La questione della ricerca umanistica nel dibattito sulle economie della cultura

16 Aprile 2012

Mobilitazioni o appelli insistono perché in Italia si avvii un processo ampio e partecipato di riflessione attorno a temi di politica culturale. Ne siamo pressoché privi, quantomeno al livello istituzionale. Non solo: le discipline storiche e sociali risultano in larga parte escluse dalla discussione sugli equilibri educativi che si intendono creare, la futura composizione sociale della ricerca, la nuova articolazione tra diversi saperi (per un’archeologia politica del processo di riforma universitaria: Michele Dantini, Humanities e “innovazione”, in uscita per doppiozero). Enclosures economiche, cognitive, sociali prevalgono sulla disponibilità a sollecitare dialogo e mutazioni immaginative di archivi e gerarchie di competenze. In posizione supplente, il Sole 24 Ore ha lanciato una dibattuta campagna di sostegno alla cultura: Confindustria appare particolarmente interessata al problema di agganciare tutela e produzione, “valore” e mercato. TQ, comunità di scrittori, saggisti, storici dell’arte trenta-quarantenni, ha pubblicato un Manifesto sul patrimonio storico-artistico e archeologico rivendicando principi non economicistici di comunitarietà e cura: l’iniziativa ha trovato autorevole sostegno. Come possiamo interpretare l’attivismo di taluni, il silenzio di altri, e per così dire cartografare le posizioni in campo? La querelle tra economisti e storici dell’arte appare cruciale: investe questioni così sensibili come la trasmissione della cultura, la manutenzione della memoria collettiva, le nozioni di “eredità culturale” e di “bene comune”.

 

Il modello Dan Brown

 

La ricerca del Leonardo “perduto” nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, a Firenze, appare, in scala locale, esemplificazione del disegno di egemonia culturale dei saperi tecnico-ingegneristici in Italia oggi e del rifiuto a riconoscere autonoma professionalità e competenza alle discipline storico-artistiche o alle istituzioni pubbliche designate ai compiti di conservazione (come il fiorentino Opificio delle Pietre Dure). Possiamo prescindere, con riferimento all’indagine circa la Battaglia leonardesca, dai risultati che potranno esserci o non esserci (a parere di molti, tra gli storici dell’arte, non vi saranno). Il senso dell’intera vicenda si è già consolidato nel proposito di destituzione e “strappo”. La riflessione storico-artistica non accompagna il progetto né vi ha partecipato (attraverso iniziative preliminari dedicate, ad esempio). Principi di “commercializzazione” e “industrializzazione” del patrimonio (e naturalmente “nuove tecnologie”) si applicano nell’occasione a frammenti di leggenda, allettamenti fantastici, spunti narrativi che dequalificano una tradizione di studi a “colore” o spunto per una spy-story di tema rinascimentale.

 

Retorica delle “industrie creative”

 

Esiste una convinzione diffusa, o per meglio dire un’ideologia: l’educazione umanistica, si sostiene, è inadeguata alle economie di scala contemporanee. Ha bisogno di “aiuto”. In anni recenti, con la diffusione di industrie connesse alle nuove tecnologie, la capacità di innovare si è trasferita ai saperi tecnici: ed è prevalentemente connessa alla redditività e commerciabilità della “scoperta”. C’è eccessiva enfasi sulla ricerca, si aggiunge; o per meglio dire è opportuno che la ricerca stessa muova oltre le soglie dei “laboratori” per collocarsi sul mercato. Colpisce il proposito di disgregazione dell’autorevolezza culturale e della competenza non subordinata a criteri di profitto. “Conservazione” e “tutela”, si afferma con argomento e silentio, devono essere sottratte a università e soprintendenze e conferite alle “industrie creative”: i consorzi di imprese che creano “indotto” attorno al patrimonio trasferendone l’immagine a “prodotti”.

 

Il punto di vista di chi scrive è quello di accompagnare in maniera riflessiva processi di innovazione qualificata e socialmente responsabile. Si può forse convenire sulla necessità di stabilire partecipazioni virtuose pubblico-privato. Non appare tollerabile che i membri economicamente forti delle partnership, sponsor etc., trascurino di considerare il ruolo della conoscenza nell’impresa di consolidamento e articolazione della memoria collettiva. Considerata sotto profili economici e sociali, la sfida è: ampliare l’offerta di professioni culturali ad alta qualificazione e alta retribuzione. Difendere industrie artistiche ad alta tecnologia: la saggistica storico-artistica, le pratiche artistiche, museografiche e del restauro. Rilanciare ambiti di esperienza che non ricadono entro contesti monetizzabili, eppure sono di beneficio collettivo: ricerca è in primo luogo avventura intellettuale. La prospettiva di quanti, in maniera che appare dequalificante e per lo più strumentale, pretendono di dettare le politiche culturali pubbliche sembra invece quella, a corto raggio, di “sfruttamento” del bene storico-artistico e archeologico (o letterario o altro) in chiave esclusiva di “indotto” enogastronomico, turistico, edile, pubblicitario.

 

Un modello di partnership economica e civile: finanziamenti al no profit cognitivo

 

Vogliamo intendere che saranno giovani precari in abito da gladiatori a spiegare alle generazioni future che cosa fossero i giochi con belve e cristiani, e a quali fosche pratiche di potere rimandino gli anfiteatri romani? Oppure che sia Tim a modellare l’immagine di Leonardo, tra i “creativi” della pubblicità televisiva e gli ammiccanti attori? Conosciamo forse con quale applicazione antichi mestieri come disegno e pittura, appresi in buone scuole, sono praticati alla Pixar, così in auge nel discorso sulle “industrie creative”? Processi di avvicinamento tra cultura umanistica e cultura tecnologico-industriale si rivelano tanto più proficui, oltreché rispettosi delle diverse ontologie disciplinari, se avviati al termine di percorsi di studio che richiedono discipline, cautele, metodi specifici. Il rigore umanistico (l’“eccellenza”) ha tempi lenti, non coincidenti con la rapidità delle rendicontazioni industriali, e ha esiti suoi propri: testi, comunità e “scuole”, metodi e prospettive, mostre scientifiche, pratiche sociali, etiche e estetiche.

 

Non si comprende quale sia il vantaggio della collettività se questa o quella corporation, “polo museale” o consorzio di imprese si intesta parti del patrimonio a proprio esclusivo uso pubblicitario e commerciale: la comunità dei cittadini si troverà ogni volta più povera di riferimenti genealogici e immaginazioni di futuro. Ha senso, invece, proporre di stabilire per legge che, per ogni progetto di “sponsorizzazione” avviato e regolamentato o uso pubblicitario dell’“eredità culturale”, una quota sia riservata a progetti di ricerca e conoscenza, sia in altre parole destinata al no-profit cognitivo e alla promozione di “eccellenze” tecniche e culturali della nazione: borse di studio, cattedre, cantieri di restauro, pubblicazioni.

 

Affermiamolo chiaramente, e con fermezza: in una prospettiva industriale seria “innovazione” non coincide con grande distribuzione, ma presuppone ricerca, divulgazione qualificata e formazione permanente di un’intera comunità storica e linguistica.

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