Speciale

Moto per luogo. Promemoria Auschwitz

12 Marzo 2015

Mi sento
più consapevole,
minuscola ma allo stesso tempo capace di tanto,
vuota.

 

Osserva, dietro c'è la vita.


Prendete ottocento ragazzi, ottocento adolescenti, accompagnateli in un'esperienza immersiva il cui culmine è il luogo di memoria più visto e raccontato del nostro tempo, Auschwitz. Se, nel farlo, riuscirete ad ascoltare il vostro silenzio e a lasciare spazio alle loro parole, sarete stati utili a loro e a voi stessi: uscirete da un viaggio di memoria diversi da come eravate quando l'avete iniziato.

 

 

Noi proviamo a farlo da diversi anni, ormai: strutturiamo percorsi di conoscenza dell'uomo nel tempo per accompagnare studenti da tutta Italia in un viaggio a cui abbiamo dato il nome di Promemoria Auschwitz, che quest'anno – tra il 16 e il 22 febbraio – ha visto la partecipazione di questi ottocento ragazzi. È un viaggio di memoria in un luogo della nostra storia, ed è al Brennero che comincia, quando tanti piccoli gruppi, provenienti da luoghi diversi e lontani tra loro, salgono su un treno e formano una comunità disposta a condividere un'esperienza di rara intensità. Ma il viaggio, che per la maggior parte dei partecipanti è la prima esperienza di un altrove così radicalmente distante, è cominciato mesi prima. Molti pensano che i “treni della memoria” (che utilizzino effettivamente il treno o altri mezzi), in Italia, siano tutto sommato esperienze con un nocciolo di forma e di sostanza comune, e in parte è così. Tutti coloro che da anni organizzano queste proposte complementari alla didattica “tradizionale” prevedono un percorso di formazione precedente al viaggio (più o meno incentrato sulla storia e sulle memorie del Novecento), nel quale si “costruiscono” anche, con l'educativa, i gruppi; il viaggio, naturalmente; e un'appendice che viene solitamente chiamata “restituzione”, nella quale si cerca di rielaborare le parole chiave dell'esperienza vissuta in un'ottica che possa “servire” ai ragazzi, oggi. Tutti, in fondo, non nascondono il fatto che lo scopo ultimo della costruzione di queste “comunità viaggianti” – come sono abitualmente definite – è quello di creare una generazione consapevole, che sappia essere partecipe del proprio presente, insieme.

 

Nel farlo, noi dell'associazione Deina abbiamo deciso che è fondamentale sapere stare anche in silenzio, sapere ascoltare quello che pensano questi ragazzi. Troppo spesso, ci dicono, il mondo degli adulti e la scuola non riescono a trovare il tempo. Noi lo abbiamo, e nel costruire un percorso laboratoriale strutturato sul confronto, quelli che all'inizio vediamo come dei ragazzini sospettosi e vispi, si schiudono per quello che sono: giovani uomini e donne che “chiedono una pausa, un po' di speranza, chiedono ascolto, pretendono una carezza” (così li ha descritti una loro tutor), giovani uomini e donne che hanno qualcosa da imparare e hanno molto da insegnare (e cazzo avevamo bisogno di qualcuno che pensasse a quello che dicevamo, ci ha scritto una di loro). Mentre scoprono gradualmente il percorso che abbiamo ideato per loro, ci regalano il loro sguardo che sa essere critico, lungimirante, vivo. 

 

 

Osserva, dietro c'è la vita.

 

È scritto su un cartoncino giallo, formato A5: è un brandello degli ottocento pensieri ed emozioni che i ragazzi e le ragazze di Promemoria Auschwitz hanno registrato subito dopo la giornata trascorsa nel museo-memoriale di Auschwitz I e nelle lande desolate di Birkenau, Auschwitz II.

 

Il punto di rottura – ha scritto un altro o un'altra (i biglietti sono anonimi) partecipante – arriva quando meno te l'aspetti. Noi abbiamo la straordinaria opportunità e la responsabilità di essere osservatori privilegiati del momento in cui, al posto che distogliere lo sguardo, questi ragazzi e queste ragazze hanno il coraggio di osservare il punto forse più buio del nostro recente passato. Abbiamo dedicato molto tempo a prepararli, e cerchiamo di essere al loro fianco quando, camminando tra i “blocchi” di Auschwitz e Birkenau, ciascuno di loro scruta le proprie reazioni, si interroga sulla propria capacità di comprensione. Tutti loro hanno scelto di farlo, di scivolare in un punto di vista al quale non possono bastare ore e ore di preparazione storica, di laboratori, di discussioni. Su quella distesa di neve o di fango si gioca una partita nella quale la posta in gioco è il significato che possiamo dare alla storia, che cosa ce ne possiamo fare, a cosa può servirci studiare, ed eventualmente capire. Partono con un numero incalcolabile di domande, e a molte trovano risposta: quando e dove è accaduto, con quali ingredienti umani si è arrivati alla Shoah e agli altri stermini, passo dopo passo, in un micidiale intreccio di intenzioni – ordini dall'alto –, di spontaneità – spirito di iniziativa di gente più o meno comune – e di indifferenze, in un contesto dove un più o meno altalenante consenso fronteggiava un troppo fragile dissenso. Quando “toccano con mano” (come dicono sempre loro), quando calpestano e respirano Auschwitz, una regione concentrazionaria che brulicava di decine di migliaia di esseri umani in gran parte condannati all'eliminazione immediata, quando ascoltano quel silenzio, traballano. E i loro interrogativi sul come è accaduto vengono soppiantati dalla domanda che li ha spinti a scegliere di vivere questa esperienza: perché? Non ascoltano più, alcuni, non vedono più, sono entrati in un territorio in cui servono competenze umane inedite, per loro e per tutti. A tanti, per ragioni familiari o personali, può suonare come una bestemmia, ma lo vediamo ogni anno accadere, intorno a noi e dentro di noi: Auschwitz può insegnarci a sentirci vivi. Ma prima, dalla sensazione del baratro, dalla percezione del vuoto, bisogna sapersi liberare.

 

Mi sono sentita sopraffatta da tutte le emozioni. Ho sentito il bisogno di gridare.

 

 

È a Birkenau, dove andiamo nella seconda parte della giornata, che molti partecipanti si trovano a dover fare i conti con emozioni che non sapevano di poter provare, certamente non nella storia vera, quella che si intravede – immobile – nei luoghi di memoria. Non sono pochi quelli che già ad Auschwitz hanno vissuto una sorta di crollo interiore, e non è trascurabile – l'ho già scritto altrove – il numero di quelli che misurano la distanza tra le loro aspettative create da un quindicennio di Giorno della Memoria e la realtà di un impatto con il lager che produce uno shock minore di quello che prevedevano. Si controllano, si monitorano: si aspettano di vivere emozioni forti. E se da un lato possono avere una corazza protettiva fatta di nozioni scolastiche, di conoscenza o di familiarità con questo altrove dello spazio e del tempo grazie al consumo di prodotti culturali – film, videogiochi, rete, libri, fumetti, iniziative istituzionali –, dall'altro, finché non la vivono, non hanno le coordinate per prefigurarsi l'esperienza del viaggio di memoria, questo moto per luogo che per molti è già prima ancora di partire una tappa fondamentale della loro autobiografia. È già scritto, ma farne esperienza è un'altra cosa: capita, a tanti e a tante, di sentirsi perduti.

 

Per la prima volta, non ho parole per dire ciò che provo.

 

Com'è uno sguardo senza speranza? Ho lo stomaco che gira e il cuore che scoppia e gli occhi che non piangono e la bocca che non parla. Voglio esplodere, sto male, perché ho paura.

 

Il nostro compito, credo, è provare ad aiutarli a trovarle, le parole che non hanno o che non hanno mai cercato. Cerchiamo di mettere in dialogo costante quello che pensano – e quello che credono di pensare – con quello che sanno – con quello che credono di sapere – e con quello che sentono. Cerchiamo di portarli oltre.

Noi, di non molto più grandi di loro, proviamo a dotarli di un armamentario critico, consapevoli di essere degli storytellers, a nostro modo, di puntellare insieme a loro la nostra memoria pubblica di punti interrogativi prima ancora che di certezze, e sapendo che il nostro ruolo di formatori non si limita accompagnarli dentro Auschwitz, ma deve cercare con loro la strada per uscirne un po' più saldi, coscienti del fatto che la storia è un intreccio di scelte e di responsabilità, e che in mezzo a tanta miseria e tanto dolore che l'uomo ha saputo infliggere a se stesso dobbiamo trovare gli antidoti perché la storia non faccia, mai, le rime. Succede sempre che ce lo dicono loro, quello che capita quando attraversi Auschwitz.

 

La rabbia ha invaso in molti momenti anima e corpo, ma l'ho abbandonata, l'ho fatta scivolare via grazie alla bellezza di altri esseri umani.

 

Guardare la morte per percepire la vita, non avrei mai pensato fosse possibile.

 

Io voglio fare qualcosa. Voglio essere quella che urla "nella folla del silenzio, nel mondo senza fine e nelle stanze vuote". […] Mi avete cambiata e tornerò da questo viaggio malinconica ma rigenerata. Farò della mia microstoria qualcosa e se prima dicevo "Da grande voglio costruire..." ora voglio abbattere... le barriere, le ingiustizie e l'amarezza. […] Non avevo più motivo di vivere, ma voi ed Auschwitz me ne avete dato uno. Torno diversa e farò del mio meglio perché questa nuova me aiuti nell'abbattimento delle vecchie barriere.

 

Un fotografo, uno che di lavoro esplora le vite degli altri, un giorno di qualche anno fa ci ha detto che quello che accade dopo ai nostri ragazzi non è facile da raccontare. In realtà ha trovato le parole per dirlo, lo credo io e lo credono i miei compagni di viaggio, perché ora le usiamo anche noi.

Per dire quello che succede dopo, quando ancora discutiamo con i ragazzi di quello che hanno vissuto, quando condividono in gruppo, con i loro tutors, le difficoltà, i dilemmi e le sofferenze della loro quotidianità e del loro tempo che ora vedono con occhi più lucidi, a quel punto capita che la comunità si stringa, in cerchi concentrici, che si allargano, e alla fine si ha davvero l'impressione di essere una sorta di tutt'uno in cui ogni individualità può esistere, una comunità in cui ci si abbraccia moltissimo, perché tra tutta quella morte questi ragazzi sanno ritrovare il senso profondo, quello che in fondo molti di loro cercavano fin dall'inizio, a volte senza saperlo.

Il fotografo lo ha detto bene, quel giorno di qualche anno fa, lo ha detto con le sole parole che possono dirlo, credo. Prima, però, ha specificato che molti, del mondo dei grandi, non lo capiscono, non sanno leggere quegli sguardi con una nuova profondità, quella voglia di abbracciarsi e di cantare che li segue chissà per quanto tempo, quella voglia, anche, di ballare:

 

Voi ragazzi, dopo Auschwitz, rimbalzate alla vita.

 

 

Tornati a casa, poi, resta addosso quel senso di comunità: li abbiamo aiutati a costruire un'appartenenza che devono saper guardare con occhio vigile, perché ogni identità collettiva può nascondere delle insidie, soprattutto se è sgorgata da un'esperienza edificante – il sentirsi migliori, innanzitutto. “Il treno”, il più ampio dei cerchi concentrici, manca a loro e manca anche a noi, che però abbiamo la fortuna di poterlo vivere ogni anno, da tempo. Ed è anche una responsabilità, perché non possiamo mai sentirci “arrivati”, non dobbiamo credere di aver trovato la formula educativa vincente e immutabile, e perché questa immersione nel baratro più profondo del nostro tempo deve essere sempre fatta, credo, con l'obiettivo di strutturare una formazione permanente al pensiero critico che riguardi anche noi stessi. Quando l'umanità si è sentita al sicuro, in passato, non lo era. Se e quando capiterà (è capitato) che uno tra noi o i nostri ragazzi – come Ulisse con il canto delle sirene – dovesse avere delle difficoltà a tornare, perché è troppo doloroso vivere la storia sulla propria pelle o, al contrario, perché può essere affascinante guardare dove l'uomo ha saputo spingersi, è solo la comunità a poterla avere vinta, una comunità che dentro Auschwitz trova ogni anno le parole chiave per ripartire.

 

Non sono solita condividere gli affari miei sui social network, non sono solita farlo e basta, ma stasera voglio. Voglio condividere quanto di più bello mi sia mai capitato, provare a dire senza se e senza ma come e quanto sia bello rimbalzare alla vita.
Come e quanto sia bello avere una settimana per vivere una vita.
Era il 16 febbraio. Pioveva, e la giornata si prospettava fredda. Non la mia.
Era il 16 febbraio, ed io partivo. Partivo per un viaggio dal quale non sapevo cosa aspettarmi, partivo per un'avventura che a me sembrava tanto lontana da non riuscire ad interpretarla.
Era il 16 febbraio, ed io mi dicevo: “è un viaggio come tanti, sarà splendido, ma comunque un viaggio come tanti”.
Ripensandoci col senno di poi, diamine come mi sbagliavo.
Era il 16 febbraio, ed io salivo su un autobus. Il “gruppo O” partiva.
Era il 16 febbraio, e la mia settimana per la vita cominciava: mi stava portando a Cracovia.
Sarò sincera, non ci sono parole. Non esistono, semplicemente non esistono parole per descrivere o anche solo definire quello che abbiamo vissuto. Quello che noi, noi abbiamo vissuto, perché io, da sola, non ho vissuto nulla. È stato tutto un “facciamolo, e se va male siamo insieme”. È stato tutto uno stare uniti contro il peggio, un rimbalzare alla morte con la vita, un rimbalzare alla vita con la vita, la vita di 800 persone, che su un treno dall'Italia hanno preso i loro zaini e hanno seguito le orme di chi settant'anni fa su un treno dall'Italia andava incontro alla morte.
Noi 800 abbiamo fatto una strada lunga, una strada impervia, e qualcuno cadeva, ma ci tenevamo per mano, e chi cadeva era aiutato a rialzarsi.
Era il 16 febbraio, e sul treno ridevamo tutti. Eravamo così felici. Dio, se ci penso mi viene da piangere per la malinconia. Non ho mai visto tante persone felici le une vicine alle altre. Eravamo felici ed eccitati. Per una settimana via dalla quotidianità, per una settimana di scoperta, per una settimana via dalla nostra stretta Italia. I motivi erano tanti, ma posso assicurarvi che non uno su quel treno non ha sorriso neppure una volta. Passavamo di cuccetta in cuccetta, correvamo per i corridoi del treno ridendo, cantando, suonando, urlando. Io non so bene come spiegarlo, ma, dio, abbiamo fatto di quel treno la culla della nostra felicità.
Vorrei raccontare di tutti. Di tutti quei ragazzi che bussavano ai vetri degli scompartimenti e tentavano di capire di dove fossi, di tutti quelli che passavano correndo con in mano una cassa e la musica nei loro occhi. Vorrei raccontarvi di tutte quelle persone che mi hanno fatto ridere, che mi si presentavano o urlavano i loro nomi e la loro città di provenienza. Dio, come vorrei raccontare di tutti, di tutte quelle persone che per quella settimana avevano deciso di lasciare a casa il peso delle maschere e di portarsi dietro solo quello della propria identità. Un peso leggero se lo si sa tenere stretto.
Noi questo abbiamo imparato. La nostra identità, noi abbiamo imparato a tenercela stretta.
Era il 19 febbraio quando siamo passati sotto quella scritta.
“Cado” ho pensato, “adesso cado e non mi rialza più nessuno, adesso cado e di nuovo sarò sola nel rialzarmi”. Vorrei tornare a quel momento e cancellare quel pensiero dalla mia testa, vorrei anzi che mi fossi guardata attorno ed avessi sorriso ai miei compagni di viaggio, al mio gruppo O. Nessuno è mai caduto da solo, né sotto la scritta né più avanti.
Ci guardavamo tutti i piedi. Un macabro pensiero passava per la testa di tutti: “e se qui è morto qualcuno?”. Alzavamo gli occhi da terra, e gli sguardi si incrociavano. Alcuni piangevano, altri erano seri. Io non so bene come o perché, ma lì dentro ci capivamo senza le parole.
Nessuno ha parlato dentro ad Auschwitz. La nostra guida camminava frettolosamente, esalava nuvolette bianche nel freddo magico della parte brutta di quella bella Polonia. Continuava a dirci dei numeri. Li ripeteva, aggiungeva cifre ad altre cifre, storie su storie su storie su storie su altre storie. E io mi chiedevo se mai sarebbero finite le storie. Ascoltavo ma non ascoltavo, mi guardavo attorno, guardavo i muri, li toccavo, poi però ritraevo la mano, e avevo paura perché qualcuno settant'anni prima forse aveva fatto lo stesso nel morire proprio in quel punto, ed io stavo cancellando la sua ultima traccia. Camminavo leggera sulla terra bagnata, avevo paura di rovinarla. Volevo cristallizzare quel posto, volevo che chiunque avesse vissuto un attimo di paura lì dentro non svanisse, volevo che il legno delle porte o il cemento delle scale ricordasse i loro passi, le loro mani, non le mie.
Era il 19 febbraio, ed io mi sentivo un'intrusa in un mondo impossibile.
Poi di mondo impossibile se n'è aperto un altro.
“Birkenau è un bel posto”. L'ho pensato. Stavo camminando per una strada sterrata, uscendo da un boschetto dove un tempo c'era una camera a gas e ho pensato questo. È pieno di alberi, sembra un parco. Se quello che è stato fatto non fosse stato fatto forse oggi sarebbe un ritrovo per le famiglie, un ritrovo per le coppie innamorate. Forse oggi non avremmo i brividi a camminare su quelle strade. E mi veniva da piangere, perché pensavo a come può un uomo distruggere la bellezza della natura, come può un uomo distruggere la bellezza dell'uomo. Ero arrabbiata, sono arrabbiata, perché se cose del genere dovessero accadere di nuovo perderei la speranza. Come le persone nelle camere a gas graffierei i muri, e lascerei un segno su quei muri. Un segno ancora visibile dopo settant'anni, giuro, giuro che lo farei. So che non so cosa voglia dire essere in quella situazione, ma so che la speranza è tutto, e mi conosco, dopo questo viaggio mi conosco, e so che se mi togliessero la speranza farei di tutto per riprendermela.
Questo pensavo sulle strade di Birkenau. Io speravo, sulle strade di Birkenau. E mi dicevo che dovevo farlo, che dovevo sperare, perché se non avessi sperato dove un tempo nessuno aveva potuto farlo avrei perso la mia occasione più grande. Mi sono aggrappata ai rami tanto tetri quanto affascinanti di quegli alberi scheletrici, e a questi ho legato le mie paure e la mia speranza e la mia voglia di essere felice. La mia voglia di rendere felice.
Il 20 febbraio mi sono seduta in cerchio con il gruppo O, il mio gruppo O.
Il 20 febbraio ho pianto, ma non ero sola. Piangevamo in cinquanta, piangeva tutto il gruppo O. Ci chiedevamo perché le cose che avevamo visto fossero esistite, e realizzavamo che erano vere. Realizzavamo che i numeri non erano solo numeri ma vite, e che le storie non erano solo storie ma persone. E piangevamo, e ci abbracciavamo, e ci raccontavamo le nostre di storie, tendendo la mano gli uni agli altri attraverso la fiducia che volevamo avere in noi e tra di noi.
“La rete di sguardi che si è creata, quella mi porterò a casa”.
È passata una settimana da quella rete di sguardi. E domani saranno otto giorni, e in un battito di ciglia mi ritroverò a dire “è stato un anno fa che io e il gruppo O ci siamo seduti e ci siamo guardati”, o cinque, dieci, venti, trent'anni che ho vissuto quella settimana, la mia settimana più bella. Ma non dimenticherò. Non dimenticherò nulla di tutto quello che c'è stato, neanche il minimo dettaglio. Non dimenticherò le vostre voci rotte dal pianto, o i vostri occhi pietrificati dall'orrore della morte, dalla paura di quello che può fare la vita alla vita.
Io vi voglio bene. E vi ringrazio per aver lasciato a casa le maschere il 16 febbraio e per aver mostrato quell'identità tanto temuta il 20. È stato bello vedervi, vedervi davvero. È stato bello potersi sentire capiti in una situazione tanto incomprensibile.
Grazie per avermi riassunto la vita in sette giorni.

 

[Gioia Esmeralda Soglia, 17 anni – Predappio (FC), Facebook, 27 febbraio 2015]

 

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