Un libro di Telmo Pievani / Serendipità

31 Gennaio 2022

Serendipità è una parola entrata ormai nel lessico comune anche se, come succede spesso, pochi sanno da dove venga e cosa voglia dire veramente. A queste domande, e ad alcune altre, vuole rispondere Telmo Pievani, filosofo della scienza noto e apprezzato anche per la capacità di raccontare in modo semplice e accattivante argomenti complessi, nel suo ultimo saggio, Serendipità. L’inatteso nella scienza (Raffaello Cortina Editore), in cui racconta cos’è la serendipità e come il concetto sia nato in ambito letterario e poi, progressivamente, sia stato mutuato fino a connotare un elemento significativo della scoperta scientifica. 

Presentando il libro l’autore ha scherzosamente sottolineato come l’idea di serendipità sia nata in modo serendipico o serendipitoso (sono entrambi neologismi non ancora integrati nei dizionari d’italiano, quindi si possono usare entrambi) da un fraintendimento: il grande poeta indiano Amir Kusrau, contemporaneo di Dante, scrive una novella che narra di tre principi del regno di Serendippo – da Sarandip, nome persiano dell’isola di Sri Lanka –, esiliati dal padre perché mettano alla prova nel mondo le loro abilità.

 

Grazie alle loro straordinarie capacità abduttive essi si rivelano in grado di descrivere perfettamente, attraverso l’utilizzazione del metodo indiziario, cose che non hanno mai visto. Alcuni secoli, e molti passaggi letterari dopo, Horace Walpole, scrittore inglese del XVIII secolo, conia il termine serendipità applicandolo ai tre principi che, spiegava, “scoprivano continuamente, per caso e per sagacia, cose che non andavano cercando”. L’interpretazione di Walpole, però, è sbagliata, spiega Pievani, perché i tre principi non scoprivano cose che non stavano cercando, piuttosto, come Sherlock Holmes, sapevano descrivere cose che non avevano visto ma della cui esistenza sapevano interpretare con acume gli indizi. Alla fine dell’Ottocento l’idea di serendipità comincia a precisarsi grazie al chimico Edward Solly il quale affermò che «serendipità non significa puro caso, né colpo di fortuna, ma scoprire cose importanti che lo scopritore non andava cercando»; così per la prima volta la serendipità è citata come «modello astratto di non intenzionalità: cercare una cosa e trovarne un’altra». Finalmente, in pieno Novecento la parola e il concetto vengono utilizzati in ambito scientifico, mantenendo ferma l’idea che vi siano risultati del tutto inattesi. Il che non significa, però, che siano frutto del puro caso, giacché «la serendipità è una questione di contesto e di tempo debito, il kairós dei greci», precisa Pievani domandandosi quale sia il processo cognitivo che permette una scoperta serendipica e perché capiti così spesso, in ambito scientifico, che si scopra qualcosa che non si stava cercando. 

 

Molti fattori entrano in gioco: «abilità, chiaroveggenza, mente incisiva e fortunata, capacità di scoprire connessioni». Per poter parlare di serendipità bisogna avere una scoperta significativa e un certo grado di accidentalità. In base al ruolo della casualità nella scoperta, Pievani classifica quattro tipi di serendipità: quando una scoperta è totalmente accidentale, parliamo di pura casualità; quando c’è una certa accidentalità e «scopriamo qualcosa di prezioso e importante mentre stiamo cercando tutt’altro…, qualcosa che nemmeno sapev[amo] di stare cercando, grazie al caso e alla sagacia, senza alcuna intenzionalità abbiamo una serendipità forte»; «quando scopriamo qualcosa che stavamo effettivamente cercando, ma ci arriviamo in modo casuale e inatteso», la casualità è bassa e la serendipità è debole; infine, il quarto tipo di scoperta serendipitosa è quello in cui non c’è accidentalità, perché chi indaga conosce molto bene il problema «e grazie alle sue capacità abduttive risolve il mistero come un detective, analizzando gli indizi e interpretando i segni». 

 

A Telmo Pievani interessa la serendipità forte, il «trovare qualcosa che nemmeno sapevi di stare cercando, grazie al caso e alla sagacia, senza alcuna intenzionalità». Cosa che avviene, ed è avvenuta, in molte occasioni e in molti campi, ad esempio nella scienza dei materiali con la scoperta del tutto accidentale del velcro fatta dall’inventore svizzero Georges de Mestral durante una vacanza nelle Alpi, o con quella del tetrafluoroetilene da cui nascerà il teflon e molte altre citate dall’autore. 

 

 

Ma i settori in cui la serendipità ha un ruolo davvero centrale sono quelli dell’astronomia – ne è un esempio la scoperta delle stelle pulsar fatta dalla giovane irlandese Jocelyn Belle (il Nobel lo prese il suo professore che, tra l’altro, inizialmente non aveva compreso la sua scoperta) – e della medicina, come nel caso della scoperta della cura contro la tubercolosi e dell’anafilassi fatta dal medico Charles Richet, o di quella del vaccino contro il vaiolo e di molti altri vaccini. Il caso più recente riguarda i vaccini a base di RNA messaggero, efficaci contro il virus SARS-COV-2, ottenuti rapidissimamente «grazie all’idea serendipitosa di riutilizzare una tecnologia vaccinale già esistente e adottata per tutt’altre finalità».

 

Come mai in questi campi è più facile che la serendipità porti tanti risultati? Probabilmente, spiega Pievani, lo si deve al fatto che sono settori in cui la nostra ignoranza è molto grande, così grande che non abbiamo neppure idea di quanto sia vasto il nostro non sapere. Si potrebbe trattare di una sorta di «effetto farfalla nel quale perturbiamo un sistema che conosciamo molto limitatamente e così facendo andiamo a toccare porzioni inesplorate di un grande ignoto che sappiamo di non conoscere o, il che è più interessante, non sappiamo nemmeno di non conoscere». 

Ecco dunque l’interpretazione della serendipità che egli propone: non puro caso ma elemento importante del metodo scientifico, che richiede da parte del ricercatore alcune doti importanti e significative, come l’essere tolleranti nei confronti dell’errore – ce lo insegna anche l’evoluzione che procede per tentativi e spesso avanza proprio grazie agli errori senza i quali saremmo ancora probabilmente un magnifico e perfetto insieme di batteri in una perfetta, equilibrata monotonia –, non avere fretta, essere lungimiranti e collaborativi tra discipline diverse. Solo una sincera apertura mentale permette di riconoscere, nell’anormalità che si ha davanti, non un fallimento o un esperimento malriuscito, ma una scoperta inaspettata. Insomma, la serendipità non è pura fortuna, non è solo metodo e neppure semplice coincidenza; è un insieme di tutto questo accompagnato da «conoscenze approfondite e ampie».

 

La serendipità, prosegue, non ha nulla a che fare con l’irrazionalità o il mistero, ma fa parte di un processo di ricerca, assomiglia a un’arte paragonabile a quella di un musicista jazz capace di improvvisare perché conosce la musica, sa ascoltare i suoi compagni e seguire i loro suggerimenti, ha una mente elastica e aperta, e molto, molto esercizio alle spalle. Pievani cita sette caratteristiche indispensabili perché una mente sia pronta alla serendipità: capacità di libera associazione, perseveranza, fiducia in se stessi, contatto assiduo con un ricercatore esperto, capacità di accettare e sapere rendere conto delle eccezioni, capacità di scovare similarità nei fenomeni. Insomma, apertura mentale, ottimismo e una natura irrequieta. E in più «bisogna essere xenofili: amare lo strano, il diverso, lo straniero, il nuovo, le eccezioni, le deviazioni» perché «un accidente resta un accidente, finché non succede alla persona giusta: a quel punto diventa una scoperta.»

 

La «più strana e profonda serendipità…la più affascinante di tutte» riguarda i rapporti tra la fisica e la matematica, questa disciplina infatti si rivela irragionevolmente efficacie (cfr. E.P.Wigner, L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali, Adelphi) nel descrivere realtà ancora del tutto sconosciute, ben prima che vengano scoperte. I matematici, giocando con i loro concetti e lasciandosi guidare da degli ideali regolativi come la bellezza, le simmetrie, l’ordine – commenta Pievani – costruiscono dei modelli, come ad esempio le geometrie non euclidee, e poi accade, magari dopo molti anni, che si scopre che una di quelle geometrie descrive un oggetto astrofisico che esiste davvero ma non era mai stato osservato. È accaduto con l’universo immaginato da Einstein, la cui più straordinaria dote fu proprio l’immaginazione (cfr. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina): quello che lui aveva concepito nel pensiero e che alcuni amici matematici lo avevano aiutato a trasformare in equazioni, si è rivelato l’Universo reale in cui viviamo, confermato oggi anche dall’osservazione.

 

L'Universo è governato da leggi che la mente umana è in grado di capire al punto da poterne descrivere esattamente la struttura e le dinamiche attraverso la matematica, il linguaggio che ci accomuna. C'è dunque una consonanza tra il cosmo e la matematica che si manifesta nella congruenza tra la mente umana e l'Universo, e gli scienziati ne danno diverse spiegazioni. Alcuni ritengono che il mondo sia intrinsecamente matematico e che pertanto la matematica, in qualche modo lo preceda, avendo di per sé un suo status ontologico, come fosse la realtà metafisica che sottende a tutto.

 

Altri pensano invece che la mente umana abbia una tendenza naturale a sistematizzare il mondo e che la matematica sia semplicemente uno strumento organizzativo inventato dall'uomo e utile a «imporre al mondo un significato e una struttura» (A. McGrath, La grande domanda, Bollati Boringhieri). Altri ancora, ritengono che la razionalità del mondo si rifletta in quella della mente, e che perciò comprendiamo l'Universo perché siamo una sua parte, ed è questa, mi pare, la posizione cui si avvicina Telmo Pievani, che afferma, in conclusione del saggio, «dopo tutto, il nostro cervello è parte integrante della realtà che indaga e si è evoluto dentro quella realtà, adattandosi alle sue pressioni selettive e ai suoi vincoli…Non si tratta di ridurre la conoscenza alla biologia ma di considerare le interazioni fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, di cui la scienza è parte». 

Non so se sia del tutto persuasiva la tesi che l’efficacia della matematica sia «una sintonizzazione evolutiva tra la naturalità della nostra mente e il resto della natura di cui fa parte», certamente l’argomento è affascinante, ed è chiaro il ruolo fondamentale che giocano nella ricerca scientifica la mancanza di certezze inoppugnabili e di arroganza. Senza una vera libertà mentale, senza la capacità di guardare oltre il visibile, oltre i confini, oltre la sicurezza del già noto nessuna scoperta è possibile, tantomeno una scoperta serendipitosa. 

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