Pechino. I love you

28 Gennaio 2013

Pechino. Giungono dall’Italia notizie allarmate circa l’assenza d’amore in Cina. È stata infatti ripresa da quotidiani importanti una notiziola pubblicata da “China Daily” (edizione cinese) circa un sondaggio recente che evidenzierebbe la totale incapacità tra cinesi, siano essi coppie o parenti, fidanzate o madri, figli o mariti, di dirsi la fatidica frase: ti amo. L’articolo di China Daily è stato ovviamente commentato su Weibo (il Twitter locale) da centinaia di migliaia di utenti (sono trecento milioni e passa gli utilizzatori in Cina): facile far numero, nel Regno di Mezzo dove vive un umano su cinque. La notiziola, come sempre sui nostri media, monta come la panna: buona per raccontare una storia che non esiste, ma che già stava nelle corde di qualunque utente o telespettatore o internauta: un archetipo universale: averci una pietra al posto del cuore!

 

Quando mi giunge la notizia dall’Italia sobbalzo: oibò! Avevo su un bel cd di Faye Wang, che, m’han spiegato, canta quasi solo d’amore: un suo brano titola in inglese: Because of Love. E so peraltro che il pop cinese viene considerato con un’alzatina di spalle dai rampolli più aggiornati delle famiglie ricche, quelli che si danno arie cosmopolite e straparlano di punk, heavy metal e rock duro (ve lo ricordate il Mick Jagger che decenni fa ci prendeva tutti in giro con quella As Tears Go By, perfino tradotta in italiano in un Con Le Mie Lacrime? “Il sole sta per tramontare” ecc ecc…?). Il pop cinese è Sanremo: solo e semplicemente L’Amore, in ogni possibile tonalità.

 

Per la verità alla notiziola italocinese ho risposto di getto: e che, i nostri genitori si dicevano ti amo? Mai sentiti una volta, io. Tu? E poi mi ricordo le nostre femministe anni settanta, i mazzi che ci facevano perché noi maschietti non mostravamo sentimenti: “Finisce di scopare, si gira dall’altra parte e si mette a leggere un libro (una cosa pazzesca tra l’altro, Polanyi, sociologo ungherese, sul mercato del lavoro)”. Ma del resto mica si diceva far l’amore: ciullare, sì, molto lombardo, poi chiavare, più nazionalpopolare, e alfine scopare, quando le relazioni nord sud con Roma cominciarono a intensificarsi grazie all’Autostrada del Sole.

 

 

La notiziola cita torme di giovani cinesi a bocca aperta davanti alla filmografia occidentale (americana) dove si farebbe largo uso del verbo To Love (distinguibile anche grazie ai sottotitoli). Mi sono anche domandato: ma questi han capito che I love you gli americani lo dicono anche al cagnolino? E gli articolisti italiani lo sanno? È chiaro che qui lo sbarellamento è linguistico: ma, curiosamente, facciamo più fatica noi in Italia perché anche un comune Ti Voglio Bene in inglese viene lovizzato. È la guerra delle lingue: a questo punto anche noi non facciamo più l’amore (scopare men che meno) perché nei film d’oltreoceano essi ‘fan sesso’ (che se me lo dicevano a me da ragazzino mi veniva in mente il dottore, oppure quella storia dell’apina e del pistillo).

 

In realtà non di soli pistilli si tratterebbe: qui si sostiene che anche in famiglia, fra i cinesi, ci si abbracci poco. Ora qui, un pochino di verità c’è. Le effusioni sono vissute con pudore, ci si trattiene, d’accordo. Un po’ algidi, ecco. Io, ad esempio, mia moglie non la bacio sul metrò, a Pechino, perché loro ridono (ma ridono anche in India, in Tanzania, in Burkina Faso e in Bolivia, questo lo posso assicurare). Fatto sta che sì, anche in questo campo quel che accadeva in Italia negli anni sessanta del boom, accade in Cina negli anni dieci del boom. Niente di più che una ritrosia, forse contadina: l’ho già detto, e lo ripeto: pudore. Non è l’amore che par difficile, ma l’esibizione dell’erotismo, il che è ben diverso (chissà, magari così sono minori le disfunzioni erettili!).

 

Invece le famiglie ci sono, eccome: anzi allargate a dismisura, e qui diventa padre anche il migliore amico di tuo papà, e ogni governante, o badante, o tata è A Yi, cioè zietta, e ci si tiene abbastanza attaccati l’un l’altro. Anche perché è la Cina del boom che stacca le persone, spedendole da una parte all’altra del paese: ma tra due settimane è Capodanno Lunare, e mezzo miliardo di persone torna al villaggio (arriverà la notizia anche in Italia dei treni strapieni, come se fosse una novità, e monterà come la panna): i cinesi tornano in famiglia, a capodanno.

 

 

A questo punto qualche notiziola la do anch’io.

Uno. Il mio amico Zhu Wen (quello di Se non è Amore Vero allora è Spazzatura, che descriveva l’impossibilità dei rapporti di coppia in queste metropoli cinesi stralunate) mi chiama fratellino. A motivo di ciò, sul finir di ottobre mi regalò i Dolcetti della Luna, e il giorno del Moon Festival mi telefonò da Nanchino per farmi gli auguri perché quello è il giorno della famiglia! (Era lì con i suoi genitori a cercare di impedire che, a settant'anni, questi due divorziassero! Una fatica, dice…)

 

Due. Un autore di cui non preciserò il nome per pudore italocinese (è quello noto per una lunga relazione con la moglie di un diplomatico occidentale) ha scritto un romanzo nel quale racconta di sé, insegnante di cinese agli stranieri, alle prese, quand’era giovane lui, con le giovani disinibite ragazze che giungevano a Pechino negli anni ottanta, e lasciavano affranti i cinesi come lui dopo avere ‘fatto sesso’ per un paio di mesi: a sentir lui il cinese si innamorava cotto, le ragazze occidentali se ne andavano con una risata. (Le ragazze italiane qui a Pechino – che adesso han cinquant'anni – negano sdegnate. Del resto una donna non me la vedo a legger Polanyi).

 

L’unica cosa seria da dire, qui, che riguarda l’amore nelle famiglie, è la politica del figlio unico: e quindi di una generazione (questa dei ventenni-trentenni) che si affaccia sul nuovo mondo priva di strumentazione e attitudine alla lotta, all’indipendenza: perché son venuti su tutti ipercoccolati, viziati: chiusi, dentro la famiglia. Tanto che da anni si discute che sia meglio allentare i vincoli di legge.

 

Ma se, come detto in apertura, lo sbarellamento è linguistico, ricordiamo che comunque anche in Cina il verbo è uno e uno solo: ai. Per la fidanzata, la mamma, o il cagnolino. È quindi quell’unico verbo che si trovano, i cinesi, a utilizzare per tradurre i film italiani (e li voglio vedere). Ma con Hollywood vanno a nozze. Appunto: I love you.

Noi invece, come ogni notizia ‘di colore’, ne facciam panna. Che monta, che monta (tra l’altro viene anche buona, per giocarci un po’ con le mogli, che qui la sera, fuori, fa un freddo!).

 

Saluto e rimetto su Faye Wang. Che recitava nei film di Wong Karwai, peraltro. Che ha intitolato il suo primo film As Tears Go By, come quel pezzo di Mick Jagger. E che a noi italiani ci tira fuori di matto, che è così difficile amare, così difficile…

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