delle condizioni più misere e diseredate che si possono concepire, dentro una grande discarica. Così ho cominciato a frequentare quel posto fuori dal mondo.

 

 

Poi le riprese sono andate avanti per 14 anni. Ma questa durata della storia nel tuo film era stata decisa già dall'inizio o è venuta via via che il tempo passava?

No all'inizio non pensavo di seguirla così a lungo. Pensavo che la storia sarebbe terminata dopo che lei è stata costretta ad abbandonare il suo bambino, all'età di 16 anni. A quel punto ho cercato dei finanziamenti per chiudere le riprese e iniziare a montare, però le persone del mondo del documentario a cui ho mostrato le riprese fatte fino a quel punto mi hanno quasi imposto di continuare a girare, perché la storia era davvero importante e la continuazione della storia andava raccontata. Così ho deciso di continuare, e i soldi che intanto avevo ottenuto per fare il montaggio li ho invece usati per continuare le riprese.

 

A che punto hai capito che dovevi mettere un punto e che la storia era finita?

Quando Yula ha trovato un appartamento per sé e sua madre. A quel punto ho capito che nel suo personale destino si era arrivati a una svolta, e quello era il momento di mettere fine alla storia, e di cominciare a montare.

 

Come è stato il montaggio?

Inizialmente un inferno. Ho dovuto cambiare più volte il montatore, avevo bisogno di qualcuno che condividesse con me un'opera gigantesca, dare una forma a un materiale praticamente sterminato. Dare una forma vuol dire seguire un’idea di montaggio, trovare una storia che abbia un'anima, un senso. Alla fine ho trovato un grande montatore e l'avventura si è conclusa.

 

Cosa significa per te dare una forma alla storia?

È il momento più importante e delicato nella costruzione di un film documentario, il momento in cui vedi la storia che hai costruito cercando di prendere una distanza e di capire se quello che hai messo in fila nel montaggio è davvero il massimo che puoi estrarre da quella storia. Quasi sempre ti accorgi che non è così, che tu parti sempre da una visione semplificata della storia e dei personaggi, diciamo pure da dei clichè. Poi però capisci che nella storia c'è altro, ma per afferrare questo altro devi lavorare, scavare, scavare, andare oltre ciò che appare. Allora trovi altri livelli, nella storia e nei personaggi, e la tua storia si approfondisce, diventa speciale, inattesa. A quel punto sei davvero interconnesso con la storia che stai raccontando.

 

Riesci a fare questa cosa da sola?

No, hai bisogno di condividere. In questo senso il montatore è fondamentale, perché tu come regista sei troppo coinvolto, troppo immerso nella storia, hai bisogno di uno sguardo esterno. Con il montatore questo è possibile, ma lui deve essere davvero coinvolto, e allora a quel punto non ci sono più gerarchi, io non sono più il regista che ordina e lui il montatore che esegue. No, io divento montatrice, lui diventa regista, e insieme diamo vita a un processo di creazione.

 

Ma tu tieni sempre la telecamera accesa mentre giri i tuoi film o l'accendi solo quando accade qualcosa di importante? E come riesci a capire quando è il momento di accenderla?

Quando capisco la lingua e i miei personaggi posso capire abbastanza facilmente quando le discussioni tra loro riguardano argomenti importanti, quindi quando questo avviene accendo subito la camera. Magari perdo qualcosa all'inizio ma poi ho delle sequenze di dialogo lunghe e significative. Ma per esempio nel documentario che sto girando non capisco assolutamente la lingua, per cui devo cercare di basarmi sulla mia intuizione e capire dal tono della voce se quello che stanno dicendo è significativo. Però ci sono dei rischi, perché a volte hanno detto delle cose importanti ma col tono di banali osservazioni e quando ho scoperto di cosa stavano parlando ormai era troppo tardi. Ho parlato di questo problema con amici documentaristi e uno di loro mi ha dato una risposta significativa: per capire sempre quando è il momento di girare devi stare insieme a loro per più tempo. E questa è ancora una volta la chiave di tutto, stare con loro tanto tempo, entrare nella loro vita senza invaderla ma diventando parte della comunità.

 

Si torna ancora a parlare di tempo, che mi sembra un punto fondamentale

Sì, il tempo è davvero il punto focale di tutto. Tempo prima di girare, costruendo un rapporto umano profondo tra persone, senza la telecamera. Poi tempo nel girare, accompagnando lo scorrere della vita reale. E anche tempo dopo aver girato, per lasciare che il materiale che hai accumulato possa depositarsi nella tua testa, fermentare, dischiudere nuovi orizzonti dentro la storia e dentro i personaggi.

 

Il tuo modo di filmare è basato su una profonda empatia con i personaggi che racconti, ma i personaggi sono quasi sempre scelti all'interno di una umanità dolente e sofferente, e tu sei una persona estremamente sensibile, pare. Come fai a sopravvivere psicologicamente in questo mare di disperazione e di sofferenza?

Talvolta mi sento come un medico, che visita tanti pazienti, cerca di curarli per quanto può, ma cerca anche di non essere troppo coinvolto, perché certo non può salvare tutti, e soprattutto non può condividere la sofferenza di tutti. Però questo funziona quando sono in compagnia e devo comunque portare avanti il lavoro. Ma a volte non resisto, allora devo chiudermi in una stanza, e quando sono sola posso urlare e piangere... Poi esco e ricomincio a lavorare.

 

Il rapporto che instauri con i tuoi personaggi è così intenso che non può essere effimero, deve avere una durata nel tempo.

Certo. Il rapporto con Yula è inestinguibile, ci sentiamo ancora continuamente, ovunque mi trovo. Ci siamo sentite da poco, era preoccupata per me, mi ha detto di riposare di più e di non espormi.

 

Mi pare di capire che i tuoi rapporti con i personaggi è sempre paritario

Sì, i rapporti umani sono rapporti umani, quindi non ci possono essere gerarchie. Non c'è un regista e un personaggio della storia ma due persone che sono in relazione. Del resto anche nel film i ruoli sono reversibili. Avete visto che nel film verso la fine è Yula che si rivolge a me e che in qualche modo mi "intervista". Mi chiede cosa ho provato nel corso delle riprese e come mi sentivo verso di lei.

 

Già, capita spesso che durante le riprese i personaggi della storia si rivolgono a te e ti chiamano per nome. Quindi non ti va di essere una "mosca sul muro"

Certamente no. Io vivo con loro e interagisco con loro durante le riprese, e loro parlano con me come con una di loro. Che dovrei fare tagliare tutte le volte che pronunciano il mio nome? Non avrebbe senso. Anzi, il fatto di essere parte della loro comunità è un risultato per me, ne sono orgogliosa.

 

A quale progetto stai lavorando?

Sto portando avanti un progetto in una parte del mondo devastata dalla povertà e che darà voce a una comunità di persone che ha bisogno dell'attenzione del mondo per uscire dalla sua condizione. Per non compromettere questa difficile e pericolosa (per loro e per me) attività di documentazione, non è prudente – finché non avrò finito – nominare quella popolazione e quella regione. 

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