People from Seceda
Turismo, malattia infantile del capitalismo. Il problema non sono le folle oceaniche che si riversano su hot-spot creati dalla stupidità digitale, il problema è che nessuno è disposto a prendere atto della portata distruttiva del capitalismo. Siamo dei bambini incapaci e irresponsabili, insaziabili e in gran parte resi ottusi dalla costante e inesorabile campagna di ebetizzazione che l’onnipotente dio delle merci conduce da svariati decenni. Gli oggetti di cui ci nutriamo spasmodicamente ogni giorno di più non fanno altro che produrre nuovi bisogni e i bisogni producono ulteriori cose, fino a un punto di non ritorno. In un contesto globale inquietante e devastante, in cui pochi oligarchi multimiliardari, guerrafondai e criminali dettano legge sull’intero globo terracqueo, ci mettiamo in fila ad aspettare che una cabinovia ci porti dove è possibile scattare il selfie dei desideri. La folla del Seceda – come quella di Roccaraso o del Lago di Braies o di Venezia – è eterogenea (europei, coreani, cinesi, giapponesi, arabi, indiani, americani) e, checché se ne dica, disciplinata: attende paziente sotto la pioggia battente o il sole cocente il suo turno. C’è chi s’indigna di fronte a queste file chilometriche, chi predica limiti, chi giudica il prossimo denigrandolo e ridicolizzandolo. Peccato che l’indignato, il censore, sia molto spesso colluso con il meccanismo che porta a questi eccessi parossistici di consumo del territorio. Prendiamo gli albergatori, tra le cui file c’è anche chi si dichiara ambientalista. Appartengono a due categorie principali: quella del lusso, che predica il limite (spacciandosi per illuminata) per poter far godere in santa pace e senza troppi disturbi nei paraggi la propria clientela straricca (meno confusione stracciona c’è in giro, più posso alzare i prezzi dell’esclusività); quella del numero, che basa sulla quantità il successo della sua attività. Entrambe sono complici e partecipi del cataclisma in atto. Chi va in montagna per camminare lo sa bene: i paesi in cui sono presenti gli impianti di risalita sono quelli più deturpati, dalle Dolomiti alle Alpi francesi. L’albergatore indignato, come colui che sogna le Dolomiti di una volta, sono entrambi menzogneri: non c’è possibilità di tornare indietro, lo sanno benissimo. Colui che sogna le Dolomiti di una volta vorrebbe, in realtà, il sentiero tutto per sé, come il turista medio italiano che va nei posti più sperduti con l’ingenua speranza di non trovare concittadini, per puro sentimento egoistico. Il problema non è la folla che si mette in fila per il nullo sogno digitale, basta spostarsi di poco che la folla scompare e i sentieri si fanno meravigliosi: chi ha voglia di far fatica è ormai una misera minoranza. Il problema è una società fondata solo ed esclusivamente sulla crescita, crescita che ci sta portando al collasso che non vogliamo vedere. La fila per il Seceda non è altro che il frutto tossico di un neoliberismo sfrenato che affina di giorno in giorno armi sempre più sofisticate, come dimostrano gli smartphone, oppiacei digitali più potenti dell’eroina.
O cambia il paradigma, che a parte pochi nessuno vuole, o la catastrofe è inevitabile (ed è già sotto gli occhi di tutti, basta guardare i poveri ghiacciai): l’unica possibilità per garantire un futuro alla nostra specie nell’habitat in cui vive è invertire l’andamento nichilista della crescita – come ci insegna Serge Latouche. Per perseguire tale obiettivo non bisogna dettare limiti, ma redigere casomai regole nuove. Il limite è un’imposizione (e di solito chi è ricco riesce sempre a trovare una soluzione alternativa); la regola, se condivisa e fondata su criteri democratici, è una possibile soluzione che per principio non esclude nessuno. Sono più di trent’anni, ad esempio, che si discute inutilmente sulla chiusura parziale dei passi dolomitici al traffico motorizzato. Ma l’uomo ladino, che si ritiene inspiegabilmente l’unico tenutario del paese del bengodi, non ce la farà mai a cambiare registro. Anzi. L’idea di costruire nuovi impianti da aggiungere “al più grande comprensorio sciistico del mondo” è sempre viva nelle teste di albergatori, amministratori e faccendieri non solo locali. Così come porre un tetto alle migliaia di posti letto: impossibile.
Perciò, solo quando le condizioni generali si faranno catastrofiche il tema di un diverso modello di civiltà può prendere piede, solo quando la deriva distruttiva e irresponsabile del capitalismo si farà inesorabile può riemergere l’idea di bene comune. Nonostante il clamoroso fallimento nella riduzione del consumo di energia e dell’impronta ecologica, o forse proprio per questo, il momento è più vicino di quanto si pensi.

Intanto teniamoci la cementificazione del territorio, l’aumento della bruttezza in ogni dove, la lottizzazione del paesaggio, la distruzione dell’ambiente, lo scioglimento dei ghiacciai, la plastificazione degli oceani, le ipertrofiche perturbazioni climatiche e tutto ciò che ne consegue. Abituiamoci a vivere sempre peggio, offuscati dall’ideologia della paranoia così ben alimentata dalle destre di tutto il mondo, perché l’economia della crescita agisce non solo sui luoghi, rendendoli sempre più invivibili, ma sgretolando il tessuto sociale e ogni possibile idea di coesione.
Il disastro urbano, dalle villettopoli ai casermoni popolari, al falso recupero dei centri storici che di fatto espelle gli abitanti impossibilitati a sostenere una politica di prezzi sempre più allucinante, è l’esatta fotografia di una crisi di civiltà. Le file per il Seceda (come le Olimpiadi di Cortina o i grattacieli di Milano) sono solo un’istantanea paradossale del nostro vivere quotidiano. E non bastano, ammesso che mai siano stati sufficienti, gli attuali paradigmi ambientalisti del tutto simbolici e di fatto poco efficaci. Non basta più ipotizzare isole verdi in un oceano di distruzione.
Va ripensata l’intera prospettiva della nostra vita su un’idea di società completamente nuova, ribellandosi una volta per tutte all’imperialismo capitalista fondato sull’individualismo più sfrenato che crea continuamente miraggi, falsi desideri e bellezze artificiali. È solo una questione culturale, tutto il resto è un ipocrita bla bla bla. Bisogna ripristinare quel rapporto fra l’essere umano e il sacro (inteso come forma sublime di Rispetto) e smetterla di vivere come fossimo solo un valore di mercato. Davanti alla catastrofe, di cui siamo tutti complici, nessuno escluso, s’impongono scelte radicali. L’overtourism non si può arginare, perché è quello che abbiamo voluto. Secondo l’Organizzazione mondiale del turismo (Unwto) solo nell’anno 2025 il turismo crescerà tra il 3 e il 5%: una cifra pazzesca in termini di impatto ambientale che comporta (pensiamo alle emissioni di CO2, al consumo di suolo causato da seconde case, resort, strutture e infrastrutture turistiche, alla privatizzazione del mare, al consumo di risorse dovute all’incremento di certe pratiche sportive).
L’industria del turismo è la più impattante del mondo dopo quella delle armi e delle conseguenti guerre assassine. C’è poi una questione semantica, legata al marketing: Benvenuti all’Hotel XXX, Vi sentirete come a casa vostra, Paesaggi mozzafiato (se c’è un aggettivo che detesto è proprio questo). Il marketing usa un linguaggio omogenizzato per comunicare e soddisfare le presunte esigenze dei turisti, trattati come idioti; e se qualcuno, tra chi lavora in questo ambiente, si spaccia per ambientalista – il peggiore dei guai! – ha come unico obiettivo soddisfare l’aumento della ricchezza dovuto al flusso turistico stesso (e poco importa se i cosiddetti collaboratori sono sfruttati a più non posso, senza che gli straordinari vengano contati e pagati, e ammassati uno sull’altro per via della mancanza di posti).
Il Turismo ormai è un cancro bello e buono, una malattia cronica alla quale non sappiamo più rinunciare. Questo è il paradosso. Siamo Turisti dipendenti e tossicomani e non ci importa se questo ci ammala. È solo una questione di hybris, e ben lo sapevano i Greci. Non ci sono possibili soluzioni, se non quella di non partecipare a questo rito collettivo. E se per caso conosciamo un luogo miracolosamente immune dalla malattia, beh, non diciamolo in giro.
