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Parole e immagini (8) / Qui Odessa. Il mare

27 maggio 2022

 

Il mare inizia a insegnarti tante cose già da piccoli. Se non sai nuotare – non andare dove è profondo. Rimani a riva e goditi il paesaggio. E se invece sei capace, hai un motivo in più per prendere coscienza della macchina immensa nelle cui mani ti consegni. Ingannevolmente tenero, il mare è tiepido ai bordi, ma più ti allontani dalla riva, e più forte ti ustiona il freddo che viene dal fondo. Abbiamo imparato a vivere accanto a un gigante che sovrasta in potenza qualsiasi velleità umana. Eterno. Sconfinato. La sua scala trasforma in granello di sabbia la lunghezza della tua esistenza, e che cosa possono valere le tue ambizioni, i problemi, gli onori, sullo sfondo di un boato che segue un ritmo? Il mare non appartiene a te, e a nessun altro. Non deliziarti della sua tenerezza. Se vuoi – vieni pure, non ti dirà di no. Ma non ti aspettare nessuna risposta.

 

La spiaggia vuota è una terra di confine, ci finiscono i sedimenti portati dal mare ma anche i rottami abbandonati dagli uomini (senza contare i relitti, che mettono addosso una tristezza perniciosa, salvo accendere in qualcuno il miraggio dell’avventura). Osservando gli scatti marini di Anna – saldi nella struttura compositiva ma al tempo stesso capaci di prendere al laccio il blink accidentale dell’azione, e così abili nel costruire un gentile equilibrio fra queste due strisce narrative, l’occhio del fotografo e la vita guizzante o metafisica, a seconda delle ore del giorno – con oggetti precari, cartelli scritti con grafie incerte e infantili, ferri arrugginiti sul lido, pezzi di cemento, strisce di plastica al vento, filo spinato, barattoli, ruggine fin dentro l’occhio, ho ricordato una serie inedita del fotografo Francesco Radino, recentemente scomparso, con cui ho avuto la fortuna di collaborare su diversi progetti.

 

Gli avevo chiesto una serie di immagini per un libro a cui sto lavorando dal titolo La foto sbagliata. Mi diede una serie di foto in bianco e nero su una spiaggia in Toscana, con legni contorti ed erosi dal vento accanto a ferri ammalorati ancora più contorti, filo spinato, la carcassa di un frigorifero, uno stendino squassato. Gli chiesi perché considerasse queste foto sbagliate. “Perché sono il risultato di una grande arrabbiatura,” – mi rispose. Era in vacanza in Toscana con sua moglie e per caso incontrano una coppia di loro amiche gay, molto attive sul fronte femminista. Baci, abbracci. Le due invitano i Radino ad andare a trovarle nella loro casa estiva nei giorni successivi. Cosa che succede, dopo un’ora di auto Radino con moglie arriva alla bella casa. Campanello. La porta si apre. Baci, abbracci.

 

73° giorno dell’invasione, “Terreno minato”.


La moglie di Francesco entra, Francesco sta per seguirla ma viene bloccato. “Mi dispiace, tu non puoi entrare perché sei un uomo.” Essendo un galantuomo, Francesco accetta il verdetto, ma è fuori di sé per la situazione assurda inattesa e la violazione delle leggi sacre dell’ospitalità. Per far sbollire l’incazzatura, va a farsi una passeggiata al mare e si mette a fotografare ciò che trova: reliquie di dolore o abbandono in risonanza con il suo turbamento interiore. Mi disse che si calmò. Dal che possiamo estrarre una possibile legge: fotografare scarti e relitti può essere terapeutico. In spiaggia, a orizzonte sgombro, la mente si rischiara, le increspature si adagiano sul fondo e si chetano, forse.

 

Tutto diventa abituale, solo a te non è dato di diventare un’abitudine”, scriveva così del mare Boris Pasternak, ricordando il golfo di Odessa. Siamo abituati a vivere vicino. Il sottofondo di rumori usuale – i colpi di sirena del faro nella nebbia e il fragore delle gru nel porto – si è fermato. Il mare tace. Il porto è chiuso, il faro è spento. Le spiagge sono state minate: sono chiuse e pattugliate perché nessuno salti in aria. 

Eppure ci sono degli idioti senza freni che sfondano le linee e corrono sul campo minato per andare a fare un bagno. Mia mamma raccontava, ripetendo quanto aveva sentito dalla sorella maggiore, che durante la Seconda Guerra mondiale avevano sigillato le spiagge come oggi: avevano paura delle truppe da sbarco. Le cose ritornano. Ma il mare è vivo, respira, pulsa accanto a noi, inaccessibile e meraviglioso.

 

I ricordi del mare a Odessa. Ricordo che una volta vidi nevicare sul mare. I fiocchi si posavano su un mare calmo, l’aria era soffice e bagnata. Mi sembrava che eventi straordinari come questo in Italia non potessero succedere, e quindi la mia terra d’elezione estiva, Odessa e l’URSS, erano i luoghi dell’imprevisto, del fuori norma, dello stupore. Ma dove si è mai visto che la neve si sciolga nel mare? Quella volta sì che il mare era proprio nero, o come si diceva nei sussidiari, plumbeo. Il mare era fonte di guai. Dai tempi della guerra erano rimaste molte carcasse di navi, alcune sotto il pelo dell’acqua, la maggior parte fuori città ma qualcosa anche in città.

 

88° giorno dell’invasione, Tai chi.


C’erano sbarre, tubi, telai marci, gomiti acuminati, e ai bambini si diceva in continuazione di non andare a tuffarsi dai moli perché poteva succedere che poi non si sarebbe più tornati su. I ragazzini non condividevano le apprensioni dei genitori, e i moli brulicavano di scimmie urlatrici che si lanciavano nell’acqua. Una volta vidi un uomo disperato correre giù per le scale a rotta di collo, erano andati a chiamarlo per una disgrazia. In un attimo tutta la spiaggia sapeva. Sua figlia di 13 anni era morta. Diverse persone hanno cercato di rianimarla ma senza esito. Lui era in ginocchio disperato, noi tutti in cerchio. Dalla bocca della figlia usciva una bava verdastra, non aveva quasi seno, ancora. Dalla bocca del padre usciva una bava di singhiozzi fino al cielo e una sola parola, ripetuta a martellate: “Perché.” Era il mio primo incontro vis-à-vis con la morte, e accadeva in un luogo di svago come la spiaggia. Che strano. Si diceva che avesse battuto il capo contro un ferro sott’acqua. Vallo a sapere.

 

I rottami non erano le uniche minacce dal mare. C’era anche il colera. Non dimentico lo sguardo di sgomento appena percettibile che vedevo sui volti dei grandi quando veniva pronunciata questa parola. Così come gli incoscienti che attraversano oggi i campi minati per andare a fare il bagno, qualcuno in piena epidemia andava a mare a pescare le cozze, che, come è noto, sono dei formidabili untori. Le persone sapevano, ma il saperlo non le fermava: c’era una tradizione. Durante la Seconda guerra mondiale, in tempo di fame, si faceva così. Valle a fermarle, le persone, con lo spauracchio del contagio. Così si ammalavano e morivano più del dovuto. La guerra è anche questo: fare le cose che in tempo di pace non faresti, con la scusa della guerra. Il colera poi finì, e qualche volta andammo con il mio vicino Igor a pescare le cozze che poi sua mamma ci avrebbe cucinato con il riso. Il rischio pareva scampato, ma la sensazione del rischio continuava ad aleggiare. A distanza di decenni, ogni volta che mangio le cozze mi resta in bocca un sottile velo di paura: “Avrò preso il colera?”

 

All’inizio degli anni ’90 ho aperto una piccola galleria nel centro di Odessa. Lavoravo con la generazione ancora in vita di artisti dell’avanguardia caduti in disgrazia nell’Unione Sovietica. Allora era in corso un’emigrazione di massa, e non si potevano portare all’estero lavori del XIX secolo e dell’inizio del XX. Perciò mi è capitato di esporre anche quadri antichi. In quel periodo non era difficile incrociare bozzetti di Aivazovskij. Nella sua epoca, l’artista aveva esposto molto in città, aveva venduto molto, e poi era decisamente prolifico. Anche se bisogna dire che giravano molti falsi delle sue marine. Per un breve periodo, ho tenuto appesa in galleria una sua piccola veduta quadrata con un veliero all’alba. Apparteneva a una signora anziana in partenza per gli Stati Uniti, un medico e collezionista di lunga data. La sua dacia al Bolshoj Fontan (“Fontana Grande”) confinava con la nostra, era amica di mia nonna ed essendo in confidenza, ha raccontato senza scomporsi la storia di come fosse entrata in possesso del quadro. Ai tempi, in città, del collezionismo di dipinti dell’Ottocento si occupava un ristretto cerchio di persone, e tutte più o meno con le stesse possibilità finanziarie.

 

88° giorno dell’invasione, Bagnanti.


Tutto dipendeva da chi arrivava primo. La scena è questa. Nella casa della vedova Patinioti, dove era stato messo in vendita un ricercatissimo Aivazovskij, Raissa Isaakovna si trova faccia a faccia con un altro provetto collezionista, Aleksandr Semjonovich. In tasca hanno all’incirca la stessa somma. I due collezionisti si siedono a bere il tè insieme alla padrona di casa. Parlano, aspettano invano che l’altro abbandoni il campo. Il “duello” continua fino a notte inoltrata. La prima ad arrendersi è la padrona di casa, che scusandosi si congeda e dice che se la devono vedere fra loro. I due collezionisti restano seduti al tavolo. Notte fonda. E qui entra in gioco un fattore che fa pendere la bilancia leggermente dalla parte di uno dei contendenti: l’abitudine della dottoressa a fare le guardie notturne. Raissa Isaakovna si accorge che la testa di Aleksandr Semjonovich comincia a cadere di lato, e lui si è leggermente appisolato. Non perde tempo. Lascia i soldi sul tavolo, prende l’Aivazovskij ed esce in punta di piedi, incamminandosi col quadro sottobraccio verso la propria casa, sulla Pushkinskaja. Voglio far notare che la totale fiducia fra gli attori della storia è un fatto a tal punto naturale per Odessa, che nessuno se ne stupisce.

 

Quando andavo in vacanza in URSS collezionavo francobolli. La filatelia sovietica era vasta e sorprendente. Procedeva per “vene” e io ero come un minatore: scavavo. C’erano da celebrare i programmi spaziali, i generali vittoriosi, i grandi scrittori, le città industriali, le grandi opere come dighe, canali e ferrovie, i personaggi storici benemeriti, le grandi professioni sovietiche come lo scienziato, il metallurgo, il pilota, e poi c’era un filone cospicuo rappresentato dai quadri, con da una parte la tradizione occidentale, e dall’altra quella russa, in serie accuratamente separate. Di quella occidentale ricordo un ritratto femminile di Van Eyck, molto bello e soprattutto molto grande. Di quella russa, i tre orsi di Ivan Sishkin, fra i quadri più celebri dell’Ottocento russo, e le marine di Ivan Aivazovskij. Al Museo d’arte di Odessa c’è una sala intera di opere di Aivazovskij.

 

81° giorno dell’invasione, Bambina.


Qui, il visitatore curioso potrà controllare de visu se sia meglio la copia del mare o l’originale. Nato poverissimo in una famiglia armena, grazie a un talento mostruoso divenne facoltoso. Era una macchina pittorica e lasciò uno stock di 6.000 quadri, di cui molti oltre i due metri di dimensioni. Era anche molto veloce nel processo, famose erano le miniature che regalava agli ospiti realizzate in pochi minuti. Il pittore Arkadij Ryleev riporta di averlo sentito dire, dopo averlo veramente fatto in sua presenza: “Un’ora e cinquanta minuti fa questa tela era vuota, ora su di lei si agita il mare.” Mi soffermo sul verbo agitarsi. Essendo Aivazovskij un temperamento schiettamente romantico, le sue marine drammatiche sono la perfetta rappresentazione di una tempesta dello spirito in piena ottemperanza di un’estetica Sturm und Drang. Il mare genera altezze vertiginose, dalle quali gli scafi sprofondano in balia della forza di gravità o a cavalcioni delle quali si piantano in bilico un istante prima di scuffiare. Con il mare dialogano cieli altrettanto inquieti, e una luce possente e messianica.

 

La luce si irradia sopra l’orizzonte, o sotto, scalpellando la distesa del mare, o in alcuni casi sembra addirittura provenire dal fondo, come se qualcuno avesse posizionato proiettori verticali di inaudita potenza. Dipinse sei volte Pushkin in riva al mare, e anche Napoleone a Sant’Elena, dipinse Napoli e Sorrento, fu stimato da un altro grande autore marino, William Turner, e fu accolto a braccia aperte dalle grandi accademie d’arte europee, fra cui Roma e Firenze. Una vera star. Non pochi dei suoi quadri erano come dei disaster movie dell’epoca in cui si mostravano naufragi spaventosi, fatti di cronaca che impressionavano la sensibilità collettiva nel XIX secolo. Celebre è la sua L’onda decumana (1850), conservata all’Hermitage, un quadro ambiguo, in cui la luce sembra preannunciare la fine della tempesta, ma uno dei marinai – come Cassandra – ha intravisto in lontananza la nona onda, quella che secondo la leggenda marinara li seppellirà. Non è fra i miei lavori preferiti, troppo enfatico.

 

Invece, in una delle serie di francobolli a lui dedicate, c’era la veduta Mare Nero (1881). Il quadro è minimalista. Cielo, mare e una striscia baluginante che li separa, ospitando la sagoma di un minuscolo veliero appena visibile. Il soggetto comincia ad alleggerirsi, non ci sono più pose teatrali, lo spettacolo della devastazione viene accantonato e rimane la nuda rappresentazione “frontale” dell’elemento della natura e dell’anima. Anche nella dimensione lillipuziana del francobollo, quel mare nero, quel Mare Nero era di una potenza inaudita. E sfondava senza far fatica la cornice in cui era stato incastonato. La rarefazione, la condensazione dello spirito, il movimento introspettivo alla ricerca del significato all’osso del mare culminerà in un’opera che dipinse pochi anni prima di morire, Fra le onde (1898), un mare di lava iridescente e nient’altro, colpito da una bomba di luce. A questo punto non c’è più panorama, non c’è più paesaggio, non c’è più narrazione. C’è solo un dentro estroflesso, uno specchio dell’anima in cui natura e spirito si allacciano come mercurio. Ed è proprio nella tempesta che l’uomo può ritrovare il senso di un’appartenenza alla natura, forse.

 

Aivazovskij morirà nel 1890 a Feodosija, in Crimea, la città in cui era nato. Sul cavalletto c’era il suo ultimo quadro, Esplosione di una nave, dedicato all’eroe greco Konstantinos Kanaris, che nel 1822 si vendicò del massacro di Chio mandando a picco la nave dell’ammiraglio ottomano Kara-Alì Pasha e facendo 2mila morti. Le fiamme hanno raggiunto la polveriera. Il cielo esplode. La morte è liquida. La storia non conosce tregua. Il mare è nero.

 

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