Conversazione con Adelita Husni-Bey / Per un’arte radicale

25 Novembre 2017

Fred Moten e Stefano Harney nel libro The undercommons (2013) sostengono che nelle democrazie occidentali neoliberiste lo “studio”, inteso come istruzione impartita da un’istituzione, è un atto individualistico e performativo che mira a mantenere invariate le classi sociali esistenti. Se invece riuscissimo a trasformarlo in atto di cooperazione tra persone diverse, permetterebbe la costituzione di ciò che ci accomuna e che si costruisce dal basso: gli “undercommons”, ovvero di quei comportamenti antagonisti al behaviour imposto dalla società neoliberista, capaci di sottrarci dal condizionamento di quest’ultima, inducendoci a immaginare realtà alternative basate sul prendersi cura l’uno dell’altro. A dimostrarlo è il lavoro della giovane artista Adelita Husni-Bey che non a caso ha scelto un passo tratto da The undercommons, quale epigrafe del suo portfolio.

 

Adelita nasce a Milano nel 1985, ma dai sette ai tredici anni si trasferisce con la famiglia in Libia, essendo quello il paese di origine di suo padre. Nonostante quindi il trasferimento non sia dettato da alcuna esigenza economica, sociale o lavorativa, ma sia in un certo senso naturale, quell’esperienza genera in lei un senso di sradicamento, un trauma nell’essere spostata da un luogo dove invece si cerca di costruire qualcosa, nonché la necessità di interrogarsi su come si strutturino i rapporti all’interno di determinati contesti sociali: “Per sopravvivere in un contesto diverso da quello natio bisogna sviluppare la capacità di rapportarsi con gli altri, di analizzarne le dinamiche, di creare una familiarità con il luogo”, dichiara durante una mia conversazione con lei. 

 

Adelita Husni-Bey, Ard, 2014, video, colour, audio - 23’20’’. Courtesy the artist and Laveronica arte contemporanea.


Nel suo lavoro, l’interesse costante per l’analisi delle dinamiche sociali e di potere tra individui l’ha condotta a riflettere sul tema dell’esilio e dell’emigrazione nel progetto The Jealous State (2013), che sarà riperformato nel gennaio 2018 per Furla, e che mostra un emigrato appena arrivato in Italia continuamente corretto da un insegnante nella lettura di testi sull’esilio: il momento teoricamente di integrazione del “diverso” alla nostra cultura diviene per lui costrizione ad adeguarvisi. Forse influenzata da La Terre inquiète (1955) di Édouard Glissant, Adelita sottende così la necessità dell’incontro paritetico tra le varie culture e della loro convivenza in una polis universale. 

 

Il suo lavoro risulta quindi in antitesi rispetto alla concezione di arte quale pura ricerca formale svincolata dal sociale, che il londinese Chelsea College of Art and Design da lei frequentato dal 2003 al 2007 proponeva: “All’università si trattavano per ore argomenti per me abbastanza inutili, come ad esempio con quale colore dipingere un pezzo di legno”. Da qui la scelta di iscriversi al corso in Photography & Urban Cultures della Goldsmiths University: l’urbanistica è infatti una disciplina che plasma il reale fornendo soluzioni anche a questioni politico-sociali. Lo prova il lavoro di Eyal Weisman, direttore del Centre for Research Architecture della Goldsmiths, che nel 2007 ha fondato il collettivo Decolonizing Architecture Art Residency per il riutilizzo dell’architettura coloniale palestinese, da cui nasce il suo libro Architettura dell’occupazione.

 

Adelita Husni-Bey, Banchieri dalla serie Agency - giochi di potere, 2014, c-print, 110 x 147 cm. Courtesy the artist and Laveronica arte contemporanea.


L’influenza di Weisman su Adelita è evidente soprattutto in ARD, un video da lei girato al Cairo, dedicato alla rigenerazione urbanistica: un gruppo di individui, destinati a subire le trasformazioni urbane neoliberali allora in atto, sono stati invitati a modificare una maquette in cartone prodotta dall’artista quale possibile loro città futura. “Da un lato la loro scelta di distruggerla per ricollocarvi le proprie case, dimostra la potenza dell’immaginario quale unico strumento che resta anche quando le istituzioni non ci ascoltano; dall’altro implica la triste ammissione di non poter avere altro potere se non quello dell’immaginazione”. 

 

Adelita Husni-Bey, Working for a World Free of Poverty, 2014, c-print mounted on leger, 70 x 100 cm. Courtesy the artist and Laveronica arte contemporanea.


L’esilio, l’urbanistica, l’occupazione, rinviano a un più generale interesse per l’attivismo politico, a cui Adelita si era già avvicinata anni prima. Il volume T.A.Z.: The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism (1991) di Hakim Bey costituisce per lei una lettura fondamentale. Vi sono descritte le strategie socio-politiche funzionali alla creazione di spazi autogestiti temporanei in grado di eludere le istituzioni preposte al controllo sociale: necessaria è l’informazione che, non a caso censurata o condizionata dal Potere, induce a dubitare delle dinamiche di quest’ultimo in una società neoliberale e a dar luogo negli individui a un nuovo “territorio mentale”, destinato a divenire reale se condiviso con gli altri. Questo è il medesimo intento dei laboratori su cui sempre si basa l’operare di Adelita: in Agency-Giochi di potere (2014), ad esempio, ha proposto a cinque specifiche categorie lavorative (attivisti, lavoratori, politici, banchieri e giornalisti) di interrogarsi su cosa significhi la politica, su quali tipi di dinamiche di potere vi si stabiliscano, su quali valori produciamo e costruiamo in occidente. In Working for a World Free of Poverty, invece, la messa in relazione delle statistiche emesse da potenti enti di controllo sovrastatali (la World Bank, l’International Monetary Fund e la World Health Organisation) induce a porsi un dubbio sulla democraticità delle politiche da essi adottate.

 

Adelita Husni-Bey, Treesitting Archive, 2007, series of 5 c-print, 70 × 70 cm. Courtesy the artist and Laveronica arte contemporanea.


Ma è l’incontro con Abdoumaliq Simone, visiting professor di sociologia alla Goldsmiths University, a incidere maggiormente sulla modalità operativa scelta da Adelita per giungere a un’arte profondamente legata e attenta alle dinamiche politico-sociali del contesto in cui ogni individuo si trova a vivere. Simone è noto per l’utilizzo di pratiche di etnografia sperimentale, volte a riformare i sistemi politici delle città africane e sud-est asiatiche di cui analizza l’economia e il costituirvisi di relazioni di scambio economico. Il suo obiettivo è immaginare e cercare di costituire il “mondo della maggioranza”, cioè città inclusive dove le istituzioni si connettano concretamente con i loro residenti per delineare città future. Adelita lo segue a Jakarta per svolgere la sua tesi di laurea dedicata alle architetture autonome e temporanee, come quelle dei Kampung, villaggi su terreni occupati che vivono prevalentemente di economia informale. “Quello fu il periodo in cui cominciai ad interessarmi al come si decide in che modo vivere. Come si formano i desideri legati alla vita in comune, dove sono i limiti, le gerarchie insite in queste decisioni e come si spiegano? Che tipo d’intimità esiste nella decisione politica di vivere assieme, nei sacrifici edificanti del consenso?”. In linea con tale interesse, in Inghilterra visita invece i campi di protesta costruiti sugli alberi secondo la pratica del treesetting.

 

Adelita Husni-Bey, The Reading / La Seduta, 2017, single channel 4K video installation, 7.1 Dolby surround - 15'33''. Courtesy the artist and Laveronica arte contemporanea.


Il video Story of the Heavens and Our Planet e le fotografie A Treesetting Archive (2008-2009) derivate da questa esperienza, anticipano la video-installazione The Reading/La Seduta presentata nel 2017 al Padiglione Italia della Biennale di Venezia, parimenti dedicata al tema della Terra. Tuttavia, se i lavori sul treesetting documentano un gruppo di ragazzi occidentali che proteggono un luogo naturale per ragioni ecologiste, The Reading propone un ecologismo diverso, dettato da una percezione più mistica della natura, attraverso la secolare pratica della lettura dei tarocchi da parte di dieci ragazzi orientali. “Mi interessa capire se questa percezione di Madre-natura, opposta e più antica del capitalismo, potesse essere impiegata da chi non la percepisce in modo connaturato, da chi è stato sottratto da una concezione del terreno come un qualcosa di sacro”. 

 

Grazie all’esperienza in Indonesia con Simone, Adelita si rende presto conto che il positivismo scientifico, mutuato anche dall’antropologia, corrisponde a una nozione di progresso che si crede ideologicamente pura, neutra e direzionata verso un miglioramento collettivo, mentre spesso tralascia e sfrutta chi si oppone o non rientra nel suo quadro di progresso. Decide così di riavvicinarsi all’arte, ma attraverso un’altra disciplina: la pedagogia, ossia una relazione attiva e dunque opposta al tipo di “Socially Engaged Art” tesa a estetizzare i rapporti umani proposta dal volume Relational Aesthetics (1998) di Nicolas Bourriaud, curatore del Palais de Tokyo. L’arte relazionale teorizzata da Bourriaud comprende lavori basati sull’intersoggettività, sulla relazionalità e sul coinvolgimento del pubblico quale produttore dell’opera. Adelita condivide con essa il “criterio di coesistenza” tra interazione sociale e pratica artistica, nonché il concetto marxista di opera quale “interstizio”, ovvero zona franca dove è possibile eludere i condizionamenti del contesto socio-politico capitalistico e neoliberale, riflettendo sulle sue effettive problematiche e sulle possibili negoziazioni.

 

Adelita Husni-Bey, Clays Lane Live Archive, 2009-2012, archive held at Bishopsgate Institute, London. Courtesy the artist and Laveronica arte contemporanea.


Tuttavia, si schiera dalla parte di Claire Bishop che, in Antagonist and Relational Aesthetics (2006), confuta la credibilità dell’arte relazionale domandandosi come essa possa opporsi all’Istituzione se l’ente museale rimane l’unico luogo atto ad accoglierla e il principale committente, e come può dirsi “forma sociale” se, essendo realizzata nei musei, viene esperita solo dal ristretto pubblico che solitamente li frequenta. È per ovviare tali controsensi che Adelita opta per una geografia radicale di ispirazione faucaultiana: da un lato, realizza laboratori all’esterno degli spazi espositivi, dove però li documenta, ma solo per renderli visibili a più persone; dall’altro permette l’ingresso di voci diverse nel campo ristretto dell’arte contemporanea. “All’opening della mostra Movement Break, alla Kadist Art Foundation di San Francisco, avevo invitato i dottori, gli infermieri e i giovani pazienti ricoverati nel dipartimento ospedaliero di fisioterapia rigenerativa per ragazzi infortunati durante competizioni sportive, con cui avevo realizzato il video esposto”.

 

Adelita sostituisce così l’Arte relazionale di Bourriaud con l’Arte partecipativa teorizzata da Bishop e basata sul “Social turn”, ossia su temi sociali utilizzati per dar luogo a una pratica artistica capace di ripensarsi nei termini sia di soggettività sia di collettività. Da qui l’importanza conferita all’archivio quale strumento di relazione tra la dimensione macrocosmica del reale (la storia collettiva) e i microcosmi individuali (le storie personali). L’archivio è infatti legato alla preziosità del tempo storico, ma anche alla volontà, sottolineata già da Jacques Derridda, di salvare materiali per permetterne la visione ai singoli individui. In questo senso, l’archivio ha un fine pedagogico, ma può divenire al contempo un potente strumento politico, come prova Clays Lane Live Archive (2009-2012) depositato da Adelita al Bishopsgate Institute di Londra. Clays Lane Housing Cooperative era una cooperativa abitativa nell’Est londinese destinata dal 1977 alla coabitazione di single esclusi dalle politiche inglesi di assistenza familiare. Dopo essere stato abbattuto nel 2007, in previsione delle Olimpiadi del 2012, la comunicazione legata ai giochi olimpici lo presentava come un luogo inabitato, quando invece accoglieva circa 470 persone. Adelita ha raccolto testimonianze e oggetti degli ex abitanti per ricostruire la memoria storica di quel luogo, compiendo così un gesto politico e pedagogico.

 

Come infatti scrive Hall Foster in The Return of the Real, il ruolo di ogni artista sta nel riportare a galla memorie soppresse. Il “Social turn” teorizzato dalla Bishop, in Clays Lane Live Archive, si unisce così all’“Educational turn” da sempre sostenuto da Irit Rogoff, docente di Visual Cultures alla Goldsmiths, che propone quali modalità artistiche le pratiche pedagogiche tese a rendere tangibili questioni sociali volutamente a noi rese sconosciute dalle istituzioni. 

 

Alla base dell’operare di Adelita c’è al contempo una convinta adesione alla pedagogia radicale delineata da Bell Hooks, Paulo Freire, Francisco Ferrer y Guardia, François Marie Charles Fourier, Célestin Freinet, nonché all’educazione integrale anarco-collettivista proposta da Petr Kropotkin e Michail Bakunin. Poiché la perpetuazione delle divisioni di classe avviene principalmente attraverso la scuola, già dalla fine dell’Ottocento si giunge a ipotizzare la creazione di classi miste di età, di genere e di classe sociale, così come l’abolizione dei voti, la realizzazione di itinerari narrativi scritti dai bambini per gli insegnanti, la produzione di materiale interno alla scuola, nonché l’introduzione di materie solitamente considerate per adulti o per determinate classi sociali. Desiderando approfondire l’argomento, Adelita ha realizzato molteplici laboratori all’interno di scuole pubbliche dove i bambini provengono da diverse classi sociali, dove vengono applicate politiche di integrazione per i meno abbienti e metodi d’insegnamento alternativi. Emblematico è Postcards from the Desert Island (2011), un lavoro derivato dal laboratorio da lei realizzato con i bambini dai 7 ai 10 anni che frequentano il parigino École Vitruve, un istituto pubblico fondato nel 1962, dove si applicano modelli di educazione sperimentale basati sulla cooperazione e non competizione, sull’esempio della Modern School, prima scuola anarco-collettivista fondata a New York nel 1991 dai seguaci di Ferrer y Guardia. Durante il labotatorio all’École Vitruve, Adelita chiede ai bambini di costruire un’isola deserta, inducendoli così a riflettere su nozioni quali: autogestione, dinamiche di potere, immigrazione, spazio pubblico, disobbedienza civile.

 

Adelita Husni-Bey, Postcards from the Desert Island, 2011, SD video transfered to DVD, 22'23''. Courtesy the artist and Laveronica arte contemporanea.


“Come riflettevamo con lo storico Alexander Alberro, la pedagogia è molto diversa dalla didattica. La didattica impone cosa devi pensare, come se tu fossi un bambino a cui si dice in quale forma collocare un cubetto di legno; mentre la pedagogia è un processo dove vengono messe a disposizione alcune forme dando però la libertà di metterle insieme come si desidera”. La pedagogia equivale quindi a un’analisi critica, poiché implica offrire qualcosa di ricombinabile in modi diversi al fine di conferirgli un senso. La pedagogia è pertanto equiparabile all’arte che offre un’immagine costituita da una forma visibile e da un senso poetico, non uguale per tutti e dunque interpretabile. “Cerco di applicare una pedagogia di decolonizzazione della mente e del corpo dall’essere un soggetto liberale, cresciuto in una società capitalista, che lo induce ad accettare passivamente condizioni sociali sempre peggiori. L’arte così ottenuta mette in luce come tali condizioni siano anche una nostra responsabilità”

 

La modalità operativa per realizzarla si esplica in tre diversi momenti. La prima fase di ogni progetto corrisponde alla fase di ricerca, seguita da una fase laboratoriale. In opposizione alle attività estetico-relazionali proposte da Bourriaud al Palais de Tokyo, il labortorio è concepito da Adelita non come opera in sé, ma quale momento intimo (infatti non tutto viene registrato) in cui scambiare conoscenze, riflessioni ed esperienze su uno o più temi. Lo dimostra, ad esempio, un suo progetto attualmente in corso, ma prima d’ora mai rivelato alla stampa. Con l’aiuto del dipartimento di educazione della Sepentine di Londra, Adelita sta lavorando all’interno di un centro per l’infanzia con cui la Serpentine da molti anni coopera, invitando periodicamente un artista a lavorarvi. Per quanto concerne questo progetto,“il periodo di ricerca prevede che io incontri ogni mercoledì mattina le madri e lo staff del centro d’infanzia e proponga loro alcuni esercizi. Desidero infatti spostare l’attenzione dai bambini a coloro i quali sostengono questi ultimi e il centro stesso, svolgendo il lavoro di cura”. Gli esercizi proposti consistono nella definizione linguistica di tre parole legate al lavoro di cura (“isolamento”, “dipendenza”, “indipendenza”), tratte dal volume The Ethics of Care, Dependence, and Disability in cui l’autrice Eva Feder Kittay riferisce come alcune studentesse, chiamate a parlare di tali concetti, giudicassero la dipendenza negativa e l’indipendenza positiva, ma come quest’ultima fosse anche da loro associata al concetto di isolamento. “Negli anni c’è stata una rivalutazione dell’idea di dipendenza: la dipendenza è diventata sempre più insopportabile come relazione, mentre in verità tutti dipendiamo l’uno dall’altra. La dipendenza è parte intrinseca del concetto di cura, non esiste relazione senza indipendenza, non esiste vita senza dipendenza”. Da qui il tentativo di definire, durante la seconda parte del laboratorio, la nozione di cura mediante esercizi teatrali di visualizzazione del conflitto insito al suo interno: ai partecipanti è chiesto di modificare gesti da loro creati in relazione alla cura. Dalle vignette teatrali create tramite gli esercizi si trarrà poi la narrativa di un libro per bambini prodotto dalla Serpentine. Tali esercizi teatrali si iscrivono nel Teatro dell’Oppresso che, ispirato alle idee di Freire e al suo testo La pedagogia degli oppressi, è nato in Brasile come forma di educazione popolare basata sulla comunità e finalizzata alla presa di coscienza della possibile influenza di ciascuno di noi sugli sviluppi socio-politici del mondo. Alla stregua del Teatro dell’Oppresso, tutti i laboratori proposti da Adelita invitano al pensiero critico e al dialogo, ad analizzare piuttosto che dare risposte, ad agire e interagire anziché solo parlare. 

 

A questa fase laboratoriale, segue sempre la postproduzione, ovvero l’elaborazione di un qualcosa (spesso un video) da presentare in occasione di un’esposizione che costituisce l’ultima parte del lavoro. La peculiarità di tale processo tripartitico sta nell’abolizione volontaria del concetto di autorialità individuale, assurgendo la cooproduzione a origine prima, sia dei contenuti sia del risultato finale dell’operare artistico. “All’inizio di ogni progetto c’è sempre un momento in cui io spiego ai partecipanti che nel lavoro ultimato io sarò menzionata come autrice del laboratorio in quanto ne detengo la responsabilità ed è qualcosa da me proposto, ma saranno parallelamente menzionati tutti coloro che sono intervenuti nella sua produzione e nel contenuto”. Adelita stipula inoltre contratti per cui, dalla seconda edizione in poi del lavoro derivato dal laboratorio (ad esempio un video), i profitti vengono divisi per tre: un terzo spetta a lei, un terzo alla galleria che ne gestisce la vendita e un terzo viene suddiviso tra i partecipanti del laboratorio. “La suddivisione dell’eventuale profitto è in linea con la mia volontà di sostenere la cooperazione attivamente, distribuendo eventuali profitti”. Rientra nella scelta di non imporsi e né di proporsi quale Autore anche il rifuggire dall’imporre una visione specifica sia durante il laboratorio, sia nella postproduzione, sia nel momento espositivo. Adelita non manipolata infatti i partecipanti al laboratorio affinché diano determinate risposte, né monta le riprese faziosamente per esprimere uno specifico concetto, né cerca di insegnare qualcosa ai visitatori della mostra: “Sono interessata a produrre un lavoro che si allontani dall’aspetto propagandistico della realtà coeva: da qui la ricerca di conoscenza attraverso polivalenze, ambiguità e poesia che deriva dalla coincidentia oppositorum, come afferma il filosofo contemporaneo Federico Campagna, citando a sua volta Nicola Cusano, giurista, filosofo e matematico d’epoca medievale. La poesia è il momento dove si rompono i paradigmi normalizzati e ai quali siamo abituati a rispondere in un modo univoco. Di fronte alla coincidenza di opposti, si può avere un’esperienza più profonda della realtà”.

 

La poesia, il misticismo, il concetto di cura sembrano essere gli attuali fulcri di interesse di Adelita. Se la poesia e il misticismo comportano un’esperienza diversa del reale, la cura mette in luce la necessità di una relazione/interscambio tra individui. Solo attraverso queste tre pratiche possiamo riscoprire i valori di protezione, anticapitalismo ed ecologismo, che il lavoro di Adelita da sempre ci induce a ricercare. 

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