Pasolini e i classici

26 Ottobre 2022

In un vibrante dibattito con gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma del 9 marzo 1964, poi pubblicato con il programmatico titolo Una visione del mondo epico-religiosa, Pasolini sottolineava la mancanza di rigore filologico nella critica cinematografica del tempo, sicuramente molto engagée e già indirizzata verso il crinale ideologico degli anni ’70 ma non abbastanza attrezzata perché priva di sedi, di strumenti e di metodi. 

Le obiezioni degli studenti sugli equivoci e i rischi di una critica del cinema di tipo filologico sono ribattute con fermezza da Pasolini che in quei giorni ha in cantiere Il vangelo secondo Matteo. Dopo l’invenzione bolognese del DAMS e l’affermazione del ‘cinema’ come settore di studi universitari questo dibattito oggi fa quasi sorridere. Ma è in realtà una testimonianza preziosa del metodo di lavoro e del tipo di cultura da cui nasce l’attività artistica di Pasolini: certo ‘corsaro’ e ribelle, innovatore e sperimentatore, modernissimo e anticipatore, quasi sempre all’avanguardia durante la sua breve stagione di autore e intellettuale, anticonformista e antiaccademico; eppure sempre rigoroso e orientato a un approccio anche filologico ai testi di cui si nutre la sua polimorfa opera, come ben testimonia una pagina della Lettera del traduttore in cui riferisce della lotta tra il suo «profondo, avido, vorace istinto» di lettore ingenuo e appassionato, con la pazienza metodica e la necessità di «iniziare dalla bibliografia». La macchina da scrivere è contornata da testi così come la macchina da presa, e basti qui ricordare l’episodio del sacrificio umano in Medea, da tempo riconosciuto come una sorta di trascrizione cinematografica di alcune pagine del Trattato di storia delle religioni di Eliade. 

Critici autorevoli come Santato hanno svalutato la dimensione filologica nell’approccio ai testi di Pasolini, e lo stesso Fusillo insiste soprattutto sulla memoria letteraria e artistica che determina in modi imprevisti il ricorso ai classici. Tuttavia dal sistematico confronto dell’intera opera con le fonti classiche (letterarie e artistiche) e i testi della contemporaneità (letterature e saggi di vario ambito e natura) emerge in modo evidente il laboratorio di Pasolini in cui lettura critica e rielaborazione poetica sono due movimenti, sempre intrecciati, di uno stesso percorso esistenziale e creativo, ben sintetizzato in uno squarcio di poesia autobiografica della fine degli anni ’60: «Egli fu uno di quei professori o scrittori, descritti / da Chechov, nei suoi Racconti, che certamente Lenin conobbe. / Strano, per un estremista: ma è così. L’umanesimo / non fa distinzioni psicologiche: vale all’ingrosso. / Così pur vivendo fuori legge, egli fu umanista. / Abbandonò gli studi per girovagare per le periferie / e per girare films: ciononostante gli studi erano in lui; / ozi riempiti da un lavoro che è in realtà una droga» (“Il coccodrillo”). 

Il merito principale di questo nuovo libro su Pasolini e i classici, ad opera di Andrea Cerica (Pasolini e i poeti antichi. Scuola, poesia, teatri, Milano-Udine: Mimesis, 2022), destinato certo a lasciare un segno, consiste proprio nel meticoloso ed esaustivo percorso che attraversa l’intera opera pasoliniana per restituire alla critica – in cui le esplorazioni e l’ermeneutica sui grandi temi prevalgono forse sulla filologia – questa dimensione quasi ‘alessandrina’ di poeta doctus, di cui lo stesso Pasolini era consapevole se considera il proprio corpus «destinato ad adorabili topi di biblioteca», come scrive in Puer. Rivelandosi delicatamente ‘pasoliniano’, fin dalla dedica rivolta, tra gli altri, alla sua maestra delle elementari, Cerica si definisce a sua volta un «piccolo roditore» che ha saputo rileggere con gli strumenti tradizionali della filologia testi e documenti che consentono una valutazione nuova di un autore che per tutta la vita si è nutrito e ha lasciato i segni (o talora solo gli indizi) dell’amore e della cura minuziosa per la parola scritta. Questo è il significato più autentico di ‘filologia’, dagli eruditi dell’ellenismo fino agli umanisti del XV secolo nel cui solco, e nella relazione inscindibile tra letture e libere riscritture, va sicuramente inserito Pasolini, ‘umanista’ al pari di Pascoli e delle sue famose ‘tre scrivanie’ in cui raccoglieva rispettivamente i testi delle letterature italiana, greca e latina per dare vita a un’esuberante vitalità creativa sia nella critica sia nella poesia. 

E proprio al modello del classicismo di Pascoli sembra rivolgersi Pasolini fin dalla sua tesi di laurea Antologia della lirica pascoliana: nel poeta «fraterno» ritrova un approccio ai classici eterodosso rispetto a una tradizione letteraria e accademica ormai sterile, una capacità di lettura fresca e immune dagli stereotipi, i manierismi e i fardelli eruditi in cui la vitalità del reale e dei corpi dell’uomo antico restano imbrigliati e sostanzialmente muti. 

Cerica costruisce il suo percorso esegetico alla luce di dati ed elementi positivi. Le pur scarne informazioni dei documenti consultati negli archivi del Liceo Galvani e dell’Università di Bologna, consentono comunque intuizioni preziose: come il fotogramma indelebile della fotografia di classe della V D del Galvani in cui Pasolini si mostra con una maglia giro collo sotto la giacca, al contrario delle cravatte e camicie di ordinanza dei suoi colleghi; o ancora il “sette” in cultura militare che stride con i buoni voti del resto della pagella e contribuisce a rivelare la sua precoce estraneità al mondo in cui vive; l’analisi dei libri di testo, tra cui spicca il manuale sull’arte classica di Ducati in cui la sensuale nudità dei corpi della statuaria antica suggestiona un immaginario erotico che presto troverà spazio nei primi giovanili esperimenti poetici; l’incontro con il teatro attraverso l’Edipo re bolognese di Fulchignoni (1941), i portici bolognesi, poi rappresentati nella sezione autobiografica del suo Edipo re, sono lo scenario in cui Cerica fa rivivere il ‘romanzo di formazione’ di Pasolini, attraverso l’incrocio fruttuoso tra le opere giovanili – qui per la prima volta affrontate con rigorosa e ampia sistematicità – e il complessivo scenario in cui si muoveva il giovane liceale e poi studente universitario. Uno studente vitalmente curioso e appassionato in cui freme l’urgenza di capire e di guardare in modo altro a quei testi immobili, polverosi e paludati; palestra di un’educazione e di un’ideologia nei cui confronti manifesta fin da subito una sorta di «muta insofferenza».

D’altra parte, è significativa la relazione che Cerica istituisce tra l’opera pasoliniana e proprio alcuni ‘maestri’ di discipline classiche, grazie a un puntuale ed efficace raffronto tra i programmi scolastici e universitari e le sue opere. Scopriamo quindi una passione e per certi versi inedita predilezione per la lettura latina, da Lucilio a Virgilio; un precoce interesse per Saffo, attraverso il significativo influsso prima di Gallavotti e poi dell’ingombrante figura di Coppola, compromesso con il regime e, per questo, giustiziato a Dongo (e forse per questo raramente menzionato tra le figure di rilievo nella formazione pasoliniana). 

Coltivare insieme i poeti classici e quelli contemporanei e così procedere a una «infrazione del patrimonio tradizionale»; «“distruggere” l’immagine lucente e altisonante dell’antico», e riappropriarsi del classico come «altro storico-antropologico», «declassicizzare la cultura classica». Questo è il «classicismo di rottura» e «generatore di invenzioni letterarie e originarie» che Cerica ben ricostruisce nelle sue diverse fasi, dagli studi bolognesi alle prime traduzioni di Saffo in friulano, fino alla grande stagione delle tragedie e dei film che culmina nell’incompiuto Petrolio, a sua volta debitore di un irriverente modello di scrittore satirico greco come Luciano di Samosata. 

In questo percorso in cui l’autore per certi versi sembra identificarsi, considerando le pagine della tesi di laurea di Pasolini su «Pascoli e l’antico» come un tema di ricerca «analogo» al proprio, si riflette ed è puntualmente riferita una bibliografia di studi ormai amplissima, particolarmente intensa nel denso segmento temporale compreso tra la prima edizione di La Grecia secondo Pasolini. Mito e Cinema di Massimo Fusillo (Firenze 1996) e la recentissima, con una nuova prefazione (Roma 2022). La principale novità di questo monumentale libro di Cerica – che del resto avverte il lettore: «non sarà facile leggerlo» – consiste nel sistematico riconoscimento, attraverso dati fattuali e positivi, non solo di «come la tradizione classica abbia influenzato Pasolini, ma inoltre come questi l’abbia trasformata».

La prospettiva antropologica è ormai consolidata negli studi classici e ha consentito il superamento di quelle istanze tipiche dei classicismi e neo-umanesimi di ogni tempo che hanno guardato ai Greci e ai Romani come a un modello da imitare e a una sorta di arcana origine del proprio modo, occidentale, di pensare. Specie in questi anni di furia iconoclastica e di cancel culture che ormai coinvolge decisamente anche la stessa possibilità di continuarne lo studio, proprio il continuo ricorso ‘antropologico’ ai classici da parte di Pasolini consente di ritrovarvi un’alterità barbarica, immune dalle possibili contestazioni dei post-colonial studies; un repertorio utile per interrogare il presente e rappresentarne la problematicità, piuttosto che come deposito inesauribile di risposte a domande per lo più malposte e di continuità rispetto alle nostre più trite concezioni etiche, politiche e culturali.

 

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Questo libro è prezioso perché non si limita a studiare la relazione evidente tra le opere, specie cinematografiche, direttamente ispirate da un modello classico. Cerica aguzza lo sguardo anche ai testi in cui il riferimento a Greci e Latini non è immediatamente presente e vi cerca segnali di quella continua frequentazione con i poeti antichi, dai primi anni di formazione fino all’età matura e alla fondamentale riscoperta di Luciano. 

Pasolini condivide con altri autori del Novecento una visione alternativa del classico, lontana e diversa dalle scuole e dalle «appropriazioni stolide e conniventi» e piuttosto spinta dall’urgenza di accedere e ‘decolonizzare’ quei testi, manipolarli, trasformarli, adattarli al frastuono della contemporaneità. Una visione nuova, fatta di oggetti, di sapori, di uomini. Si tratta di «un’idea di classico non elitaria ed esclusiva, aperta anzi a irradiazioni multiple; in una parola, antigerarchica». Testi di varia natura, dalle interviste televisive alle pagine più ‘corsare’, nella esaustiva raccolta di Cerica, si affiancano alle opere artistiche, letterarie e cinematografiche, nel rappresentare questa passionale, e costante azione di Pasolini contro «la retorica della classicità», la ribellione nei confronti di una rappresentazione pedagogica «lucente e altisonante».

Questo nuovo sguardo sugli antichi, ostile a ogni pretesa monumentale (e, va ribadito, sulla paradigmatica monumentalità greca e latina si costruiranno gran parte delle coordinate ideologiche rispettivamente del nazismo e del fascismo) sembra partire dalle stesse premesse ‘esistenziali’ di Camus. Nelle Nozze a Tipasa, risalendo lungo le colline dell’antico emporio fenicio poi città militare rifondata dall’imperatore Claudio, Camus si sofferma sul contrasto tra le rovine, testimonianza di un antico che non ha più ragione d’essere, con la vita, fatta di luce, odori, calore, mare, sole; così anche in Il vento a Djemila, la descrizione di una città morta in cui si riverbera solo un «arido splendore», un «grido di pietra» che nulla può valere per l’uomo, si contrappone la vitalità degli antichi racconti, i miti, come quelli di Sisifo e Prometeo che consentono di cogliere il dilemma tragico della sfida esistenziale dell’uomo: «I miti non hanno vita per se stessi. Attendono che noi li incarniamo. Risponda alla loro voce un solo uomo, ed essi ci offriranno la loro linfa intatta" (Prometeo agli inferi). 

La suggestione di Camus coglie pienamente il senso della vitalità dei classici, se è vero che «qualsiasi repertorio del teatro tragico contemporaneo sembra un manuale di miti greci» (Steiner) e, potremmo certo aggiungere, di film in cui pure non vi sia un esplicito riferimento a un ipotesto classico, da Teorema fino alla singolare Medea rovesciata di Özpetek (Un giorno perfetto, 2008).

L’opera di Pasolini nella sua interezza rappresenta questa capacità di ‘incarnare’ il repertorio di trame, simboli e concezioni del mondo del mito; ma appunto in una prospettiva in cui le opere antiche non si limitano a prendere nuova vita attraverso riscritture originali, anche quando si tratta di ‘semplici’ traduzioni. Queste stesse opere, dopo Pasolini e attraverso Pasolini, possono essere meglio interpretate e non solo in termini di ricezione o nachleben da quella comunità di addetti ai lavori, gli specialisti che inizialmente guardavano con sospetto, se non fastidio l’intrusione di un poeta così eretico nel loro repertorio critico. 

Alla fine della lettura di questo libro possiamo comprendere in che senso Pasolini sia stato definito «l'ultimo degli antichi» (Trevi) e come, mutando ancora una volta nella sua ultima stagione creativa, sia ancora rimasto ancorato a quella tradizione classica che lo determina; questa fase, come opportunamente segnala Cerica, coincide infatti con il rinnovato incontro con «il classico più classico» che per ragioni non solo storiche era finito «in un vincolo cieco della storia», ed è proprio per questo che vi si identifica: Luciano di Samosata. Negli ultimi anni di vita, tra il 1974 e il 1975, Pasolini si proporrà infatti come «continuatore di Luciano» in un estremo gesto di parrhesia, libertà di parola totale e non condizionata, nemmeno da presunte regole di genere o di stile (che lo stesso Pasolini così a lungo si era spesso imposto).

La delusione e la ‘assurda’ inutilità dell’engagement che lo tormentava fin dall’adesione al PCI, precoce quanto la successiva espulsione, non potevano che sfociare nel disincanto satirico e nella rappresentazione caricaturale del mondo e dell’umanità ormai del tutto prive di quell’aura di ‘sacro’ – tema pasoliniano già in Ragazzi di vita – di cui Luciano è modello prezioso e insostituibile. L’incompiuto e satirico Petrolio è una scrittura, se non ancora un romanzo, profondamente lucianea; e la nuova edizione, pur discutibile, come segnala autorevolmente Bazzocchi proprio su Doppiozero, ha quanto meno il pregio di introdurre nel titolo il pur ambiguo Vas che rimanda all’universo romanzesco del serio-comico (e per rispondere a Bazzocchi se pure Pasolini non ha fatto in tempo a leggere Bachtin, non era necessario farlo per cogliere e sperimentare lo spoudogeloion, proprio perché come Bacthin aveva sicuramente letto Luciano). 

Può sembrare mero apparato erudito ricordare, come fa Cerica, il fatto che Luciano fosse già lettura ginnasiale nell’antologia dei Dialoghi curata da Brighenti (1939) e orientata a «consolidare le basi linguistico-grammaticali». Ma non lo è. Si tratta al contrario di un importante segnale di come il profilo critico di un autore così a lungo ed intensamente indagato possa ancora una volta essere aggiornato e meglio compreso raccogliendo dati oggettivi e apparentemente inerti, e come tali esterni rispetto alla difficile circolarità ermeneutica che affatica la lettura di un’opera letteraria. Ma proprio per questo necessari per meglio decodificarla, se non interpretarla. 

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