Le scelte di Putin / Russia e Ucraina post-sovietica: il perché di un conflitto

25 Febbraio 2022

“Voglio rivolgermi a tutti i cittadini della Federazione Russa: non come presidente dell’Ucraina, ma come cittadino dell’Ucraina… Sappiamo che non vogliamo una guerra: né fredda, né calda, né ibrida”. Alle prime ore della notte del 24 febbraio, in un discorso tenuto in lingua russa, così Volodymyr Zelens’kyj si rivolgeva ai cittadini russi nel tentativo di indurli a una mobilitazione popolare per fermare l’invasione russa nel Paese, che sarebbe comunque iniziata dopo qualche ora per volere della leadership politica russa. All’alba dello stesso giorno, il presidente Vladimir Putin annunciava il lancio di un’operazione speciale per “demilitarizzare” il Paese confinante.

 

Nel corso di questi lunghi otto anni, iniziati con la Rivoluzione di piazza dell’Indipendenza a Kyiv nel novembre del 2013, siamo rimasti nell’incredula attesa che una guerra potesse realmente esplodere nuovamente nel cuore dell’Europa. In questa dimensione di sospensione epistemologica ed esistenziale, abbiamo iniziato a cercare nuovi termini per descrivere quello che stava succedendo, senza trovare una soluzione: abbiamo così imparato a replicare l’utilizzo di categorie storiche per descrivere e talvolta giustificare le diverse posizioni politiche assunte dagli attori coinvolti; abbiamo concordato sul fatto che l’unico modo di guardare al presente fosse tramite il prisma ideologico della ‘guerra fredda’; siamo rimasti scioccati di fronte al riemergere di arcaici nazionalismi che sembravano essere stati ormai sepolti dal volgere dei secoli. 

 

‘A Futureless ontology’. Nel suo libro dal titolo emblematico Cosa significa essere post-sovietici? (2018), la critica letteraria russa Madina Tlostanova descriveva in questo modo la nuova condizione esistenziale e politica seguita al crollo dell’URSS: “Non c’è più nessuna teleologia, nessun punto di arrivo… il ricorso all’attesa di un meraviglioso futuro nelle condizioni di privazione e umiliazione odierne è del tutto esausto”. Nel corso degli ultimi trent’anni di storia, si è assistito alla fine della ‘modernità sovietica’ e all’inizio di una ricerca disperata di un nuovo punto d’arrivo. I diversi attori politici e culturali della regione hanno faticosamente ricostruito il loro passato, per pianificare il presente ed immaginare un nuovo futuro. In questo percorso hanno dapprima guardato alle proprie tradizioni locali, sopite e represse in età sovietica, per porre le basi della nuova ‘modernità’ nazionale. Successivamente, si sono rivolti all’Europa e all’Occidente e al modello di modernità globale in chiave liberal-democratica, vivendone in primo luogo i traumi di un distorto processo di modernizzazione, che ha dato in molti casi vita a corruzione, povertà e umiliazione. Lungo questo percorso ha preso vita la ‘transizione’ post-sovietica, un percorso ‘senza futuro’ in cui era paradossalmente solo il linguaggio del passato a poter significare il presente:

 

Ben presto divenne chiaro che le persone post-sovietiche apparentemente mandate in fondo alla fila, in realtà, erano semplicemente escluse dalla storia, perché il recupero non si sarebbe mai concluso con un sorpasso. Ci siamo trovati nel vuoto, in un luogo problematico abitato da persone problematiche. Ed è stata questa situazione di non avere nulla da perdere che ha plasmato il pericoloso risentimento postimperiale di oggi.

 

Le strategie adottate dalle élite politiche e culturali della regione per colmare il vuoto creato dall’assenza di un futuro sono state profondamente diverse tra loro. Il ‘presente’ post-sovietico che ha preso forma nel corso degli ultimi 30 anni di storia ha determinato vettori divergenti di evoluzione storica, la cui direzione ha portato alla formazione di nuove realtà politiche, che hanno riconosciuto vicendevolmente la legittimità della loro presenza sulla scena internazionale. Se lo scenario internazionale ci invita a pensare che ad oggi non esiste nessuna organizzazione internazionale che contenga al suo interno tutti i quindici Paesi sorti dal crollo dell’Unione Sovietica, possiamo già comprendere come un ‘ordine politico’ post-sovietico non abbia mai realmente preso forma.

 

Se guardiamo alla Russia post-sovietica, vediamo un’élite politica che ha costruito la sua stabilità intorno alla negazione dell’umiliazione dei cosiddetti ‘selvaggi anni Novanta’ (‘lichie devjanostye’, in russo) nella coscienza collettiva: è indubbio che la crisi economica, politica e sociale vissuta dalla Russia El’ciniana abbia rappresentato un punto di non ritorno per la retorica putiniana. Vladimir Putin, salito al potere al tempo della seconda guerra cecena (1999-2009), ha costruito la propria carriera politica intorno all’idea di uno ‘stato forte’ (‘velikaja derzava’) che potesse garantire ai propri cittadini una stabilità economica e politica del tutto diversa da quella ereditata dagli anni del suo predecessore. Se è vero che il nuovo contratto sociale che si è affermato negli anni putiniani ha sì portato a una maggiore stabilità politica ed economica per il Paese, di contro ciò è avvenuto tramite la rinuncia a tutta una serie di diritti civili e politici goduti dai cittadini russi negli anni successivi alla perestrojka: per usare una metafora utilizzata dai media russi, nel corso degli anni Duemila ha preso forma quello che viene definito come uno scontro interno ‘tra frigorifero e televisore’, ovvero tra le aspettative di vita reale e concreta dei cittadini russi e l’immagine veicolata dallo Stato della Russia stessa.

 

Volgendo lo sguardo all’Ucraina post-sovietica, guardiamo ad un Paese che per la prima volta nella sua storia legittimava le ambizioni di un movimento nazionale sorto alla metà dell’Ottocento in seno all’Impero Russo, e si trovava di fronte alla possibilità di raggiungere una statualità riconosciuta a livello internazionale. È indubbio il fatto che l’élite politica che si è resa protagonista della ‘transizione’ post-sovietica ucraina non sia stata sempre all’altezza del compito di creare una nuova idea di futuro per il Paese. Non a caso la storia contemporanea dell’Ucraina indipendente, a differenza di quella russa, si muove per ‘cicli rivoluzionari’: dalla rivoluzione sul granito del 1990, alla rivoluzione arancione del 2004 e, infine, alla rivoluzione cosiddetta di Euromaidan nel 2013-14.

 

 

Ovvero, in luogo della leadership politica del Paese, è stata la società civile a proporre nuove idee di comunità politica che andassero al di là della retorica nazionale del passato sovietico, debitamente rivista nel presente. Queste istanze di cambiamento sono state puntualmente sommerse, per fini elettorali, dalle retoriche divisive adottate dai diversi attori politici intorno all’idea dell’esistenza di ‘Due Ucraine’ distinte e separate. In particolare, sin dagli anni della ‘Rivoluzione Arancione’, che hanno visto il presidente Viktor Jusenko salire al potere, per arrivare all’ultimo presidente ucraino pre-Euromaidan, Viktor Janukovic, il dibattito politico ha iniziato a ruotare intorno alle diverse idee d’Ucraina costruite intorno a miti storici e criteri di appartenenza linguistica ed etnica: secondo questa logica, a un’Ucraina ucrainofona ed ‘europea’, si contrapponeva un’Ucraina russofona e ‘nostalgico-sovietica’. L’eterogeneità e vivacità del presente della società civile ucraina veniva così puntualmente sommersa all’interno del linguaggio del passato.

 

Una condizione post-sovietica, quindi, ma che ci riguarda tutti: non solo i russi e gli ucraini, ma anche la vecchia Europa e l’Occidente. Mentre la fine dei regimi comunisti in Europa centro-orientale segnava la fine di un’epoca, nel corso degli ultimi decenni non si è mai stati in grado (o non si è mai pensato alla necessità) di definire un nuovo futuro per lo spazio geopolitico europeo e globale: mentre l’Unione Europea si allargava ad Est, i nuovi conflitti che avevano già preso vita nella regione post-sovietica (e non solo) restavano insoluti e ‘congelati’, senza che si riuscisse a trovare un dialogo e un metro di valutazione condiviso.

 

Le repubbliche popolari di Donec’k e Luhans’k sono soltanto gli ultimi tasselli sorti nel 2014 in un quadro che sin dagli ultimi anni di vita dell’URSS ha prodotto le cosiddette ‘zone grigie’ d’Europa: la Transnistria, al confine tra Moldova e Ucraina; l’Ossezia del Sud e l’Abcasia in Georgia; il Nagorno-Karabach in Azerbaijan. Conflitti costruiti a livello retorico attraverso il ricorso al linguaggio del passato sovietico, modellati intorno all’implosione del complesso mosaico dell’etno-federalismo sovietico, ma che indiscutibilmente hanno definito un futuro politico complesso per la regione. Un futuro in cui la Federazione Russa si è ritrovata a giocare il ruolo di unico arbitro indiscusso, utilizzando le armi a sua disposizione: le armi di un passato che ai nostri occhi sembrava essere stato seppellito ormai trent’anni fa.

 

Dopo una lunga attesa durata otto anni, la domanda che ricorre è ‘perché oggi siamo di fronte ad una guerra tra russi e ucraini’? Potrebbero esserci tante risposte a questa domanda: perché l’élite politica russa non è riuscita a trovare un nuovo futuro che potesse prendere forme diverse dal ricorso al revanscismo di marca imperiale; dall’altra, perché la società ucraina ha cercato di porre le basi di un futuro tramite il ricorso al confronto democratico e alla creazione di un nuovo modello di comunità post-nazionale, ma nel suo percorso ha incontrato un’élite politica inadeguata che ha strumentalizzato divisioni etniche e culturali interne; perché queste dinamiche sono diventate oggetto di contesa nel contesto internazionale tra progetti di integrazione regionale in opposizione, seguendo le linee di un linguaggio del passato che ruota intorno alle dinamiche di una nuova ‘guerra fredda’.

 

In queste ore di forte preoccupazione per il destino di un Paese che nel corso degli ultimi 30 anni di storia ha vissuto un difficile percorso verso l’affannosa ricerca di un futuro tramite l’affermazione di una vibrante società civile, di una società multiculturale, e in generale di un confronto politico interno vivace e aperto, sembra necessario ribadire con forza e lucidità che la guerra in corso non è una guerra tra russi e ucraini, i cui legami familiari, esperienze di vita, radici culturali comuni restano indiscutibili, ma ruota intorno a due idee diverse di comunità politiche promosse dalle odierne élite dei due Paesi.

 

Da una parte, il futuro promosso dalla leadership russa è costruito intorno alla continuità con il passato, alla negazione della possibilità di creare un nuovo percorso politico e sociale democratico per la regione post-sovietica. Dall’altra, abbiamo un’idea di futuro (ancora imperfetto e in divenire), basata su una discontinuità con il passato sovietico. Un futuro che chiaramente può prendere forma solo in tempi di pace: e qui il ruolo dell’Unione Europea e dell’Occidente è essenziale. Siamo tutti coinvolti nel tentativo di creare una nuova idea di futuro tramite un linguaggio nuovo per un dialogo rinnovato, che rifiuti con decisione il ritorno alle armi, i termini di una nuova ‘guerra fredda’, il lessico dei nazionalismi. La speranza è che questo linguaggio possa nascere dal confronto tra la società civile russa e quella ucraina. Un nuovo linguaggio post-sovietico di rottura da fare nostro, e rendere parte di una nuova idea di relazioni culturali e politiche in Europa.

 

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