Speciale
Occhio rotondo 56. Diamanti
C’è un fotografo che per anni con pazienza e determinazione ha ritratto gli oggetti legati alla lunga catena di attentati e stragi che ha insanguinato l’Italia per tre decenni a partire dagli anni Settanta. Si chiama Fabio Mantovani e il libro che raccoglie i suoi scatti s’intitola Sotto gli occhi di nessuno, pubblicato da Quodlibet, per la cura di Arianna Rinaldo e con testi di Cinzia Venturoli e Michelangelo Pivetta. Sono venti atti violenti guardati attraverso ciò che resta: carcasse di automobili, un carro dei vigili del fuoco, un autobus, resti di un aeroplano, una bicicletta. L’immagine che più colpisce di questa galleria di collassi è una borsa su cui sono appoggiati dei frammenti di vetro. Sono due scatti leggermente differenti: uno si trova in copertina, l’altro all’interno del libro. Nella foto che campeggia fuori si scorgono due mani che reggono la borsa. Sono mani di donna. Lei si chiama Lina D’Aniello. Il 23 dicembre 1984 si trovava sul treno, il Rapido 904 Napoli-Milano, nel momento in cui è esplosa la bomba attribuita a Cosa Nostra; il convoglio ferroviario era dentro la lunga galleria degli Appennini. Ci furono 16 morti e 267 feriti. Lina è sopravvissuta alla deflagrazione. I frammenti che si scorgono sulla borsa che lei stringe sono vetri dei finestrini del treno penetrati nel suo corpo, estratti o espulsi nel corso degli anni. È l’“unico ricordo tangibile di quel treno” di cui, per altro, non resta più nulla. Fabio Mantovani ha scattato tutte le fotografie degli oggetti legati agli attentati su un fondo nero, come se emergessero – ed è così – dalla oscurità della notte. Si tratta del buio stesso degli attentati, alcuni dei quali rimasti impuniti – atti terroristici di mafia, di matrice terrorista e anche atti di guerra. Vengono dal buio del passato, dal buio di storie scomparse nel nulla, alcune delle quali ancora ricordate, altre invece dimenticate nella crepa della Storia che tutto inghiotte.
Sono come piccole scene teatrali illuminate dal fotografo, lampi di chiaro e di luce che si imprimono nella memoria digitale della macchina fotografica e restano grazie all’immagine stessa davanti a noi come un memento, come un ricordo e una vivida testimonianza. Il punctum di questa immagine sono le mani della donna: una, la sinistra, trattiene la borsa di piatto per impedire che quei vetri cadano per terra, l’altra, la destra, si posa con delicatezza sulla borsa stessa. Le mani sono tutto quello che scorgiamo del suo corpo. Nel resto del libro si vedono solo cose, oggetti, materie, lamiere contorte, ammassi ferrosi, fori di proiettile arrugginiti, parabrezza perforati, concrezioni indecifrabili – le macchine e gli autoveicoli, del resto, occupano la maggioranza nei 20 scatti di Mantovani. Che cosa è una borsa o borsetta per una donna? Un oggetto abituale e indispensabile. Un tempo nessuna usciva di casa senza la propria borsetta: per fare la spesa, per fare un viaggio, per andare a trovare qualcuno. La parola “borsa” è di origine greca: byrsa, che significa “pelle”. Si è diffusa nel Medioevo per indicare il sacco di cuoio femminile e maschile in cui si tenevano i propri oggetti personali, e prima di tutto il denaro. Niente è più individuale e privato di una borsetta.
Ho scritto che il punctum della foto sono quelle mani. Ma quando ho letto la scarna didascalia che accompagna lo scatto ho capito cosa fossero quei cocci di vetro. Somigliano a dei diamanti, o almeno li ricordano per la loro lucentezza. Sono stati a lungo parti del corpo di Lina D’Aniello, poi rigettati e conservati, suppongo con cura e attenzione, da lei stessa. Una memoria di vetro, materiale così fragile e così incongruo rispetto al corpo della sopravvissuta. Negli scatti di Mantovani ci sono altri oggetti che colpiscono per la storia a cui appartengono: la Renault 4 rossa dove fu trovato il corpo senza vita di Aldo Moro; la Fiat 180 crivellata di proiettili dove si trovava il leader democristiano e la sua scorta massacrata; la Citroen Mehari di Giancarlo Siani; la Fiat Croma con a bordo Falcone e la moglie, Francesca Morvillo. Una sequela di immagini che ci rammemorano attraverso forme devastate e accartocciate tante storie tragiche. Ma sono quella borsa, quelle mani e quei pezzi di vetro a dare il senso d’una memoria insieme collettiva e personale. È la presenza di Lina, di cui non vediamo il viso, a colpire in questa fotografia così drammatica, ma insieme anche così umana, così individuale. Mantovani per fotografarla l’ha fatta sedere così come era sul treno al momento dell’esplosione. L’ha riportata là e le mani dicono d’una presenza e d’un dolore che è lo stigma stesso dello scatto. Una memoria specifica, e forse per questo così indelebile, come i frammenti del treno, unica cosa rimasta a Lina di quel giorno, insieme a quella borsa che aveva con sé, e naturalmente il suo corpo.
In copertina, fotografia © Fabio Mantovani.
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