Body Check / Il corpo-modello in Martin Kippenberger e Maria Lassnig

25 Luglio 2019

BODY CHECK. Martin Kippenberger – Maria Lassnig, a cura di Veit Loers presso il Kunstbau del Lenbachhaus di Monaco di Baviera, fino al 15 settembre, è una mostra a due, che il visitatore italiano, curioso di cose tedesche e austriache, ha già forse avuto modo di sezionare al Museion di Bolzano.

 

Le premesse di BODY CHECK si possono adagiare su una domanda relativamente semplice: che rapporto esiste tra la disciplina della storia dell'arte e quella della curatela? La quale genera di conseguenza: è la storia dell'arte che informa la curatela o è la curatela, in fondo, che è o deve essere autonoma? Sempre ci sia consenso – orrenda parola – su cosa si intenda per entrambe. Se la storia dell'arte è interpretata come presentazione lineare, aderente all'identità di un'epoca, di un percorso artistico, allora la curatela e la scelta eccentrica hanno il piacere di giocare il ruolo del trickster. Martin Kippenberger (1953-1997) e Maria Lassnig (1919-2014) presentano proprio questo, un lavorìo e un corpus di difficile collocazione.

Innanzitutto il nesso puramente storico della mostra a due non c'è e viene ammesso: per un breve periodo, alla fine degli anni Settanta del Novecento, Kippenberger e Lassnig vivono contemporaneamente a Berlino, ma non ci sono testimonianze dirette e inconfutabili – le cosette che piacciono a noi storici – che supportino una conoscenza diretta, più o meno amichevole, dei due. Il dialogo delle opere in mostra avviene dunque sulle relative specificità delle stesse, su analogie e differenze del rispettivo processo artistico, scegliendo la pittura come metodo generale e principale di approccio alla visione. 

Di che cosa si occupa qui la pittura? Il titolo della mostra è altrettanto chiaro: del corpo, non solo inteso come figura, dispositivo mimetico, ma anche come oggetto metaforico. Il corpo è modello, ma come questo modello – in fondo un topos fondamentale del fare artistico – viene interpretato ci si rivela in variopinte frammentazioni.

 

Elfie Semotan Maria Lassnig, 2000 © Elfie Semotan, courtesy Galerie Gisela Capitain, Colonia.


La tematica del corpo come modello è naturalmente uno dei tratti centrali di Lassnig, fatto che la critica ha sempre fatto fatica a inserire in una categoria facilmente assimilabile. Alla domanda “Se fondassi una scuola di pittura, come la chiameresti?”, Lassnig rispose: “Se esistesse: la Scuola della Pittura Drastica [drastische Malerei].” Una pittura drastica che ha bisogno del modello dal vero per mettere in moto la trasformazione pittorica, un imperativo che Lassnig ha rispettato – quasi – sempre nel suo lungo percorso. Ma, come in ogni cosa della vita, esistono anche le eccezioni, ed eccole: in mostra due dipinti dalla serie dei Kellerbilder (Die Braut badet den Bräutigam, 2005, dal Lenbachhaus, e Macht des Schicksals, 2006, dalla ISelf Collection, Londra), in cui i modelli sono da lei fotografati e poi riconsegnati alla pittura. Ed è evidente come il suo scetticismo nei confronti del medium fotografico si risolva in questi dipinti come un saggio visivo di ciò che suggerisce la pittura da quel modello: estremo artificio e figure umane ridotte a bambole e pupazzi. Vallo a dire a Gerhard Richter.

Ma il vero corpo-modello per Lassnig rimane lei stessa. Attraverso ciò che lei chiama “Körpergefühl” (sensazione corporea), l'artista utilizza il proprio sé esteriore come veicolo di indagine pittorica e scettica del proprio “Körperbewusstsein” (coscienza corporea), anticipando quindi le riflessioni di Judith Butler sul corpo e sull'identità di genere in quanto costrutti performativi e culturali. Sia che Lassnig si ponga direttamente davanti allo specchio, sia che chiuda gli occhi di fronte alla tela, sia sdraiandosi e dipingendo l'impressione che ha di sé in quella posizione, Lassnig intrattiene un rapporto col corpo che non fa del concettualismo identitario, quanto un discorso visivo deragliato sul “tradizionale” dialogo tra pittura e modello.

 

Martin Kippenberger Ohne Titel (dalla serie Das Floß der Medusa), 1996, olio su tela, 150 cm x 180 cm © Estate of Martin Kippenberger, Galerie Gisela Capitain, Colonia.


Il corpo-modello di Kippenberger è centrale in una delle sue ultime serie di lavori (1996), incentrate sulla Zattera della Medusa (1818-1819) di Théodore Gericault. Cercando, questa volta, di tralasciare l'ironia cinica di lavori precedenti, l'artista qui si “identifica” nei personaggi della zattera gericaultiana. Se forme parodiche sono presenti in questa mostra, come quelle sulla scultura di Henry Moore in Familie Hunger (1985, dalla Collezione Grässlin, St. Georgen), la loro carica eversiva è spuntata dalla banalità della scelta del soggetto – a chi interessa un commento visivo cinico su opere di artisti morti e consegnati alla storia? Eppure nella serie sulla Medusa, dunque riferendosi a un'opera ancora più indietro nel tempo, oltre il modernismo novecentesco, Kippenberger attua una trasformazione audace e potentissima, in cui invece la funzione parodica apre a diverse considerazioni. L'artista ricostruisce in studio le pose dei naufraghi e si fa riprendere dalla fotografa e moglie Elfie Samotan. Attraverso un processo di trasformazione meta-pittoriale – dall'opera storica, alla fotografia, infine alla pittura e al disegno –, Kippenberger si chiede sostanzialmente cosa rappresenti la storia per un artista e quale concezione di “contemporaneità” possa sussistere, nel momento in cui le vicende della vita e dell'occhio lo portano al Louvre e a meditare sulla forma e sulle storie realmente accadute, che inevitabilmente quel capolavoro si porta dietro. Fino alla cronaca stretta di quegli eventi, fatti di cannibalismi e disumanità varie dei superstiti di allora, per restare vivi. Attraverso la disumanità, universalizzata dall'arte, Kippenberger trasforma quindi il suo processo creatore in personale tragedia.

 

L'identificazione con il martirio, quindi insistendo su una concezione romantica del sé-artista, si trova anche in Lassnig, nella satirica Die Lebensqualität (2001, dalla Maria Lassnig Stiftung, Vienna): l'artista si rappresenta come figura cristologica, al limite della morte per acqua, mentre regge un bicchiere di vino e viene azzannata da un piranha. Sul fondo, i relitti di tecnologia e cultura. L'evidente metafora satirica sui rituali dell'arte – spesso teatrali e artificiosi – si innesta su una simbologia che Kippenberger condivide. Il binomio artista-Cristo più l'alter ego Fred la rana è un motivo ricorrente della sua pratica a partire dal 1990: tra le opere in mostra, è presente il senza titolo Dankeschön bitteschön (1990, da una collezione privata svizzera), dove l'artista-rana, evidentemente appesantito da una vita al massimo, si adagia sull'immagine di un crocifisso romanico dipinto a reticolo.

 

Questi lavori non testimoniano solo la riflessione sulla pittura in sé e sul rapporto col modello, ma anche un lavoro critico sul sistema culturale in cui l'opera viene prodotta, già accennato in Die Lebensqualität. Per esempio l'acquarello su carta, sempre di Lassnig, Ich bin der Nachahmer meiner Epigonen (c. 1998, dalla Maria Lassnig Stiftung, Vienna), già nel titolo si fa beffe di nozioni quali imitazione (Nachahmung) ed epigonismo, criticando meta-artisticamente la base di consenso della storia dell'arte, la maledetta influenza – quell'ansia teorizzata da Harold Bloom, la quale, però, proprio non si riscontrerebbe nell'arte “al femminile”. Scrive Bloom su Virginia Woolf, che “solo [Laurence Sterne] sembra aver suscitato una certa ansia nella Woolf”, quando invece l'ansia da influenza colpisce certamente gli scrittori “maschi”. Lo scetticismo di Lassnig è più che ragionevole: l'influenza è ciò che vuole vedere lo studioso, quando l'artista non sa che farsene: forse che l'influenza sia un mito anche per l'arte “al maschile”? Forse che l'artista intrattiene sempre una funzione parodica di scelta, quando vede? E il “femminismo” di Lassnig è forse lo stesso di Woolf, un femminismo estetico ed epicureo, “un rinnovamento del potere creativo, che solo al sesso opposto è dato in dono”, scrive Woolf, senza essere specchio del narcisismo maschile.

Che Kippenberger e Lassnig si conoscessero o no, non è dunque a oggi dato saperlo. Non su una contingenza storica si basa la mostra, ma su una ben più alta ambizione: che una mostra ripensi la storia dell'arte – e le sue ansie da metodologia – e non il contrario.

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