L'ekfrasis degli scrittori / La felicità delle immagini, il peso delle parole

18 Agosto 2019

Alessandra Sarchi è una scrittrice ed è una studiosa di arte. Le sue due anime emergono esplicitamente nel titolo del suo ultimo libro, dove si parla di “felicità delle immagini” e di “peso delle parole”. Le due espressioni, se incrociate, possono spiegare il contenuto dei cinque esercizi di stile che Sarchi esegue con un tocco fermissimo e nello stesso tempo leggero, mettendo in fila cinque scrittori che costituiscono insieme una notevole sezione del canone letterario italiano novecentesco: Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati. La premessa del libro fa emergere molte altre voci (Morante, Parise, Vittorini) tra cui primeggia quella di Roberto Longhi, lo storico dell’arte che in un certo senso è riuscito a impostare in modo nuovo la tradizione di quella che anticamente si definiva ekfrasis, cioè la tecnica con cui uno storico dell’arte deve far rivivere nelle parole la sostanza di un quadro, transustanziandolo (l’espressione veniva usata da Pasolini per il cinema) dalla materialità dei colori, delle figure, delle immagini all’immaterialità della scrittura. Stando al titolo del libro, Sarchi ci propone che le immagini possiedano una natura “felice”, cioè etimologicamente capace di rendere soddisfatti, anche là dove la scrittura sembra trovarsi in difficoltà proprio per un eccesso di peso che la porta ad annaspare inseguendo la densità del mondo. Tutto questo libro parla di crisi della scrittura, e di scrittori che si rivolgono alle immagini, direttamente o indirettamente, quando capiscono che la realtà, da loro inseguita, si allontana progressivamente. Allora sembra più facile guardare a una realtà già messa in posa, già resa perfetta proprio dalle immagini.

 

C’è un pensiero di Pasolini a proposito di Longhi e di Caravaggio che potremmo considerare il nucleo del libro. Pasolini dice che il mondo pittorico di Caravaggio viene colto attraverso un diaframma che lo rende per sempre fisso e vero. Il termine che Pasolini usa è abbastanza problematico, perché non sappiamo bene a quale strumento ottico si riferisca la parola “diaframma”. Potrebbe essere una metafora che indica proprio cosa avviene quando la realtà diventa immagine, cioè entra in una dimensione che non è più propriamente reale ma neanche immaginaria. Diventare immagine significa anche entrare in un rapporto con le parole, dal momento che le parole (vedi Longhi) sono l’unico strumento per ridare alle immagini una dimensione di praticabilità. Potremmo anche pensare che sia proprio il peso delle parole a rendere percepibile la felicità delle immagini. E infatti leggere un saggio critico di Longhi riattiva un preciso desiderio di tornare a guardare le opere che Longhi descrive, dal momento che la sua scrittura incrementa la componente di realtà implicita nelle opere stesse, e lo fa utilizzando immagini della realtà per definire ciò che si trova nella pittura: la luce notturna che cade su letto di Costantino negli affreschi di Piero ad Arezzo diventa, per esempio, un mucchietto di neve candida, la punta del padiglione un dosso spelato di vulcano. La scrittura si incrementa di peso (e di felicità) attraverso la realtà delle immagini.

Sarchi è interessata al dibattito che ha percorso il mondo artistico nel dopoguerra intorno al problema del realismo e di una nuova arte che sembrava voltare le spalle a qualsiasi ipotesi di realismo. Dove Guttuso scivolava sempre di più verso un’obbedienza a dettami di realismo proprio perché bisognava difendere gli avamposti ideologici di una certa sinistra. E questo dopo che Vittorini, con un occhio lucido, aveva visto in Guttuso il Picasso che mancava all’Italia, e aveva costruito quell’opera unica che è Conversazione in Sicilia, definita da Calvino il romanzo “Guernica” della nostra letteratura.

 

 

Però il libro di Sarchi non è solo una ricostruzione attenta di un dibattito ideologico, anzi inizia ad alzarsi dal dibattito e a guardare le cose in modo problematico proprio quando ci rendiamo conto che ci propone una serie di scrittori che credono di combattere con un’ipotesi di realtà ma stanno combattendo con un fantasma che attraversa la loro scrittura. Questo fantasma sembra avere una natura certa ma più lo interroghiamo più ci sfugge. Si tratta di quel tipo particolare di immagine che è contenuto nella scrittura e che si riattiva nella nostra mente quando leggiamo e abbiamo bisogno di procedere attraverso grumi di significati che producono effetti emotivi e che chiamiamo solo per comodità “immagini”. Cesare Garboli sosteneva che attraverso la scrittura di Longhi le opere d’arte si liquefacevano per diventare una sostanza diversa dalla realtà, così come avviene con le immagini mentali che Proust insegue nella Recherche e che Deleuze identifica come “essenze”. Secondo un giovane teorico della biopoetica, Paolo Gervasi, lo spazio testuale del saggio critico crea uno spazio mentale fondato sull’ibridazione, cioè sulla convivenza di tipologie diverse di scrittura e quindi di percorsi emotivi e cognitivi. Gli esercizi su cui si esercita Sarchi hanno qualcosa a che fare con questo tipo di indagine. Il suo libro è un insieme composto di immagini scritte che entrano in risonanza tra di loro e coinvolgono le esperienze creative di cinque scrittori che appartengono a un mondo apparentemente lontano, quel mondo in cui la scrittura era fondata su una pratica di inesausta interrogazione del reale in cui anche il mondo artistico era coinvolto. Il dibattito sull’arte e sulla letteratura intrecciava senza soluzione di continuità domande e risposte. Si può vedere il capitolo dedicato a Paolo Volponi, di cui Sarchi mette in luce la doppia anima: il dirigente d’azienda integerrimo e roso da problemi etici da una parte, il collezionista compulsivo che partecipa alle aste internazionali per accaparrarsi tele seicentesche dall’altra.

 

C’è un filo che unisce queste due anime? Secondo Sarchi il filo sta proprio nelle soluzioni immaginative con cui Volponi ha messo in scena la mutazione antropologica che passa attraverso lo sviluppo dell’industria. La visionarietà figurale che caratterizza i personaggi dei romanzi di Volponi affonda le radici nell’immaginario pittorico seicentesco, che costituisce il “diaframma” attraverso il quale Volponi può leggere l’incidenza della vita industriale sul corpo di coloro che ne fanno parte. Bruto Saraccini, il dirigente protagoniste delle Mosche del capitale, vede se stesso e il mondo attraverso densi filtri iconici che vengono da memorie di opere d’arte. Quando decide di affrontare il proprio superiore, lo fa ispirandosi alla descrizione di Longhi di un’opera d’arte attribuita a un maestro umbro del ‘300, dove si vede la derisione di Cristo in croce. Dunque siamo in presenza di un’immagine scritta che a sua volta deriva da un’immagine scritta (quella di Longhi). Ambedue contribuiscono a esprimere una condizione alienata, in cui il soggetto sente di non poter più avere appigli sul mondo che lo circonda. Il sistema dei riflessi provoca vertigine, proprio perché sembra che la realtà si mostri come un insieme stratificato sempre più denso e illeggibile. Come dice Sarchi, siamo al confine di un’epoca dove la cultura umanistica è ormai desueta, o perlomeno messa da parte. “Bruto Saraccini è imbevuto di cultura figurativa, ma a cosa gli serve, se poi non riesce a far entrare in dialogo i due mondi?”, nota l’autrice. E la domanda potrebbe risuonare anche negli altri capitoli del libro. O varcarne i confini e arrivare fino a oggi. Possiamo cioè pensare di nuovo un dialogo tra immagini e scrittura concepito come una forma di incremento reciproco? Possiamo pensare che la malattia delle parole e l’intossicazione delle immagini si curino a vicenda? 

 

Sarchi dedica giustamente un capitolo del suo libro a Pasolini e uno a Calvino. Per quanto riguarda Pasolini, viene fatto notare un paradosso che percorre tutto il cinema e l’opera scritta. Pasolini ha bisogno di continui riferimenti alle immagini artistiche, è forse lo scrittore che cita di più l’arte italiana, prima attraverso la poesia e poi attraverso il cinema. Si potrebbe sostenere che gran parte della sua opera è un pastiche visivo che nasce da memorie artistiche. Ma i riferimenti all’arte presuppongono una tensione ininterrotta verso quello che Pasolini chiama “realtà”, e che preme sotto le immagini per farle esplodere o per azzerarle. Pasolini ha bisogno di invocare la realtà se vuole credere alla potenza delle immagini, ma ha bisogno delle immagini perché presuppone che dietro di loro ci sia la realtà. Sarchi si ferma sul Decameròn, opera apparentemente dedicata a un desiderio estremo di realtà (Napoli, il dialetto, i corpi dei giovani) ma anche opera che si costruisce come allegoria di ciò che non esiste più, cioè la realtà stessa. E così le immagini di Pasolini perdono la connotazione di felicità e acquistano quella di pesantezza, funzionano cioè solo come sopravvivenze, direbbe Didi-Huberman.

 

A Pasolini sembra contrapporsi Calvino, che arriva invece allo stesso nodo problematico sia con Se una notte d’inverno un viaggiatore sia con Palomar. Entrambe queste opere ipotizzano infatti una scomparsa di colui che scrive per un eccesso di scrittura (i romanzi che imitano tutti gli stili possibili) o di colui che guarda per un eccesso di visione (il mondo che non sembra più realmente dominabile con la vista e con la mente). La limpidezza di Calvino arriva allo stesso punto oscuro della visionarietà artistica di Pasolini. Non è meglio pensare a un’opera che si cancella da sola, o che esiste solo in sogno? Anziché raccontare, non è meglio descrivere infinitamente il mondo in tutti i suoi interstizi e per questo illudersi di scomparire in quanto soggetto? “Questo scomodo diaframma che è la mia persona”, dice lo scrittore Silas Flannery nell’ultimo romanzo di Calvino. E guarda caso torna proprio fuori il concetto di Pasolini su Caravaggio. Dunque neanche le immagini sembrano così felici, dal momento che il loro intervento non fa altro che far emergere punti critici in cui la scrittura acquista una autoconsapevolezza di fallimento. Tutt’al più le immagini, come avviene in Moravia, diventano fantasmi erotici che si sgonfiano di fronte agli occhi dell’osservatore. Occhi che hanno bisogno poi di praticare un esercizio zen di meditazione per ricominciare a vedere (il cedro del libano che osserva Dino dalla finestra della clinica in cui sta guarendo dopo un tentato suicidio).

Sarchi ci fa capire che il problema del visivo accompagna tutta la letteratura novecentesca, e che anzi (come avviene con l’ultimo Calvino) il visivo può corrodere dall’interno la scrittura narrativa e addirittura mettere in crisi l’ipotesi stessa di scrittura. Il signor Palomar muore (forse non realmente) quando si rende conto che il mondo è troppo ampio per essere contenuto nella precisione dello sguardo analitico. L’ultimo scrittore sottoposto a esercizio critico è Gianni Celati. Sarchi trova in Celati l’approdo migliore per ipotizzare una nuova postura di fronte al mondo delle immagini, che non sono più immagini artistiche ma semplici vedute del quotidiano. Celati le chiama apparenze, con un termine che annulla l’idea pasoliniana di una realtà fissata attraverso uno strumento che la blocca nella perfezione. Le apparenze di Celati sono il quotidiano che si presenta come di nuovo esperibile e interessante. Interessante perché lo riusciamo a vedere fuori da qualsiasi vincolo prestabilito. Non vediamo più immagini già formate e contenute nella memoria ma vediamo tutto come per la prima volta.

 

Cioè assistiamo alla nascita di immagini. Scrivere significa inseguire il momento germinativo dei singoli aspetti del reale. Questo fenomeno aurorale colloca Celati alla fine del percorso, come un ponte che porta verso qualcosa che deve ancora formarsi. Celati ha profondamente rielaborato la sindrome di Palomar e ha proposto un’interrogazione del quotidiano che esorbita dall’ossessione dell’esaustività e della perfezione, dal momento che l’io non può esaurire le immagini ma solo prendere atto che la loro vita è indipendente. Là dove Calvino si era irrigidito nella fissazione maniacale delle differenze del visibile, Celati riesce a trovare di nuovo una libertà di visione. Forse il suo bastone rabdomantico gli è stato offerto da Luigi Ghirri, che a sua volta ha creato immagini. La felicità di una fotografia di Ghirri riapre così le gabbie pesanti della scrittura. E Sarchi (recuperando una tradizione alta della nostra letteratura) ci indica una strada in cui di nuovo l’occhio può imparare a vedere.

 

Alessandra Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati, Bompiani, 2019, p. 192

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