Nekrosius: la regia debole

7 Novembre 2012

Caligola è, a dir poco, uno dei testi-chiave del Novecento: prima prova teatrale di Albert Camus, è un percorso vertiginoso sugli estremi dell’esercizio del potere, scritto a partire dal 1937, proprio mentre l’Europa precipitava nell’avanzata dei totalitarismi. Di più, le ragioni per riprenderlo oggi si sprecano: parlare di attualità socio-politica o culturale diventa quasi tautologico. Perché nel testo di Camus non si trovano solo gli indizi dell’imminente deriva autoritaria dei governi europei, complice la connivenza di una classe sociale neo-dominante incapace di imporre o proporre alternative; ma anche temi se possibile ancora più cocenti, come l’enorme divario fra la popolazione e i propri rappresentanti, i confini fra l’esercizio e l’abuso di potere, fra logica razionale e umanità. In definitiva quell’inconciliabilità dell’individuo rispetto alla società, dell’uomo col mondo, che tanto spesso di questi tempi ricorre minacciosamente sulle pagine dei quotidiani dedicate a politica e anti-politica. L’assurdo, difficile trovare altre parole, come ebbe a chiamarlo in una sintesi-lampo lo stesso autore.

 

 

A rimetterlo in scena è un grande maestro della scena europea, il lituano Eimuntas Nekrosius, che riallestisce questa sua opera del 2011 per il Teatro Olimpico di Vicenza, nel contesto di una rassegna da egli stesso curata (e che, su sei spettacoli, ne presenta ben quattro a vario titolo legati al regista-direttore). Ma l’incontro dello spettacolo – che all’epoca del suo debutto pareva aver entusiasmato non poco – con la difficile scena palladiana non dà esiti di così grande tensione e curiosità: un lavoro sicuramente ben fatto e ben interpretato, impossibile negarlo, ma il cui riallestimento sembra consistere unicamente nell’eliminazione della scenografia. Si potrebbe parlare di una scelta registica che rischia di disinnescare le potenzialità socio-politiche del testo, a favore di un’impostazione neo-romantica di cui sono a esempio prova l’onnipresente tessuto sonoro e il lacrimoso finale dell’omicidio di Cesonia; o di un passo indietro dell’autorità registica – di una regia “debole” per dirla con una fortunata formula di Vattimo – a favore di un ensemble di attori compatto (che, va detto, non è la storica Meno Fortas guidata dall’artista lituano) la cui inquieta e dinamica attività scenica sembra avere (o sembra gli sia lasciato) maggior peso rispetto all’organicità e alla coerenza dell’allestimento.

 

Ma forse, è più utile partire proprio dall’incontro mancato fra l’autorialità di uno dei più grandi registi dei nostri tempi e l’architettura palladiana: Novecento e Cinquecento, nascita e fine della modernità; l’opera prima di Camus e l’ultimo lavoro del Palladio, utopia registica e utopia rinascimentale – due “teatri in stato di invenzione” che si incontrano? Piuttosto, forse, due ormai cristallizzazioni della scena che mancano il proprio appuntamento. E si può riprendere il tema drammaturgico – quell’inconciliabilità fra uomo e mondo, fra singolo e collettività, fra autorità e umanità – per provare a fare i conti con gli esiti della regia, che vista in termini di lunga durata è una delle figure artistiche apicali della modernità.

 

 

Di questi tempi si parla molto di regia: proprio in un momento di attestata crisi del dispositivo scenico che l’ha fatta da padrone negli ultimi decenni, studiosi, critici e artisti sembrano volersi interrogare profondamente sulle origini e i limiti di questo modello la cui esistenza ha coinciso con l’avvento e la chiusura del XX secolo. Si può dire che esistano sperimentazioni simili già nell’Ottocento o c’è addirittura chi retrodata un’attitudine proto-registica ancora secoli indietro, nel capocomicato e nelle famiglie dell’arte, ma è evidente che la regia come la conosciamo oggi sia nata a cavallo fra i due secoli o, quantomeno, in quel momento ne è emersa con decisione la consapevolezza (e, non a caso, anche il termine che la definisce). Il regista nasce dunque con tutte le grandi figure di mediazione del XX secolo, ovvero in coincidenza con quella profonda trasformazione che vede l’autonomia dell’artigianato lasciare il posto alla moderna divisione del lavoro tipica del mondo industriale. Il lavoratore (quanto l’attore) non è più interamente responsabile della propria produzione (lo spettacolo nella sua interezza o, almeno, la creazione del personaggio), ma gli compete soltanto una minima parte (brutalizzando: la declamazione del testo, e a volte nemmeno quella). Il regista è il manager (nato anch’esso nello stesso momento... vanishing mediator lo chiamava Max Weber) del palcoscenico, figura di controllo e mediazione che accentra le competenze, separa e segmenta i compiti, coordina il contributo di coloro che partecipano alla creazione del ‘prodotto finito’. Inventata a cavallo fra Otto e Novecento da grandissimi amateurs che l’hanno messa a punto nei nuovi luoghi elettivi della creazione teatrale, spazi separati e ‘segreti’ che prendono il nome di teatri-laboratorio, la regia è giunta fino ai nostri giorni attraverso le sperimentazioni tedesche (Brecht, Reinhardt, fino a Stein e Ostermeier), anglofone (da Craig a Bob Wilson), russe (con Stanislavskij e Mejerchol’d, con Vassil’ev e naturalmente Nekrosius), francesi (fino alla Mnouchkine).

 

Sembra così che la regia abbia osservato una linea tutta nordoccidentale, mentre nei paesi latini, ieri e oggi nonostante sforzi più o meno possenti di adeguamento, si muove secondo tutt’altri ritmi e modelli. E sembra forse che l’instabilità e la minaccia di tracollo del mondo capitalista occidentale stia trascinando con sé le figure-chiave che ne hanno espresso il funzionamento – manager e registi inclusi. La regia del Caligula di Nekrosius (ma anche di altri suoi lavori recenti) pare ribollire nella ricerca di una soluzione che ne possa rilanciare le istanze: dall’ossessiva delocazione del centro scenico alla dinamicità esasperata degli attori; dal tentativo di sintesi fra teatro fisico e testualità fino all’immobilismo legato al sovraffollamento di sensi generato dalla recisione del rapporto fra segni (pochissimi, in questo spettacolo di vocazione minimalista) e significati (tanti, tantissimi, troppi).

 

 

Che il nostro Paese – con la sua arretratezza industriale e il suo caleidoscopio di specificità culturali, le sue resistenze e la sua esplosiva fantasia – e la sua scena (tradizioni secolari fondate sul talento del singolo artista) rappresenti un caso del tutto anomalo per l’avvento della regia è cosa nota: lo sapeva Silvio d’Amico (e tutti i suoi sforzi per importarne le innovazioni sono ben evidenti nell’impostazione dell’Accademia che oggi porta il suo nome), come lo sapevano i grandi attori nazionali fra le due guerre – celebre la querelle che vede opporre il rifiuto di Ettore Petrolini a una proposta di collaborazione di Craig – e sembrano averlo rivendicato con forza le successive ondate d’avanguardia italiana del Novecento, che, in opposizione al modello del teatro pubblico di matrice registica, hanno proposto idee organizzativo-produttive ben più affini a quello all’antica italiana (la base famigliare del gruppo, le instancabili tournée, la non separazione dei ruoli). All’estero, ovviamente, è tutta un’altra storia. E sembra anche che l’anomalia della “nascita” riguardi anche la “fine”, ovvero la stagione della post-regia (sempre con esiti ben diverse oltre-confine). E forse si potrebbero andare a ricercare qui le ragioni dell’estrema sensibilità con cui il nostro Paese, ancora oggi, non solo subisce il fascino (quasi esotico) della figura registica, ma si trova spesso ad accoglierne in pianta stabile – quello di Nekrosius è solo uno degli ultimi episodi di una storia piuttosto lunga – gli esiti, per molti aspetti, più maturi.

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