Morire in bici a Milano

10 Settembre 2023

Nell’estate del 1942, il giovane Primo Levi, laureato in chimica da un anno, aveva trovato un nuovo lavoro a Milano. Da Torino aveva portato con sé – scriveva nel racconto Fosforo, contenuto nella raccolta de Il sistema periodico –, «le poche cose che sentivo indispensabili». Prima fra tutte – prima cioè dei libri (Rabelais, le Macaronae, Moby Dick tradotto da Pavese), della piccozza, della corda da roccia, del regolo logaritmico e di un flauto dolce – una bicicletta. 

In bicicletta andava a lavorare alla Wander, una ditta alimentare e farmaceutica svizzera – quella che produceva l’Ovomaltina… – che stava in via Meucci, a Crescenzago, alla periferia nord-est di Milano. Levi era stato incaricato dal Commendator Martini, il padrone della ditta, di estrarre fosforo organico dagli antociani – i pigmenti dei fiori azzurri, in particolare dei fiordalisi – e, più in generale, da altre piante: salvia, chelidonio, prezzemolo… L’obiettivo della ricerca era sintetizzare un farmaco per curare il diabete. Primo non ebbe molta fortuna negli esperimenti coi petali dei fiordalisi, col prezzemolo e con i conigli, intesi come cavie. Non ebbe fortuna neppure con Giulia, la collega di cui si era innamorato. Lei era «bruna, minuta ed espedita», lui troppo «mite e recessivo». E poi, del resto, Giulia era già fidanzata. Una sera, a fine lavoro, senza troppi complimenti, la bella collega gli chiese o, meglio, gli ordinò di accompagnarla in Porta Genova, dalla parte opposta della città. Era una cosa urgente e non aveva il tempo di cambiare tre tram. Che la portasse lui sulla canna della bicicletta. Primo, all’inizio un po’ perplesso, alla fine obbedì, forse anche un po’ contento di tenerla, mentre pedalava, così vicina tra le sue braccia. Scrive Levi, sempre in Fosforo: «Circolare per Milano in bicicletta non aveva allora nulla di temerario, e portare un passeggero in canna, in tempi di bombe e di sfollamenti, era poco meno che normale: qualche volta, specie se di notte, accadeva che estranei domandassero questo servizio, e che per un trasporto da un capo all’altro della città ti ricompensassero con quattro o cinque lire».

La traversata di Milano in bicicletta di Primo e Giulia, in quella sera del ’42 o forse dei primi mesi del ’43, è una delle pedalate amorose più belle della storia della letteratura italiana. Ma quello che più conta qui è che Primo Levi dice che, in quel periodo, «circolare per Milano in bicicletta non aveva allora nulla di temerario». Lo dice pensando agli anni in cui scrive il racconto. Il sistema periodico è del 1975 e quindi, probabilmente, fa riferimento ai primi anni Settanta, quando Milano – ma anche Torino come altre città italiane – aveva da tempo smesso di essere una “città ciclabile”. Nell’arco di quei trent’anni, l’apparizione e poi il trionfo della motorizzazione di massa ha di fatto espulso le biciclette e i ciclisti dal panorama “naturale” della mobilità urbana.

 

Il racconto, e le parole, di Primo Levi mi sono venuti in mente in questi giorni d’estate quando i media hanno portato l’attenzione sul dato dei ciclisti uccisi per strada a Milano nei primo otto mesi del 2023. Sono 5 le vittime, cifra limite raggiunta già in altre annualità (il 2014, il 2016 e il 2017), ma nell’arco dei dodici mesi (è utilissima, al riguardo, la statistica che sta realizzando un gruppo di ricerca del Politecnico di Milano, coordinato da Paolo Bozzuto: Atlante italiano dei morti (e dei feriti gravi) in bicicletta). Sono in molti a chiedersi dove siano le ragioni di questa drammatica recrudescenza del problema della sicurezza stradale dei ciclisti negli spazi urbani, e in particolare in una città come Milano. I titoli che, giustamente, danno risalto al preoccupante fenomeno scontano però, come spesso succede, l’enfasi pigra delle frasi fatte e dei luoghi comuni: la triste sequenza di morti per strada – che sono poi quelli a mobilitare le redazioni dei giornali, poco “attratte” dal basso continuo degli incidenti comuni – diventa così «una guerra in corso», tra due mondi contrapposti: quello a motore e quello a pedali, facile metafora di una città che sembra ormai sempre più spesso andare a due velocità incompatibili. 

Fermo restando che la guerra vera era quella che, a Milano e in sella alla sua bicicletta, attraversava Primo Levi ottant’anni fa – e tutti sappiamo che era soltanto l’inizio dell’inferno che avrebbe attraversato di lì a poco –, c’è davvero da chiedersi che cosa stia succedendo da qualche anno a questa parte nella città che, più di altre in Italia, è legata alla storia e alla cultura, pratica, industriale e sportiva, della bicicletta.

 

In un secolo e mezzo Milano è passata dai primi creatori artigiani, e poi industriali, del ciclo, dagli storici sodalizi di cultura e promozione turistica con mezzo milione di soci, dai giornali che inventavano il grande ciclismo per poter vendere più copie, dai velodromi pieni di spettatori acclamanti, dalle grandi masse lavoratrici che si muovevano in sella con la schiscetta legata al tubo orizzontale del telaio, alla progressiva marginalizzazione dell’esemplare homo bicyclicus – a eccezione della sua variante ludica e un po’ arlecchinesca del ciclista della domenica. Da un certo punto in poi, lungo quell’arco di tempo di cui si diceva sopra, la città del fare e disfare, del santuario del reddito, del lavoro-guadagno-pago-pretendo ha chiuso in cantina la bici e se n’è vergognata, a tutti i livelli. 

Proprio come il Gigi Lamera. Era il 1964 e La Milano di Enzo Jannacci metteva in scena un corteggiamento di fabbrica e questo dialogo alquanto paradigmatico: «S'ênn conosciuti a la catena di montaggio, / lei, tutta bianca, che spiccava in quel candor. / Gigi Lamera, ed abitava dietro a Baggio / era il suo nome; ma non era un tipo snob! // “Scusi, signore: per andare alla toeletta?” / “Scusi, signora, ma rispondere non so." / “Lei, al lavoro come viene?” “In bicicletta!” / “Ma non è fine! La credevo un gran signore…”. 

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Se non altro il Gigi Lamera «prendeva il treno per non essere da meno». Di lì a poco, il treno non bastò più, e la città venne invasa dalle macchine, quelle in movimento – inevitabilmente in movimento sempre più lento con l’aumentare del traffico – e quelle ferme, stanziali, parcheggiate, a fare orrido arredo urbano.

 

Quando arrivai dalla provincia a Milano per lavorare, anch’io, nel mio piccolissimo, con una bicicletta al seguito – era la fine degli anni Ottanta del secolo scorso – girare in bici era ancora da temerari, come aveva scritto Levi nel 1975. Ma qualcosa stava cambiando. Andavo a lavorare su una scassona col telaio da donna, sicuro che quella non me l’avrebbero mai rubata, attraversando il centro di Milano – che è peraltro un tondino piccolissimo rispetto ad altre metropoli – dribblando il traffico e i binari del tram, traballando sul pavé, come un acrobatico e patafisico Alfred Jarry cent’anni dopo: da via Boscovich a via Archimede, poi da via Sambuco a via dell’Annunciata, e infine, allargandosi famiglia, case e “orizzonti” lavorativi, da via Bonghi fino in fondo a viale Certosa, record di distanza e di camicie sudate da cambiare, quando si riusciva, arrivati in ufficio. 

Ho fatto parte di quella generazione di ciclisti che, prendendosi qualche bel rischio, ha cercato di riprendersi le strade della città, senza stare troppo lì ad aspettare infrastrutture, regolamenti, concessioni, ma facendo massa, massa critica. Era un ciclomovimentismo spontaneo, inconsapevole, poco o nulla organizzato, ma che, magari senza saperlo, ha aperto la strada a più consapevoli esperienze associative e a nuove e più consolidate conquiste. Poi, come spesso accade – e a Milano accade praticamente sempre – quando la bicicletta è diventata una moda, e quindi un consumo, tante cose hanno preso un passo diverso, e più spedito. O forse solo più apparentemente spedito (o «espedito» avrebbe forse scritto Levi, pensando ancora a Giulia…). 

Perché nella trasformazioni della Milano degli ultimi decenni, quelle che, a lungo andare, dopo la storia, l’architettura, l’economia, la società, la politica cominciano a modificare anche l’antropologia, c’è da fare i conti anche con la polarità sostanza VS apparenza. 

La tradizione della città del fare, della concretezza materiale, dell’essenzialità e della praticità delle forme e delle materie – quella che teneva insieme, formidabilmente, industria e design, e tutte le componenti produttive che, pur nella loro esplicitata conflittualità, ne caratterizzavano la filiera, dal “Gigi Lamera” al “Cuménda” – di pari passo con la trasformazione dalla produzione alla commercializzazione, dall’economia d’impresa a quella della finanza, ha diluito la sua genetica costitutiva nella narrazione dell’apparenza, della comunicazione al posto dell’informazione, dell’efficientismo al posto dell’efficacia. 

Dopo che negli ultimi anni sembrava che la richiesta e il progetto di una città leggera e intelligente – o, come si dice “smart” –, insomma, a portata di tutti e, in particolar modo, delle categorie più fragili – se una città è “pratica” e “amichevole” per un bimbo di otto anni e per un anziano della quarta età, vuol dire che, nel mezzo anagrafico, è “pratica” e “amichevole” per tutti – potesse finalmente avere ascolto e accoglienza da parte delle politiche delle amministrazioni cittadine, attente, tra le altre cose, a dare la giusta importanza alla dimensione della ciclabilità come una delle declinazioni più felici e praticabili di quella visione di città sostenibile, a oggi invece ci ritroviamo a fare i conti con i cascami di una cultura e un immaginario diffuso che continuano, non solo a non voler “essere da meno” come il Gigi Lamera, ma che al “treno” hanno sostituito mezzi automobilistici privati che sembrano concepiti per fare la guerra, per partire per il fronte del quotidiano assalto cittadino, e che sono un inno sconcio e insensato al priapismo a quattro ruote. 

A tutto questo si aggiungano i recenti effetti della città-cantiere innescati da una evidente tendenza alla speculazione edilizia, sull’onda forse poco controllata dei provvedimenti di legge intorno agli ecobonus e superbonus. Non è un caso che un’altissima percentuale di incidenti fatali sia provocata dalla libera circolazione nel traffico di mezzi pesanti e carichi speciali.

Ottanta e passa anni fa, a Milano, mentre aspettava che Giulia sbrigasse le sue faccende private – che riguardavano proprio il suo futuro matrimoniale – con la bicicletta per mano davanti al numero 40 di viale Gorizia, allora, come oggi, affacciato sulla Darsena tra Porta Genova e Porta Ticinese, Primo Levi pensava sconsolato che l’esistenza di un fidanzato e le leggi della separazione razziale all’epoca in vigore erano soltanto degli alibi e che la sua «incapacità di avvicinare una donna [sarebbe stata] una condanna senza appello». Quando dal portone uscì Giulia, ormai liberatasi dal suo peso e tornata nella sua “espedita” naturalezza, vedendolo pensieroso gli chiese a che cosa stesse pensando. E Primo, mentendo, rispose: «Al fosforo». 

Ecco, io vorrei che, senza mentire e senza nascondersi dietro le apparenze, tutti quanti noi milanesi pensassimo un po’ di più al fosforo, che è una parola con una bellissima etimologia: “portatore di luce”. Una luce che possa illuminare non soltanto gli “angoli ciechi” che, nel traffico urbano, impediscono pericolosamente la visuale di manovra di camion e di mezzi pesanti, ma soprattutto una nuova visione, partecipata e disinteressata – o interessata solo alle ragioni della collettività –, del presente e del futuro di una Milano che non può sopravvivere ancora a lungo facendosi bastare la narrazione rassicurante di se stessa.         

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