Per l'arte contemporanea

22 Dicembre 2011

Il fatto che l’arte contemporanea sia autoreferenziale lo credo poco. È un sistema sempre più aperto e sempre più accattivante a parere mio e, per certi aspetti, credo che la volontà di essere alla portata di tutti abbia influito sull’abbassamento della proposta culturale cittadina. Quello dell’arte è per fortuna un ambito sempre più frequentato, tuttavia da parte di molti operatori del settore – e soprattutto delle istituzioni – si è perso il coraggio di promuovere realtà e progetti inediti. Su tutti basti pensare alla programmazione di Palazzo Reale o della stessa Triennale, fatta eccezione del museo del design strutturato secondo principi dinamici e sostenuto inevitabilmente anche con fondi privati. La mia non vuole essere una visione élitaria ed esclusivista, solo credo che per fruire qualsiasi progetto artistico sia necessaria anche una predisposizione a mettersi in gioco da parte dello spettatore, e per educare il pubblico a questa attitudine è fondamentale offrire programmazioni e palinsesti dai contenuti inediti e capaci di ampliare appunto gli orizzonti percettivi e culturali del pubblico. Non credo sia più ammissibile investire tutti i fondi, pubblici o privati che siano, in mostre “certe” e “sicure”, come quella di Dalì, piuttosto che sull’Arte Povera o sulla Transavanguardia. Queste mostre attirano senz’altro molto pubblico, ma dubito che riescano a ripagarsi delle spese di produzione con gli introiti della biglietteria, è un modello che andrebbe superato. Come dicevo, a mio parere manca un’educazione al contemporaneo e ovviamente mancano degli investimenti utili a cambiare la situazione odierna.


Ora alcune proposte, sperando di non eccedere:


Da un certo punto di vista è un concetto vecchio ma che non ho mai visto realmente applicato, ovvero la possibilità di creare una rete tra le istituzioni cittadine, sia private che pubbliche. In parte è stato fatto in occasione appunto delle celebrazioni per l’Arte Povera, occasione in cui diversi musei nazionali (Triennale, Madre a Napoli, Mambo a Bologna, Gamec a Bergamo...) hanno dato spazio a mostre specifiche relative al movimento poverista, con la sensazione però che abbiano dialogato ben poco tra loro. Sarebbe interessante invece, oltre che coraggioso, portare avanti progetti in maniera incrociata, magari in nuovi spazi neutrali (di cui Milano è ricca, all’aperto come al coperto) o pubblici e quindi sotto gli occhi dell’intera cittadinanza (ad esempio, ‘Triennale Milano e Hangar Bicocca presentano’). In questo modo si potrebbe studiare un sistema per dividere spese, investimenti, competenze ed energie, in maniera da coinvolgere anche un pubblico diversificato ma non del tutto incosciente. Mettere insieme capacità, energie e bacini di utenza per uno scopo comune.
 

Se mai verrà realizzato, il nuovo museo di arte contemporanea dovrebbe appunto perdere la sua funzione meramente museale e conservativa, lavorando piuttosto e soprattutto come spazio espositivo, senza preoccuparsi di una propria e onerosa collezione, ma continuando a promuovere mostre ed iniziative, ponendo al sistema di sponsorizzazioni da parte di privati (soprattutto banche e assicurazioni) alcune restrizioni: ad esempio esclusività della sponsorizzazione e possibilità di comparire tra gli sponsors anche assieme a dei competitor. In questo senso, un esempio virtuoso è costituito dal New Museum di New York.
 

Un’altra iniziativa valida potrebbe essere rappresentata da un momento in cui raccogliere e presentare le attività degli spazi espositivi indipendenti ( Le Dictateur, Brown Project Space, Marselleria, per citarne alcuni), tra i pochi in città a salvaguardare e promuovere quello che potremmo intendere veramente come contemporaneo. Ad esempio un festival dedicato a questi spazi e alle loro istanze. Da fare a livello nazionale e magari anche internazionale.

 

In ultimo, e in chiave del tutto generale, credo che sia necessario rivedere le organizzazioni interne delle varie istituzioni, indipendentemente dalla crisi, in mano ai consigli di amministrazione anziché ai comitati scientifici, strutture in cui spesso si confondono ruoli e competenze o si indirizzano tutte le responsabilità decisionali e culturali su un unico nome altisonante pagato soprattutto per rappresentare e dare lustro alla istituzione che lo ha ingaggiato. Credo che sia fondamentale affiancare ad un direttore artistico (impegnato di più nella programmazione generale e sulle linee guida che sulla curatela di singole mostre) squadre di giovani curatori, persone che possono essere formate ma che sopratutto possono dare nuova linfa e prospettiva alle varie realtà con le quali entrerebbero in contatto, semplicemente perché più motivati e maggiormente inseriti nel contesto culturale cittadino. Questo modello negli Stati Uniti, ad esempio, è adottato sia da Guggenheim che da Moma, giusto per citarne due, e non mi pare sentano eccessivamente la crisi, né di pubblico né di interesse culturale.

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