Patria? Repubblica, semmai

17 Marzo 2011

Non credo di avere mai pronunciato la parola “Patria” se non distanziandola ironicamente e cioè utilizzandola in un senso decisamente critico e talora persino revulsivo, lo ammetto. È vero che essa compare all’inizio della Marsigliese, il solo inno nazionale che tuttora riesca a emozionarmi, ma la “Patrie” del primo verso scritto da Rouget de Lisle per l’Armata del Reno è qualcosa che non riesco ad associare al nazionalismo e cioè al sentimento di orgogliosa superiorità, di più o meno dissimulata primazia, insomma di nazione in armi che la stessa parola, se detta in italiano, evoca immediatamente. La “Patria” da noi si riferisce non a una comunità civica ma etnica e già virtualmente belligerante, essendo un termine che il militarismo della prima guerra mondiale e il fascismo hanno reso infetto, inerte, mortuario. “Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria”: il Carnefice e insieme Beccamorto del suo stesso paese che la pronunciò dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno del 1940 non avrebbe potuto scegliere un’altra parola, dal suo punto di vista. Per parte mia, sono cresciuto in una famiglia di antifascisti, nessuno me ne ha mai vietato espressamente l’utilizzo ma fatto sta che in casa non l’ho mai sentita: crescendo, ho scoperto che si trattava di un tabù sia per la cultura dei Lumi sia per la tradizione marxista. Mio nonno Francesco, della classe 1898, un ciabattino giudeo con la terza elementare, mi raccontava sempre che a Trieste la mattina del 4 novembre entrando in un caffè dove si festeggiava la Vittoria non riuscì a trattenersi dal dire più o meno “… ma questi sono matti a venire in Italia…” Il fatto è che il nonno, un ragazzo di vent’anni, quella mattina aveva visto il pane bianco di farina per la prima volta in vita sua. Dunque che cos’era la Patria per lui? Il pane nero di vecce, la miseria. Lo stesso Primo Levi distingue cavillosamente fra troppe accezioni della parola “Patria” per poterla accettare d’acchito e infatti, sottotraccia, la respinge. È ovvio che chi prende le distanze dalla “Patria” non può che rigettare il ritorno (per cui oggi molti latrano, in Italia) alle Piccole Patrie pre-risorgimentali i cui segnacoli grotteschi, l’acqua del Po o il sangue di San Gennaro, rimandano direttamente alla metafisica del sangue e del suolo, insomma a una mistura postmoderna di xenofobia padana e sanfedismo meridionale. Patria? Non dovremmo mai dimenticare, specie festeggiando il centocinquantenario, che il nostro Risorgimento è stata la Resistenza: ora come allora, si dovrebbe dire solamente Repubblica.

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