Speciale

Accademia Unidee / Immaginazione, creatività e progettualità

25 Ottobre 2020

“L’immagine fantastica ha la sua verità, con la conseguenza che essa reagisce realmente, e realmente e potentemente resta imbrigliato chi si lascia vincolare…”, dice Giordano Bruno (1986, p. 175) nel De Magia. Il margine è lo spazio dell’immaginazione, della pensabilità, della progettualità. Non può essere inteso come una linea, come un confine, pena la perdita della sua stessa generatività. La zona smilitarizzata nell’esperienza della guerra è un margine che consente di interromperne la distruttività. Le strategie non violente di interposizione sono una via per valorizzare il margine, inventando una possibilità dove non sembrerebbe pensabile. Il margine è perciò uno spazio e un tempo per il movimento e il movimento è uno dei caratteri costitutivi del vivente. È determinante per riconoscere la vita e distinguerla dalla morte, così come è strettamente connesso all’apprendimento e alla creatività umani. In quanto connesso al movimento il margine è il luogo del gioco, dove si può entrare e uscire, consentito a chi gioca per far emergere qualcosa che prima non esisteva.

 

Ricreare il gioco è infatti un modo per evitare la scomparsa del margine di relazione, di emancipazione, di apprendimento, di guarigione. Quanto spazio e tempo di gioco riusciamo a mettere tra le nostre parti interne e tra noi e gli altri, è una domanda decisiva per comprendere il ruolo che il margine può avere nelle dinamiche delle relazioni tra persone, nei gruppi e tra i gruppi. Emerge così che il margine è uno spazio in continua evoluzione, che assume di volta in volta spessore diverso: è quel luogo che non possiamo definire a priori ma emerge nel gioco relazionale con l’altro e nel conflitto trova le sue espressioni più pregnanti. Mentre il confine è una convenzione istituita socialmente, politicamente e storicamente e, perciò, destituibile, certamente con difficoltà, il margine è una proprietà costitutiva e per questo giocare è darsi un margine. Anche il gioco della critica, della confutazione e della falsificazione, il gioco del dissenso, sono possibili per il margine che ci si consente di volta in volta. Esso è frutto dell’immaginazione e della pensabilità. La trasformazione del dissenso e dell’obiezione in crimine è la fine del margine e costituisce un rischio per la democrazia. La democrazia nasce quando si scopre che riflettendo e confliggendo possiamo modificare le istituzioni, perché le abbiamo create noi. Ma qualora l’istituito non fosse neppure conversabile come si può pensare di modificarlo? Le possibilità di non ridursi all’antagonismo e alla guerra sono nel linguaggio: le comunità si generano e riescono a costruire la propria evoluzione attraverso il linguaggio. Se il margine rischia l’estinzione ciò è drammatico da un punto di vista politico, sociale, culturale e biologico. Le monoculture, biologica e della mente, sono ricorsive e generano rischi di estinzione, non solo delle possibilità del legame sociale, ma della vita stessa. La vita emerge dal margine. Come facciamo a riconoscere se un’entità è viva o morta?

 

Sono l’immaginazione e il progetto che contengono, dalle molecole agli esseri viventi, dalla loro competenza a uscire dall’acqua e strisciare fino al movimento del dipingere o del suonare, a distinguere ciò che vive. Il vivente si esprime ai margini del dato, del consolidato, del conflitto fra l’autonomia dell’esistente e la fragilità del possibile. Lo stesso relativismo culturale è stato teorico e astratto, ma mai praticato. E per essere praticato esso deve fare i conti con la domanda di centro, con l’attesa di sicurezza che accompagna ogni azione. La negazione della domanda di sicurezza e di centro, tacciate come nemiche della relatività, hanno creato un vuoto che ha aperto la porta ai diversi integralismi o fondamentalismi. Lo stesso concetto di margine è stato usato in modo compiacente e accattivante, trascurando il bisogno di vedere e fare appropriati esami di realtà, di non addormentarsi in consolatori giochi relativistici. Non è stata adeguatamente affrontata la domanda di centro in nome dell’ideologia del margine. Essere “tra” è anche difficile e per essere generativo richiede di alimentare la generatività del conflitto. Sia a livello del vivente che delle istituzioni e della società, abbiamo bisogno di muoverci ai nostri margini e di gestire il conflitto che ciò comporta per accedere a qualche significato comune e condiviso. 

 

 

Abitare l’ambiguità è difficile: allo stesso tempo la ragione, prevalendo, riduce il margine; l’emozione debordando lo neutralizza nella vacuità. Ha scritto Bion in Attenzione e interpretazione (1970):

 

La ragione è schiava dell’emozione ed esiste per razionalizzare l’esperienza emotiva. Talora il discorso ha, infatti, la funzione di comunicare una data esperienza ad un’altra persona; talaltra, invece, quella di nascondergliela; talaltra ancora, il suo scopo è quello di consentire l’accesso ad un buono stato d’animo e la fruizione di esso, oppure quello di impedire l’accesso ad un cattivo stato d’animo.

 

“Amo l’emozione che corregge la regola, amo la regola che corregge l’emozione”, diceva spesso Gino Pagliarani citando George Bràque. Lo spazio di gioco transitorio che agisce dentro di noi tra ragione ed emozione ha a che fare con la nostra crescita e la nostra stessa libertà. Così come non c’è probabilmente margine senza misura, nelle relazioni sociali. Il legame sociale è una possibilità storica non scontata e la sua qualità stessa è frutto dei modi di elaborare i giochi al margine tra io e altro. Così come le parole sono tre a proposito dell’elaborazione dei conflitti sociali: pace, guerra e conflitto, appunto, e la loro riduzione a due genera regressioni nell’antagonismo e scomparsa dei margini di evoluzione emancipativa, alla stessa maniera le parole sono tre a proposito del legame sociale, dell’origine e dell’evoluzione della cultura e delle istituzioni: centro, confine e margine. La riduzione degli spazi del margine può essere ragione di anomia e di perdita delle potenzialità e della progettualità sociale. Il margine, come il conflitto, hanno a che fare con l’estetica; con la struttura che collega e con la pensabilità inedita nell’esperienza individuale e nella vita sociale. Può istituire differenze rispetto alla mimesi, all’incorporazione, alla collusione, alla conferma incondizionata, alla tentazione di eliminare l’ambiguità della realtà; può concorrere a creare giochi linguistici che possono essere criticati, aprendo le porte della poesia, del fare creativo, inaudito e, in principio, impensabile.

 

 

 

Tra paura e immaginazione

Prevale oggi un immaginario colonizzato che pretende di escludere la paura, di negare la paura. Dovremmo avere un poco più paura di noi stessi, ognuno di se stesso e noi tutti come esseri umani. La paura che è un’emozione di base e che tante cose buone fa per noi, in questo caso ci aiuterebbe a conoscerci meglio e a proteggerci da noi stessi. Abbiamo bisogno di riabilitare la paura, che lungi dall’essere solo la fonte della nostra paralisi operativa, o di uno stato d’animo che spesso ci impedisce di fare le cose, è condizione essenziale per accedere a una cultura del limite, riconoscendo la nostra vulnerabilità e, quindi le nostre possibilità compatibili con la vivibilità del sistema vivente di cui siamo parte. Una delle prime protezioni che ci fornirebbe la paura sarebbe quella dall’umanesimo, aiutandoci a fare la tara alle sue presunzioni. Ci aiuterebbe ad andare oltre un umanesimo idealizzante che, in fondo, coltiva sempre la superiorità presunta di noi umani e ci impedisce di vedere e valorizzare le nostre distinzioni effettive e quelle delle altre specie animali, vegetali e minerali, da cui dipendiamo. È propria delle api, infatti, la distinzione, tra le altre, di impollinare, non certo nostra. È propria dell’acqua la distinzione di dissetarci e alimentare le vegetazioni, non certo nostra. Una delle nostre distinzioni, trascurata o usata in modo unidirezionale, incagliati come siamo nell’indifferenza, nel conformismo e nell’individualismo narcisistico, oggi è particolarmente importante per riconoscere le nostre responsabilità: siamo la specie che per via evolutiva è diventata capace non solo di fare ma di pensare il fare, non solo di sapere ma di sapere di sapere, non solo di apprendere ma di apprendere ad apprendere. Di questa distinzione oggi siamo responsabili, non solo per noi ma per tutto il sistema vivente, se ci rendiamo finalmente conto che la nostra vita è parte del tutto e che da quel sistema dipendiamo.

 

Allora non è certo il post-umanesimo che sembra prescindere dalle responsabilità di distinzione di specie, o un umanesimo predicato e nostalgico, che possono aiutarci: abbiamo bisogno di decentrarci, di deantropocentrizzarci, di precederci. Solo ascoltando quel che ci precede, che biologicamente e psicologicamente sostiene i nostri comportamenti, li influenza e in una certa misura li determina, possiamo considerarci dalla natura di cui siamo parte e valorizzare in modo appropriato e sostenibile la nostra distinzione. Per ora viviamo nell’insostenibilità e negando il limite. La strettoia da attraversare non è né piccola né facile. Comporta l’elaborazione di una ferita narcisistica profonda e vasta. Siamo però una specie capace di trascendersi, di pensarsi oltre se stessa e possiamo cercare la via per divenire terrestri tra i terrestri, proprio grazie alle nostre distinzioni. Quello che oggi ci attanaglia, anche per i modi in cui reagiamo alle emergenze che noi stessi causiamo, è un’epidemia della politica, che induce un uso della paura che mette in discussione la libertà. Scegliere tra la nuda vita e la libertà è la peggiore delle scelte. Esistono le condizioni per l’immaginazione, gli spazi per l’ibridazione, e in quella direzione è importante e necessario camminare, per affrontare i problemi globali e controversi come la crisi ecologica, l’esclusione dei codici affettivi femminili, l’infosfera e le sue conseguenze, i conflitti tra culture e forme di vita, traendone inediti processi e soluzioni.

 

La bellezza contro la povertà culturale

Non sappiamo se la bellezza salverà il mondo, ma certamente la volgarità lo distruggerà, ha sostenuto il premio Nobel per la letteratura Iosif Brodskij. Porre la bellezza al centro di un progetto di ricerca e intervento per affrontare l’impoverimento educativo è un atto di innovazione di notevole portata, giustificato dai più recenti risultati della ricerca scientifica. L’azione culturale e i progetti in cui si esprime possono dimostrare come la bellezza generi esperienze, che, estendendo il potenziale emozionale, cognitivo e comportamentale degli individui e delle comunità, possono contrastare la povertà educativa, migliorano le condizioni di vita e riducendo i costi sociali. La codificazione dello spazio fisico circostante coinvolge l’ippocampo e la corteccia prefrontale, definendo distanze e direzioni tra località. Risultati recenti di ricerca hanno suggerito che gli umani usano gli stessi processi neuronali per organizzare i loro ricordi come punti di una mappa interna di esperienze. Verificando se le stesse regioni cerebrali e i relativi codici neurali supportano lo spazio e vengono reclutate quando gli umani usano il linguaggio per organizzare le proprie conoscenze o rappresentazioni semantiche categoriche, si ottengono conferme sperimentali, come mostrano M. Piazza, S. Viganò del CIMEC, [Distance and direction codes underlie navigation of a novel semantic space in the human brain, Journal of Neuroscience, 2020; 10.1523]. Embodied cognition e movimento nello spazio sono collegati, fornendo una base conoscitiva utile per sostenere l’ipotesi che risonanze di particolare valore estetico possono estendere le potenzialità soggettive.

 

 

Un’ecologia circolare della conoscenza

La validazione scientifica dell’azione culturale è funzionale alla costruzione di un modello che trasformi l’apprendimento tradizionale, fondato su programmi, accumulazione e controllo di informazioni, in un’ecologia circolare della conoscenza basata sulla capacità degli individui di riconoscere, selezionare e interiorizzare i saperi. Al centro dell’apprendimento vi è dunque la relazione tra chi educa e chi è educato, sullo scenario di una nuova alleanza tra scienza, discipline umanistiche, arti, paesaggio, tecnologie. A fondamento di questo processo è posta l’esperienza di bellezza, che lungi dall’essere mera componente esteriore della realtà e dal rispondere semplicemente a un canone, ha la facoltà di estendere ciò che l’individuo e le comunità sentono di poter essere e diventare. L’auspicio è la creazione di comunità educanti multidisciplinari con un'esperienza nazionale ed internazionale esemplare in azioni di accoglienza, educazione, fruizione culturale, ricerca pedagogica e clinica, divulgazione scientifica, formazione di minori e adulti, sperimentazione di economie etiche, circolari, solidali e inclusive capaci di promuovere coesione, sostenibilità ambientale, rigenerazione umana. Attraverso un processo di co-progettazione essi generano un expertise complessa ed originale, caratterizzata da competenze trasversali e meta-disciplinari che punta, attraverso un processo aperto e partecipativo, a integrare pratiche a politiche educative, creando provincie di significati con capacità di contenimento ed emancipazione.

 

Risonanza originaria. I fondamenti del progetto.

Prima di riuscire a narrarli, gli altri e le cose del mondo, ma soprattutto e in primo luogo l’altro, devono aver esercitato su noi un richiamo originario. Quando abbiamo preso almeno una certa distanza dalle cose, è stato possibile considerarle, sollevarle da dove se ne stavano, e ascoltare la risonanza che creavano in noi. Ecco: forse la bellezza primigenia è emersa da esperienze originarie simili. Quel che fa la nostra distinzione umana, allora, probabilmente prima ancora del linguaggio, è il fatto che possiamo staccarci simbolicamente dalla natura, prendere una distanza che ci permette di farne esperienza corporea e visiva col nostro movimento e col nostro sguardo. Così che quando l’altro e la natura di cui siamo comunque parte risuonano in noi, in modo particolarmente profondo, noi chiamiamo bellezza l’esperienza che estende e aumenta noi stessi in modi e per vie che senza quella esperienza non sarebbero possibili. 
Non si risolve solo nello sguardo la bellezza, pur se a noi apparirebbe immediato il primato dell’occhio. Se l’occhio vuole la sua parte, pare trattarsi appunto di una parte.

 

Di bellezza si vive perché a essere coinvolto è tutto il nostro corpo, con il cervello che contiene e la mente che ne emerge: tutti i nostri sensi nella loro collaborazione sinestetica danzano col mondo mentre risuona in noi. In quell’accoppiamento che richiama la comunanza originaria col vivente possono esserci, e ci sono, esperienze che ampliano il senso del possibile, estendono quel che sentiamo, aumentano quel che siamo e pensiamo di essere. Se l’estetica non riguarda solo l’aspetto esteriore delle cose, ma attiene al nostro legame col mondo, l’esperienza di bellezza ne è la fonte e il codice. Un codice affettivo, emozionale, che collega mondo interno e mondo esterno con la mediazione del principio di immaginazione. L’estensione di sé, negli spazi aperti della nostra imperfezione e incompletezza, concede la possibilità di accedere al senso della verità di ognuno e sostiene la via della propria individuazione e il coraggio di essere. Come ha scritto il giovane poeta John Keats: “Bellezza è verità, verità è bellezza. Questo solo sulla terra sapete, ed è quanto basta”.

 

La bellezza è una domanda.

Ciò che non conosci lo trovi dove non sei mai stato”, afferma uno dei proverbi africani raccolti da Marco Aime, [Il soffio degli antenati. Immagini e proverbi africani, Einaudi, Torino 2017]. Quando Josif Brodskij, in occasione del conferimento del premio Nobel per la poesia e la letteratura, sostenne che uno dei principali problemi del nostro tempo è la volgarità, e che solo la bellezza avrebbe potuto salvarci, non avevamo forse compreso fino in fondo quanto fosse nel giusto. Ma si sa, è dei poeti vivere al di sopra delle proprie possibilità, come diceva sempre Luigi Pagliarani. Brodskij poi aggiunse che l’estetica è la madre dell’etica, perché la contiene, completando una diagnosi e un progetto per cambiare la nostra vita. Non l’abbiamo ascoltato. La volgarità, e non la bruttezza, si propone nel nostro tempo come il contrario della bellezza; così come l’indifferenza, e non l’odio, è il contrario dell’amore. Se il bello è passione e distacco; se è perfino un certo livello di disinteresse che separa il bello da altre forme di passione, anche il brutto è passione e richiede di essere capito e giustificato, come ha sostenuto Umberto Eco in un testo sul brutto, [Sulle spalle dei giganti, La nave di Teseo, Milano 2017].

 

Ci rendiamo subito conto che siamo sulla soglia di noi stessi, al margine generativo del possibile, dove si profilano le condizioni per estendere e aumentare il nostro mondo interno e le frontiere del sensibile. È lì che si combinano la generatività creativa umana e la bellezza come estensione della capacità e delle possibilità di accedere al mondo e sentirlo, proprio per il distacco appassionato che ci coinvolge e, a volte, travolge.

Della creatività poetica di Osip Mandel’stam è stato scritto: “Per lui non c’è distanza tra impulso e azione…”.

Guardando Mandel’stam “sembra di spiare il concreto lavoro fisiologico della creazione”, come si legge in Osip. M. Mandel’stam, Quasi leggera morte. Ottave, a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 2017. 

Sempre Eco in Il nome della rosa aveva scritto: “tre dita tengono la penna, ma il corpo intero lavora. E dolora…”.

La bellezza rivela quello che senza la sua esperienza non avremmo sentito e incontrato, e allo stesso tempo, per farlo, ri-vela, pone un nuovo velo, una nuova soglia, una nuova domanda che prima di quella esperienza non saremmo stati in grado di porci. La bellezza non si lascia ricondurre a uno stato cristallizzato perpetuamente nella propria fissità. L’evento o l’avvento della bellezza, il suo emergere, è sempre un processo, una tensione: quest’ultima è, probabilmente, lo stesso modo di essere della bellezza. 

 

Sporgersi sulla soglia

Con la bellezza siamo di fronte a uno slancio continuamente ripetuto, che ogni volta si presenta come nuovo. In quanto unici e capaci di presenza, cioè di esserci e di sapere di esserci, noi esseri umani tendiamo alla pienezza della nostra espressione e siamo virtualmente abitati dalla capacità di creazione e di bellezza, soprattutto dal desiderio di bellezza. Siamo in grado di trascenderci tendendo all’oltre rispetto a quello che siamo già e che c’è già: siamo in grado di interrogarci e di manifestare la dimensione esclamativa dell’aperto. Quella provvisoria e relativa socchiusura del dominio di senso e dell’universo dei significati, ci porta sulla soglia dell’inedito e a un’estensione di noi stessi e ha a che fare con l’accessibilità alla bellezza. È, parafrasando Coleridge - che ha cantato la lanterna di poppa, che diventa traccia del viaggio del marinaio - che possiamo immaginare una lanterna di prua in grado di illuminare e indicare la via dell’accessibilità al possibile che abbiamo davanti.

 

La bellezza sembra essere frutto di una vista superiore alla vista sensibile, l’epopteia, cioè la capacità di vedere più in là. Ciò ci porta, come vale ribadire, oltre il primato dell’occhio e della visione come fondamenti dell’esperienza di bellezza. Se l’esperienza di bellezza è connessa a quella estetica, non può essere ricondotta alla sola visione e al piano sensibile, ma esige il coinvolgimento corporeo emozionale. Sono proprio l’assenza di distanza tra “impulso” e “azione” e “il concreto lavoro fisiologico della creazione” che interessano, nel momento in cui ci troviamo a cercare di comprendere cosa si possa intendere per bellezza. Se non ci consegniamo alla riduzione del concetto di bellezza alla cosmesi, all’esteriorità o alla classica isola che si staglia dallo sfondo configurando uno stato di eccezionalità, allora è nei sottili confini tra la creatività, l’esperienza estetica e l’immaginazione che dobbiamo provare a cercare. Certo, la creatività si propone come una distinzione specie-specifica di homo sapiens ed è strettamente connessa alla nostra competenza simbolica e al nostro linguaggio verbale articolato. Essa può essere definita come la capacità di comporre e ricomporre in modo almeno in parte originale i repertori disponibili del mondo. È dipendente dalla discontinuità e dalla elaborazione di break-down che interrompono la consuetudine e sospendono almeno temporaneamente i domini di senso.

Sporgersi sulla soglia e intravedere quello che prima non c’era è un processo correlato all’esperienza di bellezza, così come è correlato alle esperienze di terrore. Tra bellezza e terrore vi è una forte tangenza ed entrambe hanno a che fare con l’esperienza estetica, se l’estetica non è ridotta a qualche canone dominante ma comunque provvisorio. L’estetica, infatti, riguarda la struttura che connette e le sensazioni (aisthanomai) che emergono da quelle connessioni in grado di indicare una ulteriorità di senso, di tendere oltre. 

 

Tensione rinviante

L’esperienza estetica emerge, infatti, da una tensione rinviante che attiva la propensione all’eccedenza e alla trascendenza dei domini di senso vigenti, una tensione che rinvia ad altri sensi e ad altri significati che senza quella tensione non sarebbero emersi [cfr. U. Morelli, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino 2010; post-fazione di Vittorio Gallese]. L’esperienza di bellezza esige la complessa interdipendenza di queste dinamiche e non può essere confusa con l’esteriorità o con la riduzione a un canone dominante. Una comprensione della bellezza da un punto di vista evolutivo, richiede di collocarla nelle espressioni emergenti dell’evoluzione umana e di connetterla al rapporto tra corpo-cervello-mente e mondo. Richiede, inoltre, di collocarla nell’intersoggettività come fondamento e base dell’individuazione e dei comportamenti, essendo la bellezza, e l’emergenza estetica che la genera, un’esperienza sociale. 

A partire da queste considerazioni la bellezza può essere riconosciuta come un’esperienza di risonanza particolarmente rilevante con gli altri e il mondo, tale da estendere il modello e il sentimento di sé. Così come un’esperienza di terrore genera una minorizzazione di quello stesso sentimento di sé.

Se si assume questa prospettiva evolutiva e neurofenomenologica nel tentativo di comprendere la bellezza, risulta difficile condividere le considerazioni che ritengono che “per ciò che riguarda la bellezza si è semplicemente spettatori, si è passivi, ci si trova in uno stato di stupore, di meraviglia”, come sostiene Umberto Galimberti, [in Il mistero della bellezza, Orthotes, Napoli-Salerno 2016].

Sia la prevalente attenzione alla visione che la riconduzione della bellezza a un canone richiedono una riconsiderazione della bellezza e della sua esperienza e funzione nella nostra vita. Un’eco del canone, connessa alla relatività dell’esperienza del bello la troviamo, con la consueta ironia, nel Dizionario filosofico di Voltaire:

 

“Chiedete a un rospo che cosa è la bellezza, il vero bello, il to kalòn. Vi risponderà che consiste nella sua femmina, coi suoi due begli occhioni rotondi che sporgono dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo e il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello consiste per lui nella pelle nera e oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che il bello è un paio di corna, quattro zampe a grinfia, e una coda”.

Ancora una volta dominano in queste note sarcastiche e straordinarie la visione e il canone. Come se fossimo solo occhi e avessimo un solo punto di vista. Siamo invece un corpo con un sistema sensori-motorio che esprime emozioni alla base della nostra cognizione. Siamo homo sapiens sapiens e disponiamo di competenza simbolica e linguaggio verbale, oltre che di un sistema corpo-cervello-mente neuroplastico che è alla base della nostra intersoggettività costitutiva. Quel sistema può diventare la base per esperienze di bellezza in grado di affrontare e ridurre l’impoverimento educativo.

 

Per noi niente è come appare. C’è sempre molto di più o molto di meno. Può esserci tutto o niente. Ognuno di noi vede quello che egli stesso è al punto d’incontro con il mondo, in un processo ecologico dell’azione-percezione. I segni, quando sono particolarmente sollecitanti, sono mondi in cui viene allo stesso tempo da perdersi e opportunità e svolte di estensione di sé. Se nulla è come appare e quello che vediamo riguarda le proiezioni del nostro mondo interno, è importante approfondire come il non umano influenzi l’umano, essendo fatti, a livello elementare, della stessa sostanza. Se, per dirla col bardo, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, è pur vero che sogniamo in quanto un pugno di materia grigia, il nostro cervello, produce quei sogni, anche se sappiamo ancora molto poco di come ciò accada.

 

Accademia Unidee è il prototipo di un nuovo tipo di accademia d’arte della Fondazione Pistoletto. La proposta nasce dal percorso e l’esperienza del grande artista e dalle numerose azioni e iniziative ospitate nella sede di Cittadellarte. Accademia Unidee si caratterizza per una conoscenza multidisciplinare, orientata alla sostenibilità, all’innovazione consapevole, con attenzione all’impatto delle tecnologie sull’uomo, sull’ambiente e sulla società, e con una forte vocazione alla ricerca. Leggi anche: Una nuova Accademia.

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