Michel Serres. Dal rito alla scienza

7 Novembre 2015

René Girard è scomparso pochi giorni fa, all’età di 91 anni.

Esce tra pochi giorni Il tragico e la pietà (edizioni Dehoniane), libro scritto, come ha ricordato anche Massimo Panarari su La Stampa di ieri, con un altro “grande di Francia”: Michel Serres. I due si conobbero nel 1969, all'università di Stanford, ed è sopratutto in Roma che il debito di Serres con le tesi di Girard sulla violenza e il sacro si fa evidente.

Ricordiamo così René Girard pubblicando integralmente uno dei suoi testi dedicato proprio a Michel Serres, testo compreso nel volume Riga, curato da Gaspare Polizzi e Mario Porro (Marcos y Marcos, 2015).

 

 

“Contrariamente a quanto si crede, la scienza non annulla ciò che non è scienza... Il mito conserva un ruolo considerevole nel sapere scientifico e viceversa”[1]. Non bisogna dunque credere al dogma delle ‘due culture’, pressoché estranee l’una all’altra: la prima rigorosa votata all’utile ma “priva d'immaginazione”; e la seconda inutile, fantasiosa, gratuita, libera di muoversi a piacimento.

 

C’è qualcosa di sconcertante in tutto questo, innanzitutto per gli scienziati, che pretendono che la loro disciplina venga presa sul serio. È infatti da un punto di vista antiscientifico che fino ad oggi si sono sottolineate le prossimità fra scienza e mito, allo scopo di negare ogni valore alla scienza annullandola nella pregiudiziale vacuità della mitologia. Ma non si tratta di questo: quello che viene negato non è la crescente efficacia dei modelli scientifici, ma la famosa ‘rottura epistemologica’ (mai ricomposta) tra gli stadi più recenti del sapere e tutto ciò che gli ha preceduti. Il che è equivale dire che anch’essa risulta ormai mitologica. L’ideologia scientista vede fecondità solo nel momento in cui il presente rompe con il passato, mentre al contrario è proprio la continuità che garantisce ala scienza (e non solo ad essa) la possibilità di trovare risorse sempre nuove; ed è questa stessa stabilità che consente anche il rinnovamento delle lettere o di altre forme culturali che si collocano allo stesso livello sincronico di elaborazione della scienza. Lo scarto temporale permane, ma non sempre a vantaggio degli scienziati: non si può sempre contare sull’inevitabile ritardo della letteratura sulla base della convinzione che tutto ciò che è letterario è necessariamente impressionistico e regressivo.

 

Ecco che ora l’inquietudine assale i letterati, i quali non desiderano affatto che la letteratura possa essere considerata una cosa seria, visto che da un secolo a questa parte, gli unici profeti da loro ascoltati sono quelli che affermano che l'arte e la letteratura non valgono niente. Michel Serres dà fastidio ed è meglio non dargli ascolto, dal momento che l’irrisoria autonomia del niente viene d’improvviso minacciata. La “letterarietà” e la “scientificità” vacillano assieme.

 

Il contatto fra scienza, letteratura e mito che troviamo in Zola non dovrebbe passare inosservato, visto che compare ovunque. Rappresenta la parte essenziale della sua opera e Serres ce lo mostra eloquentemente. Eppure, nessuno fra gli autori di tesi su “Zola e la scienza” se n’è mai accorto, dal momento che tutti pensano sempre secondo lo schema delle rotture epistemologiche, o per meglio dire, questo schema pensa per loro. Hanno imparato che sia l’approccio scientifico che quello letterario possono convivere solo a patto di riprendere e ripetere in modo consapevole determinati risultati già percepiti come “scientifici”. Per Serres l’aspetto scientifico e quello romanzesco della realtà sono in realtà un tutt’uno, mentre si crede correntemente che si oppongano e si respingano. E sono proprio coloro che lavorano su questioni riguardanti il bello a dover rendersene conto. Affermare che il romanzo funziona come una macchina, significa dire la verità sia dal punto di vista dell’effetto estetico che da quello del rigore scientifico. E questa presunta unità non è una verità astratta come ci spiega Serres facendo riferimento ai grandi principi della termodinamica: il romanzo di Zola non parla di locomotive per motivi superficiali che avrebbero a che fare essenzialmente con la demagogia modernista. Prima di fare qualsiasi riferimento esplicito alle ferrovie, il testo di Zola opera già come una macchina a vapore:

 

“Il mestiere di macchinista, di conducente di locomotiva, li pone nelle immediate vicinanze del grande principio di Carnot. Sapere che una macchina a vapore non potrebbe funzionare senza una sorgente calda, in questo caso il complesso dell’inceneritore-caldaia, e di una fredda, in questo caso il condensatore o l'aria esterna. La loro differenza vissuta come opposizione, formalizzata come modello di caduta, da un serbatoio al suo esaurimento, produce il lavoro e quindi movimento. Le creature di Zola sono immerse in questa differenza uomini, donne, locomotive, oggetti, mondo. È lei a produrre il racconto, a svilupparlo. Nell’insieme, funziona tutto come una macchina a vapore: il romanzo, i suoi amori ed i suoi crimini”[2].

 

Se osserviamo il funzionamento termodinamico in una parte dell’opera di Zola e di altri scrittori o filosofi è possibile rintracciare un legame con il mito e soprattutto con il rito. Questi due termini non devono essere intesi come opposti, come accade correntemente, ma devono essere accostati come è sempre stato fatto in passato. Bisogna riconoscere nel rito l’operare della parola mitologica, ma senza rintracciare in essa la sua origine o viceversa, visto che l’origine si trova altrove[3].

 

Nei riti, come nell’opera di Zola, il lavoro della differenza si presenta come opposizione fra i partecipanti (se non come aperto conflitto). Ma il conflitto stesso tende a sopprimere le differenze e a cancellarle nella simmetria e nella reciprocità tipiche di ogni scontro: in altre parole, nelle prime fasi del rito, come nella macchina termodinamica, le differenze si consumano e si esauriscono reciprocamente.

 

Un siffatto esaurimento dovrebbe fare tendere il sistema verso l’immobilità completa, l’assenza pura e semplice d’energia, l’irriducibile inerzia del secondo principio della termodinamica: proprio ciò che accade, insisto, in una parte dell’opera di Zola.

Altrove, al contrario, la differenza si esaurisce nel lavoro e nel conflitto, ma allo scopo di poter rinascere all’improvviso, più viva e diversa che mai. Tutto funziona come se l’indifferenziazione, invece di riportare ogni cosa a un semplice zero energetico, costituisse una specie di meccanismo sempre più reattivo capace di mettere in moto un nuovo processo di differenziazione.

 

Si tratta di un principio di ripresa inesauribile, ciclico, dal momento che è legato all’esaurimento stesso del sistema. Principio altrettanto sospetto se lo si considera all’interno di un sistema di pensiero che vede il discorso scientifico come diretto prolungamento del religioso. È evidente che questo fa tutt’uno con la fecondità che la morte, in rapporto alla resurrezione, rappresenta nei sistemi religiosi. Somiglia troppo a tutto ciò che precede le ascensioni e le assunzioni soprannaturali e tuttavia le determina e le provoca sotto il nome di «discesa agli inferi» o «prova iniziatica».

 

In un contesto termodinamico, questo movimento perpetuo è concepibile solo in un sistema che si ricaricasse automaticamente per il fatto stesso di esaurirsi si pensi a una specie di termostato attingendo a una sorgente inesauribile d'energia, che può essere ovviamente solo il sole, i cui raggi discreti illuminano quasi sempre le resurrezioni. Questa termodinamica dell’eterno ritorno è un'ultima forma di culto solare; prima o poi si dovrà dileguare insieme alla nostra fiducia nell'eternità delle stelle, un po' come gli astri fiammeggianti che accompagnano il Satana di Hugo nella sua caduta. Ma in Hugo, come in Zola, i soli possono spegnersi senza che s'interrompa, qui come altrove, il ciclo delle resurrezioni:

Il sole era là che moriva nell’abisso

Carbone di un mondo spento, fiamma estinta da Dio![4]

 

Il dio che spegne i soli può accenderne altri. È sempre il solito principio di fecondità che nutre la vita con la morte e l’ordine con il disordine. I nostri ex-metafisici impiegano uno zelo incredibile a scacciare le tracce di questa colpevole metafisica. Da secoli si crede che dipenda semplicemente da una convinzione infantile, dalla tendenza, “primitiva” e ben radicata negli uomini, a considerare i loro desideri come realtà concrete. II timor panico della morte basterebbe a forgiare miti in grado di esorcizzarlo. Serres non sempre si oppone a questa vecchia storia, ma mi pare che l’insieme delle sue opere la rimetta in discussione.

 

In una prospettiva che dà priorità all’ordine e alla differenza – quella della termodinamica senza eternità solare – le resurrezioni alla Zola possono sembrare un’ingiustificata sopravvivenza religiosa.

 

Tutto cambia nella prospettiva dell’altro grande modello scientifico, quello che dà priorità al disordine. Questo modello esercita su Michel Serres, e forse anche su Zola, un’attrazione ancor più forte del primo. Ha la sua fecondità e non smette di fare la sua ricomparsa in alternanza all’altro modello contrapponendosi in modo particolare, nella nostra epoca, al positivismo, che si perpetua grazie al tabù linguistico e differenziale di un certo strutturalismo: “Come può l’ordine scaturire dal disordine?” è la domanda retorica di Lévi-Strauss in conclusione de L’uomo nudo[5]. È implicito che la risposta possa essere solo negativa. La domanda – effettivamente ridicola nel contesto d'una scienza ormai sorpassata che pone l’ordine al primo posto – riacquista legittimità in un contesto più attuale, quello a cui appartengono La distribution o le ricerche di Prigogine:

“L’ordine e un’isola rara, un arcipelago. II disordine è l’oceano da cui affiorano queste isole. La risacca erode la riva; il suolo cede, perde compattezza, sprofonda. Altrove un nuovo arcipelago sta per sorgere dalle acque. Il disordine è la fine dei sistemi e il loro principio. Tutto va sempre verso il caos, e tutto ne emerge, talvolta”.[6]

 

Anche se tutto ricomincia sempre “altrove”, l’alternanza inesausta di disordine e ordine non è estranea al gioco mitico-rituale dell’«indifferenziato», che anticipa e segue ogni differenziazione. La giostra infinita di morti e resurrezioni è solo un modo particolare di tradurre quel gioco, e anch’esso può esigere, nella metempsicosi, il suo ‘altrove’.

 

La vicinanza di tutti questi giochi doveva per forza condurre Michel Serres al De Rerum natura, il testo di Lucrezio che, più di qualsiasi altro, nasce negli ‘spazi comunicativi’ che si situano tra differenti forme culturali[7]. II tentativo di distinguere, in questo testo, ciò che anticipa la scienza da ciò che deriva dal mito è uno sforzo vano. Accedere al modello scientifico significa penetrare nella struttura del mito e viceversa.

 

Tutto inizia, si svolge e ricomincia attraverso la caduta libera degli atomi che precipitano in maniera verticale e parallela, disfacendo ciò che esiste e prevenendo qualsiasi combinazione d’atomi. La circolazione diventa ‘laminare’, ed è necessario che lo sia perche possa verificarsi, da qualche parte, quello che Lucrezio chiama il clinamen, cioè la prima alterazione dell’equilibrio e la prima differenza che permette agli atomi di aggregarsi, così da costituire un nuovo mondo, destinato poi a ricomporsi come il precedente, ciclicamente[8].

 

L’apparente assurdità del clinamen deriva dal fatto che lo si è sempre pensato nel contesto di una meccanica dei solidi, mentre nel contesto d’una meccanica dei fluidi, e Serres lo dimostra, “la declinazione è il principio di un mulinello in un deflusso idraulico”[9]. Ciò che qui ha importanza non è solo l’anteriorità del disordine sull’ordine, ma la sua funzione generativa. Non ci sarà alcun clinamen prima che tutto ciò che il clinamen precedente aveva saputo creare e porre in esistenza non sarà stato distrutto. Questa funzione generativa del disordine domina il rito, ma siccome non si è capaci di individuarla ci s’inganna sulla sua natura. Nei cosiddetti riti stagionali, per esempio, il processo religioso è avviato da inquietanti modificazioni dell’ordine naturale. Quando il tempo “si guasta” [se gâte] o “si mette male” [pourri], si può essere indotti a credere che la natura stia degenerando. Lungi dal contrastare le forze corruttrici, i riti le assecondano, collaborando, per così dire, all’opera di sovversione. Bisogna accettare questo strano paradosso: la comunità partecipa attivamente a creare quel disordine che essa stessa teme. L’agitazione si diffonde a macchia d’olio, s’infrangono le leggi, si confonde ciò che sarebbe buona norma tenere distinto. Nell’osservare questo vano tramestio, l’etnologia della differenza conclude ingiustamente che il rito «si compiace nell’indifferenziato». I riti non hanno altro obiettivo che la differenza e l’ordine, ma si svolgono sempre come se anche il principio (ri)generatore dell’ordine si trovasse nel disordine: per garantirsi un ordine migliore e più stabile, bisogna prima di tutto iper-sollecitare il disordine, spingerlo al parossismo.

 

I riti d’iniziazione derivano dal medesimo principio da cui derivano i riti stagionali. La prova iniziatica consiste in una perdita di differenza, in un’autentica immersione nel disordine conflittuale, che dovrà svolgersi nella maniera più penosa e duratura possibile per garantire l’adeguata metamorfosi, corrispondente alla condizione invocata dal postulante.

Gli esempi sin qui utilizzati non sono adatti a modificare la concezione universale, rimasta immutata dal XVIII secolo, che vede nel religioso una forma di superstizione o una «sovrastruttura fantasmatica», che è solo un modo più complicato per dire la stessa cosa. Né i riti d’iniziazione né, soprattutto, quelli stagionali, hanno alcuna influenza sulla realtà e, per completare il suo ciclo, la natura non ha certo bisogno di uomini che gesticolano in maniera assurda. Michel Serres afferma, è bene ripeterlo, che il mito – e per me anche il rito – conserva un ruolo considerevole nel sapere scientifico, e viceversa. Nelle regioni superiori della scienza quelle che visitiamo attraverso i libri di Serres come turisti spesso sbalorditi, costantemente meravigliati viene sempre illustrata la prima parte di questa proposizione. Le regioni inferiori non hanno lo stesso prestigio, tuttavia occorre occuparsene per illustrare la seconda parte della proposizione, quel viceversa. Dove inizia la complicità reciproca tra sapere scientifico e mitico-rituale? L opera di Serres suggerisce una collocazione, mi sembra, già su un piano più primitivo e arcaico. La consustanzialità fra sapere e rito costituirebbe la prova che Serres ha perfettamente ragione, ma non sarà possibile dimostrarlo, insisto, attraverso gli esempi rituali tipici che ci vengono in mente, nemmeno se li leggiamo con l’estrema buona volontà di un Malinowski o, per venire ai nostri giorni, di un Victor Turner.

 

Questo accade perche i comportamenti ufficialmente riconosciuti e definiti come religiosi sono preselezionati in virtù della loro stessa inefficacia. La definizione del religioso come superstizione o sovrastruttura, che è sempre preliminare rispetto a qualsiasi analisi, ci impone l’inconsapevole separazione dei dati culturali: in altre parole, riconosciamo come essenzialmente rituali solo le condotte che non possono, e non potranno mai, diventare una tecnica percepita come utile, o un sapere che sia veramente tale. Nelle società arcaiche, per esempio, le vendemmie e la produzione del vino possiedono quasi sempre carattere rituale, ma noi separiamo decisamente l'aspetto tecnico da quelle religioso. Quest’ultimo, di conseguenza, ci appare sempre inutile, avventizio e superfluo proprio come nell’esempio dei riti stagionali. I rituali tecnici ci sembrano invece necessariamente motivati per il fatto stesso di essere utili e, al contempo, del tutto estranei al religioso, mentre al contrario solo il religioso può spiegare il tipo di comportamento in grado di portare alla scoperta di queste tecniche.

 

Nella produzione di alimenti come il vino, il pane o il formaggio, ovviamente il caso ha giocato un suo ruolo importante, dato che il caso è talvolta capace di fare ottime cose, ma sono pur sempre indispensabili animi capaci di trarne profitto. Al contrario delle apparenze, il contesto rituale è l'unico che rende pensabile una cosa del genere. Le categorie del puro e dell'impuro hanno sempre dominato la mentalità religiosa, e l'alterazione spontanea di secrezioni animali e vegetali, come il latte o il succo di frutta, deve aver impressionato gli uomini come si trattasse di un fenomeno d'impurità. È stato percepito qualcosa di non dissimile a tutto ciò che è sottoposto a divieti rigidissimi, come cadaveri in decomposizione, ferite in cancrena, escrementi, eccetera. È probabile che inizialmente si preferisse evitarli con diffidenza.

 

Comportamenti del genere relativamente dell'impuro possono degenerare in autentiche fobie religiose, come nel caso del Nietzsche dell’Anticristo o di un certo cristianesimo. A queste forme di puritanesimo Serres giustamente oppone la verità scientifica della caseificazione, estranea all'immagine sinistra che qualcuno può farsene. E tuttavia bisogna notare che il religioso, nel suo principio, è altrettanto lontano dal puritanesimo stigmatizzato da Serres di quanto lo sia dal nostro delirio d'innovazione che senza dubbio costituisce l'altra faccia, simmetrica e contraria, della nostra disgregazione religiosa. Lo spirito religioso non è mai privo di inorridita ripugnanza nei confronti del’impuro, ma dà agli uomini, nelle sue forme più equilibrate, l’audacia di superare questa prima reazione e di intervenir nel processo di corruzione per accelerarlo, non per contrastarlo. Nel constatare o nel credere di constatare una perdita di differenza e l'inizio di una confusione malefica fra cose che dovrebbero restare separate, il rito infiamma la crisi e la fa precipitare per condurla a una soluzione favorevole.

 

Per rigenerare l’ordine, insomma, occorre costringere il disordine a dare il massimo in fatto d’ordine del disordine, se così ci possiamo esprimere. Nel caso di alterazioni naturali, come quelle del latte o delle farine, l’intervento rituale si sforzerà. probabilmente, di alterare ulteriormente le sostanze, magari moltiplicando le combinazioni percepite come innaturali, spingendo gli uomini a sperimentare con il deteriorato, il marcio, il fermentato, eccetera. Solo il rito ha questi poteri, poiché al di là del disordine di cui non si rende mai veramente complice, la visione religiosa fa balenare la speranza di un ordine equivalente, se non migliore, rispetto a quello originale. Le manipolazioni e gli incroci suggeriti dal religioso non sono mai imitazioni superficiali nel senso dell’antica «magia imitativa», ma sono orientate verso un risultato di cui s'ignora tutto a parte il fatto che debba essere favorevole - ed e precisamente quelle che serve per risvegliare lo spirito della scoperta. Le metamorfosi suscitano timore; sono quasi tutte mostruose, ma ne esiste sempre una che può essere positiva, e per spingere l’effervescenza sacra in quella direzione basta scoprire, sotto l'egida della divinità, i riti appropriati Ovunque esistano possibilità di trasformazione utili, il rito se ne appropria con conseguenze cosi decisive, anche nella nostra cultura desacralizzata, da renderci incapaci di vedere le origini rituali di alimenti come il pane, il vino o il formaggio. Noi ammettiamo la centralità del rito soltanto nei casi in cui la sua tecnica rimane improduttiva, senza accorgerci che non c'e alcuna differenza fondamentale tra i procedimenti produttivi e quelli improduttivi. Per capirlo, basta moltiplicare i paragoni. Bisogna accostare i comportamenti la cui natura rituale ci pare dubbia - in quanto diventano vere tecniche e un vero sapere - ai comportamenti la cui natura rituale ci sembra indubitabile - in quanto non conducono a niente: proprio quanto ho tentato di fare in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Non vogliamo riconoscere nella condotta religiosa degli Ainu nei confronti dei loro orsi un comportamento analogo a quello che ha evidentemente portato, presso certe popolazioni dedite alla pastorizia, alla domesticazione di determinate specie animali[10]. I risultati troppo positivi dissimulano l'origine rituale della carne che compriamo in macelleria.

 

Per corroborare la spiegazione di una probabile origine rituale del formaggio, o di altri alimenti fermentati, possiamo prendere in esame alcuni riti funebri che si articolano in due fasi ben distinte: la prima ha inizio con la morte e con il periodo di deterioramento del cadavere, quando può rendersi necessaria la manipolazione delle carni in stato più o meno avanzato di decomposizione o altri atti assolutamente ripugnanti; poi, in un secondo momento, molto più sereno, ci si concentra sulle ossa del defunto, che vengono accuratamente ripulite, sbiancate e lustrate. La lettura di Robert Hertz non lascia dubbi, credo, sul significato di questo duplice funerale[11]. La morte e la decomposizione del cadavere sono viste come una crisi delle differenze, come un'invasione del disordine. L'intervento rituale ha lo stesso significato, qui come altrove. Mira a incoraggiare e a sollecitare il processo perché sbocchi il più rapidamente possibile nella "buona" stabilizzazione differenziale, e crede di riconoscere questa stabilizzazione proprio nella metamorfosi del cadavere in ossa. Lo scheletro asciutto presenta in effetti tutte le caratteristiche dell’ideale strutturalista finalmente realizzato. È un vero ritorno all'ordine e a quella meccanica dei solidi che i commentatori tradizionali abbracciano istintivamente di fronte al modello lucreziano.

 

L'unica differenza fra queste manipolazioni di cadaveri in stato più o meno avanzato di decomposizione e la produzione del formaggio consiste nel fatto che la prima operazione ha carattere illusorio, mentre la seconda è invece reale. Nel primo caso, i fedeli credono di dirigere una metamorfosi che in realtà si compirebbe comunque senza il loro intervento - lo stesso vale per i riti stagionali - mentre nel secondo caso loro diventano i veri responsabili del processo. Proprio questa circostanza c’inganna facendoci credere che i due comportamenti abbiano una natura completamente diversa e che siano del tutto estranei fra loro, quando in realtà sono identici. II nostro pensiero è sempre dominato dall’illusione della «rottura epistemologica» denunciata da Michel Serres, illusione che è molto difficile da sradicare in quanto svolge un ruolo essenziale, a tutti i livelli, nella costruzione di quell'immagine lusinghiera e asettica che ci facciamo della nostra storia e delle nostre origini.

 

Le pratiche funerarie che ho appena descritto ispirano un disgusto ancora maggiore quando le accostiamo al formaggio e alla sua lavorazione. Ma bisogna riflettere su questo nostro disgusto che perpetua in modo evidente la separazione inconscia del puro dall’impuro, e che rigetta l’improvvisa prossimità di un'evidenza che deve rimanere nascosta perché prova la comune origine rituale d'istituzioni e costumi che vogliamo pensare incomparabili.

 

Georges Bataille non era insensibile a questa parentela tra formaggio e riti funerari. Nella sua prefazione a Le Lacrime di Eros Jean-Marie lo Duca ci descrive la sua estasiata titubanza davanti a un formaggio particolarmente forte: «Con gli occhi scintillanti d'ammirazione, mormorò: “È quasi una tomba”»[12]. Non è impossibile decifrare quello che in Bataille viene espresso a livello d'intuizione estetica o di corrispondenza baudelairiana. E mentre il puritanesimo della differenza indietreggia orripilato, è venuto il momento per l’etnologia di aiutarci in senso contrario.

 

Alcune società manipolano i cadaveri dei loro defunti; altre li sotterrano altre li bruciano, sempre con l'intenzione di ripristinare l’ordine o di resuscitarli, il che equivale alla stessa cosa. Allo stesso modo, ci sono uomini che trattano il latte, altri che gettano le sementi nel terreno e poi le ricoprono, altri che passano la farina sul fuoco, e anche in questo caso si tratta d'operazioni che hanno l’obiettivo di riordinare quelle sostanze, ovvero di provocare quelle sorprendenti "resurrezioni" che prendono il nome di formaggio, pane, vino, germoglio, eccetera. Per completare l'analogia tra tecniche funerarie e tutto ciò che in inglese si designa con l'espressione food processing, bisogna anche pensare a pratiche inverse, presenti a loro volta nei comportamenti religiosi: nel caso dei riti funerari si parla di mummificazione, mentre nel settore alimentare si parla di procedimenti di conservazione[13].

 

La testardaggine dimostrata spesso dagli uomini nelle loro pratiche del tutto ineffettive rivela una prodigiosa fonte di risorse senza le quali non potremmo nemmeno concepire la messa a punto di quelle stesse tecniche che ci permettono di essere ciò che siamo. L'origine del lavoro va ricercata nel rito e non nella schiavitù come credeva Georges Bataille, che anche su questo punto si faceva ingannare da un hegelismo che impoveriva le sue intuizioni migliori.

 

E tuttavia la fonte rituale non può ancora essere l’origine di tutto. Senza essere veramente subordinato a ciò che ci appare come la razionalità del suo fine, il rito non è estraneo a ciò che chiamiamo ragione. All'inizio di qualsiasi attività umana, deve esistere un modello unico, che però rimane sempre dissimulato a causa del nostro furioso appetito per la differenziazione assoluta tra razionale e irrazionale. Non si tratta di cancellare queste differenze (come pensa un certo misticismo e un determinato filosofismo), ma di tenerle ben presenti così da constatare come nei campi più diversi gli uomini applichino, ormai da tempo, un’ unica tecnica rituale, senza tenere minimamente in considerazione ciò che determina, ai nostri occhi, l'aspetto tecnico di un’attività, la razionalità del fine e dei mezzi. A seconda delle circostanze, l’attività rituale si e rivelata più o meno feconda, ma ha in ogni caso persistito con tenacia nella sua opera, anche in quegli ambiti dove si è rivelata, o pare rivelarsi, sterile, ovvero i soli di cui oggi riconosciamo il carattere rituale.

 

La «rottura epistemologica» non ci consente di riconoscere nel rito il nostro eterno educatore, ovvero il sistema primario e fondamentale d'esplorazione e trasformazione della realtà. Ho proposto, come modello unico del rito, il meccanismo mimetico dei rapporti umani, che funziona a regimi molto più intensi di quello che noi sperimentiamo correntemente e che per definizione rimane inosservabile[14], sia nelle società in cui sorge il religioso come in quelle in cui non sorge. La fase conflittuale di questo meccanismo - radicata nel carattere mimetico dell'appropriazione - arriva, al culmine del parossismo collettivo, sino alla frenesia allucinatoria, facilmente individuabile nell’esecuzione di molti riti. Il parossismo sposta il desiderio mimetico dall’oggetto conteso all’antagonista, ma in modo instabile. suscettibile di sostituzioni e di conseguenza destinato alla polarizzazione unanime contro una vittima casuale, in ragione della natura contagiosa, gregaria e cumulativa di questo mimetismo.

 

Così si spiega e si giustifica il "disordine" dell'azione rituale, talvolta tanto stupefacente da nascondere quella volontà d’ordine che è sempre presente nel rito. Se nelle comunità in preda alla crisi esiste un meccanismo d’autoregolazione, gli uomini saranno portati a riprodurlo ogni volta che qualcosa minacci o sembri minacciare la stabilità dell’ordine in cui si trovano. È una cosa semplice da capire così come è facile capire perche gli uomini vogliano riprodurre esattamente la medesima sequenza fenomenica per renderla efficace. È vero che il meccanismo regolatore prende avvio solo al culmine del parossismo della crisi, ma agli uomini non serve sapere il perché.

 

Per rigenerare le differenze, e necessario prima di tutto cancellarle. Per avviare il meccanismo unificante e strutturante, occorre prima di tutto che l’isteria mimetica destrutturi la comunità. Gli uomini si adeguano a questo principio senza conoscerlo perché hanno sotto gli occhi il modello spontaneo di tutti i riti, modello impresso a chiare lettere nella loro memoria in quanto mette in gioco l’esistenza stessa della comunità.

 

Per quanto riguarda i rapporti umani e il mimetismo che li governa, il disordine è lo strumento usato per stabilire qualsiasi (ri)fondazione dell’ordine. In realtà sarebbe meglio non usare termini come "paradosso", evitando anche di parlare d’antinomia tra fine e mezzi, perche esprimersi in questo modo significa continuare a replicare il malinteso delle rappresentazioni create dal meccanismo vittimario stesso, cioè quelle rappresentazioni sacre che spingono gli uomini a compiere azioni effettive attraverso l’incitamento a riprodurre scrupolosamente la sequenza originale, ma nascondendo la razionalità di questo comportamento. Per il fatto stesso di riconciliare la comunità, il meccanismo fa apparire la vittima - in realtà impotente e passiva - come la protagonista assoluta della metamorfosi mimetica, l’incarnazione di una potenza misteriosa di volta in volta malvagia e benevola, destrutturante e ristrutturante. È facile notare che, a qualsiasi stadio dell'animalità, il mimetismo tende a produrre differenze nella misura in cui le cancella, a dare segni nella misura in cui li fa scomparire. Quando, per esempio, interpretiamo il cosiddetto mimetismo di alcuni insetti a volte come «camuffamento», la nostra interpretazione si richiama, con ogni evidenza, a quella duplice proprietà. Per quanto riguarda i rapporti umani, il paradosso esiste solo per una doxa ancora incapace di individuare il vero modello del rito e il ruolo del disordine parossistico nell’organizzazione culturale. Questa doxa è visibilmente tributaria del religioso, e tuttavia lo nega in modo astratto per consolidare, esattamente allo stesso modo, le differenze che provengono dal meccanismo vittimario. Proprio il modello razionalista, come quello positivista o strutturalista, pensa esclusivamente in termini di differenze e vede nell’attenzione all’«indifferenziato» solo «misticismo sospetto» e nostalgia religiosa più o meno camuffata. In realtà, diventerà possibile articolare razionalmente l'alternanza tra differenziato e indifferenziazione in ogni tipo di ambito, a partire da quello dei rapporti umani e del modello mitico-rituale che ne scaturisce direttamente. È proprio ciò che fa la teoria mimetica. Lungi dal soccombere al misticismo e all’irrazionale, costituisce il primo autentico tentativo di formalizzazione in questi due campi.

 

Se torniamo ai nostri riti funerari, possiamo osservare che gli indizi di quello che sto ipotizzando si moltiplicano. Accanto ai fenomeni già menzionati, questi riti comportano spesso disordini e violenze in seno al gruppo direttamente colpito dalla morte di uno dei suoi membri. Non bisogna avere troppa fretta di vedere in questi comportamenti un'espressione esagerata del dolore provocato dalla morte, o una teatrale manifestazione di lutto, anche (e soprattutto) se tutto ciò che ci sembra opportuno in fatto di cordoglio e di traduzione del dolore si radica, in ultima analisi, in questo genere di comportamento. Il più piccolo paragone rivela che, anche in questo caso, si tratta di rivalità mimetiche, ossia dell'agitazione e della destrutturazione indispensabili per innescare il meccanismo vittimario. I funerali sono solo una rielaborazione tra le tante del fondamentale processo rituale e sacrificale. Se in occasione della morte di un individuo, cosi come in altri casi, si ricorre a questo processo, è perche la morte fa ovviamente parte di quei fenomeni inquietanti che autorizzano il ricorso al rito; del resto l'esperienza c'insegna che la decomposizione della comunità procede di pari passo alla decomposizione del corpo individuale.

 

Il principio universale del disordine capace di produrre organizzazione governa sia il banale fenomeno della commozione collettiva durante i riti funerari o d’altro tipo, sia il fenomeno, in apparenza più insolito, delle manipolazioni destinate ad accelerare la putrefazione del cadavere.

 

I differenti impieghi della parola «perturbazione» coprono le stesse aree semantiche interessate alle pratiche rituali e ci possono aiutare a capire la loro prossimità. Perturbazione viene da turba, cioè la folla, e indica, letteralmente, l’agitazione collettiva, ma anche la perturbazione atmosferica, che ci riporta ai riti stagionali, riferendosi inoltre all'alterazione di qualsiasi tipo di sostanza[15]. Le manipolazioni dei cadaveri sono solo tecniche rituali che tentano di rinnovare la perturbazione fondamentale, vale a dire quella della comunità travolta dal parossismo, proiettandola su sostanze facilmente corruttibili come la carne dei cadaveri, il latte, i succhi di frutta, le farine, eccetera.

 

Non bisogna drammatizzare la cosa cercando spiegazioni particolari per condotte rituali che, in realtà, si distinguono solo per l’apparente incongruità dei loro oggetti. Davanti ai riti funerari che lo sconcertano, l’homo psychanalyticus contemporaneo reagisce un po' come un tardo aristotelico: enuncia pomposamente che si tratta di «fantasmi di necrofilia» o qualcosa del genere, credendo in tutta sincerità di apportare un elemento di comprensione al fenomeno, mentre in realtà lo irrigidisce in una singolarità illusoria. Gli appiccica un’etichetta pedante, non comprendendo la sua differenziazione tardiva e ingannevole che al contrario andrebbe sciolta per poter guadagnare in vera cognizione.

 

Se si rinuncia alle singolarità illusorie, ci s’accorge che nei riti si ha sempre a che fare con un unico comportamento che si trasforma gradualmente in alcune tecniche effettive da una parte e in sopravvivenze rituali del tutto inefficaci dall'altra. Si tratta sempre di ricondurre ciò che è già stato perturbato a una situazione di calma e di stabilità percorrendo la strada di una perturbazione ancora maggiore. Sembra che da turbare derivi anche il termine trovare.

 

Proprio Michel Serres, nel suo libro su Lucrezio, attira la nostra attenzione sul carattere rivelatore del termine «perturbazione». Nel modello lucreziano, la circolazione laminare degli atomi corrisponde esattamente all’indifferenziazione del gruppo sociale sottoposto all’effetto delle rivalità mimetiche. Per questo la circolazione laminare è associata alla peste, di cui conosciamo il ruolo svolto nelle rappresentazioni mitologiche della rivalità[16].

 

La stessa corrispondenza ritorna tra meccanismo vittimario e clinamen, che è la prima differenza partorita dopo la distruzione di tutte le differenze. Per questo il modello scientifico non è meno mitico (anzi, in verità lo è più) di molti miti in quanto si sbarazza di tutto ciò che può ricordare la vittima. Lo stesso Lucrezio e convinto dell’innocenza dell'attività scientifica, che lui oppone alla violenza sacrificale del religioso. Lucrezio si sbaglia e Michel Serres ce lo mostra[17].

 

Le tracce della vittima originaria sono state dissimulate meglio nella scienza che nei miti e nei riti dove il linciaggio primordiale traspare ancora. Ma non sono scomparse del tutto: sono infatti sepolte nel linguaggio, e per recuperarle occorre portare alla luce il significato mimetico e religioso del vocabolario atomistico.

 

È la perturbatio a provocare la declinazione e nella sua riflessione sul vuoto e l’atomo, vale a dire sulla discriminazione elementare tra il qualcosa e il nulla, Michel Serres non decifra solo la natura sacrificale della scienza, ma di tutto quanto possiamo chiamare «percezione», l’emergere originario dell’oggetto:

“Il vuoto, inane, ha per radice il verbo greco inein che significa purgare, espellere, o, al passivo, essere scacciato da una purga. Il vuoto è parte del caos, ma è anche una catarsi [...]. Il primo oggetto è ancora la purga, non è che il concetto fisico della catarsi. Secondo oggetto, l’atomo. La soluzione sacra comincia con una partizione dello spazio, con una suddivisione. II tempio è un luogo dicotomizzato, la parola stessa lo dice. All’interno il religioso e fuori il profano. Logica a due valori, geometria a due valori, ontologia a due valori, dentro fuori, sacro profano, materia vuoto. La parola tempio appartiene alla stessa famiglia della parola atomo. Atomo è l’ultimo o il primo tempio, e vuota è la prima o l’ultima purgazione. I due oggetti sono, a conti fatti, i concetti fisici di catarsi e di tempio [...]. La natura è ancora un sostituto sacrificale. La violenza è ancora, sempre, nella (fisica [...). Non è la politica o la sociologia che è proiettata nella natura, è il sacro. Al di sotto del sacro, la violenza. Al di sotto dell’oggetto, le relazioni ricompaiono. II problema, per noi, rimane invariante: la violenza non è soltanto nell’utilizzazione della scienza, essa si rintana anche nel non saputo dei suoi concetti”[18].

 

Mi sembra che si tratti della stessa violenza fondatrice per la quale Serres suggeriva, già in La communication, l’accostamento tra la genesi della matematica e il dialogo platonico:

“La matematica fornisce l’esempio di una comunicazione quasi perfetta, di un’informazione trasmessa univocamente tra emittente e ricevente. Questa cosa è vera al punto che nulla ci vieta di pensare che la sua origine risieda in un dialogo in cui i due interlocutori discutono insieme contro i fastidi del rumore, che la matematica è acquisita non appena la vittoria rimane loro in mano. È dunque naturale che il platonismo presenti contemporaneamente una filosofia del mathematon puro e una dialettica … Ho tentato di mostrarlo in precedenza definendo il ruolo di un terzo uomo, di una terza voce che disturba il dialogo, e sulla quale si concentra, con l’intento di espellerla, tutto lo sforzo platonico … Questa esclusione … sarebbe una condizione del pensiero puro, nell’intersoggettività trascendentale. Che nessuno entri là dentro se non conosce la geometria”[19].

 

Nello schema platonico, la differenza tra rumore e messaggio è data a priori. Ma perché il rumore è sempre presente? Perché c’è sempre qualcuno che disturba? Le due buone volontà che intendono stabilire una comunicazione sottintendono sempre la presenza di una terza, cattiva, che bisogna ridurre al silenzio. E se il rumore non fosse altro che il modo in cui ognuno manifesta agli altri la propria volontà di comunicare? E se tutte le volontà fossero uguali? Per stabilire la differenza tra messaggio e rumore, sarebbe sempre necessaria un’alleanza di due contro uno solo, assolutamente arbitraria, ma incapace di giudicarsi tale, in quanto la designazione del terzo come unica causa del rumore costituisce il primo tentativo riuscito di comunicazione. Proprio questo successo dimostra la verità della divisione. Era davvero il terzo escluso che disturbava i messaggi, poiché è bastato metterlo a tacere per iniziare finalmente a capirsi[20].

 

Il racconto fondatore si presenta sempre allo stesso modo e con poche varianti. La corretta comprensione dei messaggi si fonda sempre sul medesimo malinteso, un malinteso che struttura sia il testo scientifico, che quello filosofico, che quello mitico, senza però che questi discorsi da noi considerati autorevoli lo enuncino mai. Per questo ci riesce facile scartare l’ipotesi di tale malinteso con una semplice alzata di spalle: l’autorevolezza che attribuiamo a questi testi fa tutt’uno con il malinteso fondamentale. Tuttavia l’ipotesi non è affatto indimostrabile, anzi: la si può solo dimostrare per via indiretta e con tutti i controlli incrociati necessari, vale a dire in modo perfettamente dimostrabile, rendendola sempre e solo tale. Tra lo schema platonico e i miti fondatori, per esempio, la continuità è evidente. I miti propriamente detti si distinguono solo in virtù di una maggiore estensione e, potremmo dire, perfezione del malinteso, che rende il terzo escluso responsabile non solo della mancanza di comunicazione, ma anche del ripristino o dell’istituzione d questa stessa comunicazione. La visione sacra è questo malinteso assoluto, ancora intatto forse, ma non privo di giustizia, visto che fa del terzo escluso – capace di assicurare, con la sua esclusione, la trasmissione chiara del messaggio – il responsabile di ciò che4rf – è intelligibile e di ciò che non lo è. La comunicazione esiste solo grazie all’incomunicabile.

 

[1] Michel Serres, Feux et signaux de brume: Zola, Grasset, Parigi 1975, p. 32 e p. 49.

[2] Ibidem, p. 131.

[3] Il riferimento è ovviamente alla vittima, al capro espiatorio, per Girard vera e propria origine dell’ordine culturale. Cfr. René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo e R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. [NdC]

[4] Victor Hugo, La fin de Satan [1886], Gallimard, Parigi 1984, p. 43.

[5] Claude Lévi-Strauss, L’uomo nudo [1971], tr. it, Il Saggiatore, Milano 1974.

[6] M. Serres, Hermès IV: La distribution, Minuit, Parigi 1977. Ilya Prigogine, premio nobel 1977 per la chimica, fa riferimento a Serres e alla questioni sollevate da Lucrzio alla fine di La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1981, pp. 270 segg. Si veda anche Ilya Prigogine, Isabelle Stengers e Serge Pahaut, La dynamique de Leibniz à Lucrèce, «Critique», 35, 1979, pp. 34-55. [NdC]

[7] M. Serres, La naissance de la pysique dans le texte de Lucrèce. Fleuves et turbolences, Minuit, Parigi 1977, tr. it., Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio, Palermo 1980.

[8] Ibidem, p. 12. Il clinamen è anche definito come “l’angolo minimo di formazione di un turbine, che apparentemente aleatoriamente in un flusso laminare”, ivi, p. 15. [NdC]

[9] M. Serres, Lucrezio, cit., p. 13.

[10] Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste, cit., p. 94.

[11] Robert Hertz, Sociologie religieuse et folklore, PUF, Parigi 1970.

[12] Georges Batailles, Les larmes d’Éros, con un’introduzione di J.-M. lo Duca, Jacques Pauvert, Parigi 1961, p. 3.

[13] A questa analogia fra tecniche di imbalsamazione funeraria e tecniche di conservazione di carni animali a scopi alimentari si riferisce anche Piero Camporesi nella prefazione all’edizione Einaudi di Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene (Torino 1970), p. IV. [NdC]

[14] Girard si riferisce al concetto di méconnaissance, all’incapacità dei persecutori di riconoscere il meccanismo attraverso il quale si perviene alla sacralizzazione della vittima e all’arbitrarietà della sua selezione. [NdC]

[15] “Questi temporali sono contemporaneamente i luoghi del turbamento (turbantis, turbare) e dei turbini (turbinibus). […] turba […] indica una moltitudine, una grande popolazione, la confusione e il tumulto. È il disordine: la turbé greca si dice anche delle folli danze nelle feste in onore di Bacco”; M. Serres, Lucrezio, cit., p. 36. [NdC]

[16] La peste di Atene chiude il libro sulle Meteore: De rerum natura, VI, 1145-1196. Si veda M. Serres, Lucrezio, cit., pp. 93, 116 e 125. Sulla rappresentazione della peste Girard ha scritto: “The plague in Literature and Myth”, in To double business bound, cit., pp. 136-54. [NdC]

[17] M. Serres, Lucrezio, cit., p. 122.

[18] Ibidem, p. 142.

[19] M. Serres, Hermès I: La communication, Le Minuit, Parigi 1975, p. 95.

[20] Su questo si veda M. Serres, Le Tiers-Instruit, François Bourin, Parigi 1991, tr. it. Il mantello di arlecchino, Marsilio, Venezia 1992.

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