Maurizio Cattelan e il water d'oro
Ho fatto la pipì nel water d’oro massiccio di Maurizio Cattelan al Guggenheim Museum di New York nel 2016. E a differenza di quanto scrive l’artista in una pagina del suo recente regesto d’opere edito da Marsilio Arte (a cura di Roberta Tenconi e Vincente Todolì), la fila per accedere al gabinetto era breve e anche la minzione lo fu altrettanto. Non mi venne in mente di sedermi e d’evacuare. Forse pensavo alle pagine di Freud sulle feci infantili, oppure ai ripetuti riferimenti al rapporto tra l’oro e la cacca presenti nelle pitture medievali, ad esempio in un affresco di Taddeo di Bartolo dove un diavolo caga monete d’oro nella bocca d’un usuraio – citazione dantesca, ma anche memoria della condanna del denaro guadagnato col prestito a tempo da parte della Chiesa. Oppure era solo che non volevo fare aspettare chi mi seguiva nella fila, e tutto fu brevissimo. L’opera installata dall’artista nel museo, che lo aveva celebrato poco tempo prima, nel 2011, quale star dell’arte mondiale, si intitola America. Cattelan spiega ora che l’idea gli era venuta pensando che il bagno è luogo frequentato da tutti durante il giorno, e che l’oro è un materiale religioso per eccellenza, “nonché l’eccellenza della cultura capitalistica”. Insomma, una crasi tra pensieri, parole e cose: in breve, il sogno americano. All’orizzonte non c’era ancora Donald Trump, che quel sogno lo incarna ora a proprio uso e consumo. Al momento della sua prima elezione alla Casa Bianca nel 2017 Trump chiese in prestito al Guggenheim, per installarla temporaneamente nella sua residenza presidenziale, un’opera di Van Gogh. Nancy Spector curatrice della mostra dell’artista italiano offrì invece America, ma Trump rifiutò, segno evidente della sua cultura d’immobiliarista poco amante dell’arte contemporanea, o più probabilmente risentito da quella proposta, che poteva suonare offensiva, e forse lo era. Cattelan spiega nel volume di Marsilio che America fu “un’arma a doppio taglio: manteneva una promessa basilare del sogno americano – l’accesso per tutti alle opportunità e a condizioni migliori – e al tempo stesso materializzava ciò che non è raggiungibile dai più”. Vero. Il valore dell’oro è così elevato che solo un numero limitato di persone potrebbero spendere 9 e passa milioni di dollari per avere quel water fuso nel nobile metallo. Schiera limitata, ma non più esigua come un tempo, perché negli ultimi decenni la quantità dei miliardari americani, tali per via delle industrie di Silicon Valley, è talmente cresciuta che l’accesso a questo oggetto non è più cosa per pochissimi. Ma America non è solo un oggetto dove ho potuto fare pipì, ma anche e soprattutto un’opera d’arte firmata da un artista riconosciuto e valutato a livello mondiale. Prodotto in due esemplari, oltre che nel museo disegnato da Frank Lloyd Wright nel 1943, il water closed fu installato a Blenheim Palace a Woodstock nel Regno Unito nel bagno che era stato di Churchill, e fu rubato nei giorni della inaugurazione. L’oro con cui è fatto l’oggetto ha un valore superiore a quello dell’opera d’arte, come ha confermato la vendita effettuata ieri presso Sotheby’s: 12 milioni di dollari, di cui 9,9 milioni sono determinati dal peso stesso del manufatto, mentre il restante valore è costituito dai diritti d’asta intascati da Sotheby’s. Una delusione, hanno scritto i vari commentatori. Come dargli torto, l’oro a 24 carati oggi costa circa 117.000 euro al chilo, o poco meno. Per quanto il più importante economista degli ultimi cento anni, J.M. Keynes, abbia scritto che l’oro è un relitto barbarico, ovvero un residuo del passato, e che l’economia non poggia sull’oro bensì sulla fiducia, il suo valore continua a salire – la Banca d’Italia ne possiede una quantità che vale probabilmente oltre i 100 miliardi di euro. Perché? Salvatore Rossi in un suo libro di qualche anno fa, Oro (il Mulino), ha stimato che al mondo ci siano 190.000 tonnellate, di cui solo 40.000 tonnellate possedute da privati, e nelle viscere del Pianeta, la provvida Madre Terra, ce ne dovrebbero essere ancora 56.000 tonnellate. Un bene finito insomma, quindi raro. Cattelan realizzando America riprendeva, come spiega, l’orinatoio di Duchamp, e il suo intento era di riportare l’oggetto dove pisciare dal museo dentro un gabinetto – salvo il fatto che quel gabinetto era in un museo, e che museo! Naturalmente da artista provocatore voleva che fosse usato, e così ci siamo messi a fare la fila per pisciarci dentro, cosa che a lui, scrive, non è mai riuscita nell’anno dell’esposizione. Il cortocircuito di America è stato più che doppio: da water a opera d’arte, da opera d’arte a water e a materiale prezioso. Era prevedibile? Visto che, come nel caso di altre opere realizzate da Cattelan, il suo successo era stato notevole e la provocazione andata a segno. Ma l’economia capitalistica ha le sue regole e come si sa sono regole imprevedibili e spesso anarchiche: la “cosa” vale più dell’“opera” dal momento che c’è di mezzo l’oro. Sono sicuro che con il suo spirito pronto, inventivo e irriverente Maurizio Cattelan elaborerà una risposta intelligente, e forse anche un’altra opera, con la mossa del cavallo in cui è maestro. Tuttavia lo smacco economico c’è e la casa d’aste si incamera la differenza di prezzo tra il valore materiale e quello ideale dell’oggetto artistico, sancendo così la prevalenza del capitalismo stesso, e così beffando in più – si fa per dire – colui che voleva beffarlo. Uno a zero per Das Kapital. Senza voler tornare al valore d’uso e al valore di scambio di Marx, o ispirarsi a Produzione di merci a mezzo di merci, libro di Piero Sraffa, con la sua riscoperta della teoria del valore-lavoro, possiamo concludere che nell’era Trump l’oro ha la meglio sull’invenzione di Cattelan, almeno sul piano del valore economico da assegnare. Persiste inoltre un equivoco critico: Cattelan continua ad essere classificato “concettuale”, mentre è decisamente “materiale”, solo che in questo caso la materia di cui è fatta l’opera supera quella elaborata dalla sua creatività. L’episodio può essere preso come il segno dell’età in cui viviamo, del trumpismo trionfante? Money is money?
Sembrerebbe, se non ci fosse che nella stessa asta è stato venduto il quadro di Gustav Klimt Ritratto di Elisabeth Lederer per 236,4 milioni di dollari, l’opera d’arte moderna più costosa mai venduta. Un prezzo esorbitante, senza dubbio, ma volete mettere questo ritratto femminile con Elisabeth avvolta in un abito bianco leggero come un volo di farfalle, con la pioggia di colori e forme che le sta attorno come un alone magico, e le figure orientali dietro, poi le scarpine a punta e l’azzurro-blu dello sfondo e quel pavimento arancio da cui sale la sua persona, il tutto confrontato con il cesso in cui ho fatto pipì? Maurizio Cattelan sarà pure un geniale produttore di icone, d’immagini non riducibili all’idea che ha avuto, così che la sua opera “sembra nata da sola, sganciata dal suo creatore, e interlocutore in proprio, come se fosse lei a interrogare noi piuttosto che noi lei , e così capace di interrogare su tutto”, come ha scritto uno dei suoi migliori interpreti, Elio Grazioli (in Maurizio Cattelan, “Riga”), ma almeno questa volta, che lo si riconosca o no, credo che tra lui e Klimt non ci sia confronto: vale di più il viennese.