Scaldati. Una tempesta

1 Marzo 2024

È una fantasmagoria, Si illumina la notte, da Franco Scaldati, una ballata di fantasmi nel vuoto, nel buio di un disastro imbellettato di pallida luna, che consola spandendo gocce di rugiada. È tragedia, è commedia, su piccole ali d’oro attaccate alle spalle di un Ariel che mescola lingua e dialetti, italiano, napoletano, siciliano, con suoni anche inventati, con versi di animali. La Luna, in abito nero e gorgiera, piccola gorgiera bianca plissettata, canta la serenata del Conte di Almaviva all’amata Rosina del Barbiere di Siviglia; la intona per un poeta che dorme, accucciato per proteggersi da un terremoto che il mondo ha squassato, che tutto ha fatto crollare, perfino le parole, riducendo al silenzio. Nel disastro che prevede e precede l’Apocalisse, con le bandiere nere della rivelazione, quel poeta le parole cerca di salvarle, vergandole su foglietti che nasconde nelle crepe di un muro. E quel poeta è un omiciattolo gobbo e storto, che conserva l’illuminazione nella notte più scura, accompagnato come un Prospero shakespeariano dal suo fido spiritello Ariel, contornato di altre figure o figurine, forse un Calibano, sicuramente una Miranda che sente la tempesta nella propria testa, con la Luna che illumina e nasconde, chiara e oscura, in un mondo terminale dove non sappiamo se stiamo vivendo o sognando, se vediamo l’azione di altri in uno specchio e quelli sono i nostri stessi gesti deformati; dove non sappiamo se gli occhi guardano o sono oscurati, e forse proprio quel terremoto può sbriciolare muri e finestre che ci impediscono di guardare, di vedere.

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Livia Gionfrida continua a rivisitare il mondo di Franco Scaldati, poeta, attore e scrittore di teatro palermitano, scomparso a settant’anni nel 2013. Dopo Pinocchio, creato nel 2020 per il Teatro Stabile di Catania, quando era diretto con coraggio da Laura Sicignano, dopo Inedito Scaldati del 2022, realizzato al Teatro Biondo di Palermo, questo è il terzo viaggio della regista e drammaturga siciliana, ormai accasata a Prato, dove con la compagnia Metropopolare svolge un importante lavoro in carcere (ma non solo). Come nelle prove precedenti anche qui non mette in scena un testo unico di un autore che, peraltro, le proprie pièce continuava a variarle continuamente negli anni. Partendo dalla traduzione della Tempesta di Shakespeare crea un proprio Scaldati, un precipitato di motivi, di personaggi del “Sarto”, così chiamato perché quello, prima di dedicarsi professionalmente al teatro, era il suo mestiere. Attraversa così la lingua materica, densa, “omerica” di quello scrittore visionario, sempre innamorato degli ultimi, che negli anni Novanta aprì un laboratorio partecipato nel quartiere popolare dell’Albergheria, lavorando con la gente di quel luogo reso famoso dai colori e dalle grida, dalle storie e dalle vite spesso stente e marginali che si svolgono intorno al mercato di Ballarò. “Aristocratico poeta delle caverne” chiamò Scaldati il critico Franco Quadri, uno degli intellettuali che lo rivelò al teatro italiano, pubblicandone vari testi con la sua casa editrice Ubulibri. 

Gionfrida muovendosi tra varie opere di Scaldati mette in atto un procedimento che ricorda quello attuato da Leo de Berardinis con Eduardo De Filippo in Ha da passa’ ‘a nuttata, spettacolo memorabile del 1989, che rivitalizzò il lascito del grande attore napoletano visitandone, per sprazzi, per associazioni, per contraddizioni e innamoramenti figure di diverse commedie, in una tessitura omogenea e capace di rivelare lati impliciti, nascosti, ignorati, poco valutati dell’eredità del maestro. 

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Così Gionfrida crea un proprio “mondo Scaldati”, in una scena nuda, che guarda il vuoto di un disastro e vive principalmente di ritmi, di parole, di pose incantate o addolorate, in un mondo dove la tempesta squassa le menti e le vite, dove la specie umana cerca disperatamente di salvarsi. Scaldati è stato spesso, non sempre a proposito, avvicinato a Beckett: ma qui è fortissima la suggestione dello scenario post-umano, dove bisogna salvare il salvabile, dove tutto appare rastremato, confuso, moltiplicato e allo stesso tempo ridotto a simulacro. Ci ritroviamo, con emozione, di fronte a uno Shakespeare precipitato in un’atmosfera beckettiana post-disastro, vicino, in qualche modo, a Finale di partita. Ma il sangue continua a pulsare, si ode ripetere il motivo della popolare canzone partenopea Santa Lucia, la lingua dell’amore cerca di ritrovarsi, i versi degli animali ci fanno ricordare la vita nuda. E intorno intanto esplodono bombe, si sparano proiettili, si perdono i sensi della convivenza:

“pezzi di cielo dappertutto e munizioni dappertutto…

Oh Maronna mia quante, guarda questa quanto longa, questo è americano, questo è calibro 40, questo è turco ma made in Francia, questo è egiziano, ma made italiano, questo è pakistano, germanico, ucrainico, palestinese, israelitico afganico sudanico… oh Maronna mia… tutto il mondo è paese 

(ccanta) Fratelli bombardieri da testa fino e peri (fino ai piedi) 
(alle orecchie del Poeta che ancora dorme) 

Chiccirichì!!! 
Giù la terra è in fiamme”.
E il cielo è stato bucato.

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È uno spettacolo dolce e aspro, Si illumina la notte, come il sollevarsi ruvido di uno che vive in strada che ti apostrofa all’improvviso e ti fa vergognare di aver dormito in un letto. È un’irruzione e una carezza. È un canto, non solo quando gli attori intonano o quando, muovendo un intrico di corde, suonano campane, oppure quando riproducono il furore della tempesta in un secchio pieno d’acqua. È dialetti che si incrociano, si sovrappongono, si incrostano rispecchiando l’universo composito, di violenza e amore, di Scaldati, dei luoghi che il poeta attraversò. È un viaggio nel suo paesaggio riprodotto come un paesaggio vuoto, dove solo le parole degli attori, parole-suono, grido, verso, borborigmo, allegria, dolore, creano il senso martellando o scivolando fluide e pure comiche. Un senso che avvolge e distanzia, come guardare fuori, molto lontano, tanto da finire per introflettere quello sguardo dentro di sé.

Gionfrida scava Scaldati e lo staglia, come il sogno di un sogno che rifrangendosi in cento specchi distoglie dalle realtà e la fa ritrovare in fondo alla fuga di immagini virtuali.

È poesia di poeti sciancati:

“Tutti cuosi mi ponnu ‘mmrugghiari, e iu ci criru, ci criru; ci criru sempri... / Talìa ‘n’cielu... Ch’i è ca luci?... / a luna... è a luna, è ‘a mari, jamul’ ‘a truvari... / Lumi, lumini, cannili, ‘un ti nni servinu chiù... eccali nna munnizza, nna munnizza... / ‘N’menz’a sti cannili sugnu... ‘n’menz’a sti lumini, a sti lumi… […]”. E non c’è da tradurre: c’è da cercare di navigare, di naufragare nel suono, in una ricerca di pace, della madre, della carezza dei raggi della luna:

“Ariel: Dalle eterne guerre io fuggo / Io sono l’eterno soldato… / Infinite volte ho ucciso, infinite volte mi hanno ucciso… /Tutte le guerre ho combattuto, / Da tutte le guerre sono fuggito / Tutte le guerre il mio cuore ha provocato… / col sangue dei soldati dipingono i tramonti / al tramonto, partono gli eserciti.

Poeta: Mamma, aiu site 

Ariel: Mamma mamma / oh ma' / Dammi un bicchiere d'acqua ma' / tengo tanta sete ma' / Scirocco e sabbia m'hanno asciugato le carni ma' / i tant'orrore non può essere degna la vita. / il mio ultimo saluto ti porto in dono ma / Ciao ma' / M'hanno ferito a morte”.

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Figurine sono i personaggi, di uno spettacolo difficile da raccontare perché costituito di vortici di sensazioni. Un baluginare, un cantico che continua a rutilare nella memoria come suggestioni, come vuoti, come associazioni, come processione di figurine evocate nel sogno terminale del poeta, che rivive figure dell’altro poeta, l’autore: un Prospero accantonato e splendente nel suo sottrarsi, nel suo stare offeso. Melino Imparato, attore feticcio di Scaldati, è quel Prospero, quello sciancato poeta. Al suo fianco troviamo il divertente, tenero Ariel di Manuela Ventura, la Luna di Rita Abela, e altri personaggi delle due costellazioni incrociate, quella del Bardo e quella del poeta palermitano, Lucio, Miranda, Calibano, Masino, affidati a Daniele Savarino, Naike Anna Silippo, Giuseppe Innocente, tutti calati in questo viaggio onirico.

Lo spettacolo è stato presentato al Metastasio di Prato e al momento prevede solo alcune repliche presso i coproduttori di Armunia, per il festival estivo di Castiglioncello. È un peccato che non sia prevista una tournée, vista la grana poetica che ha, e visto che il teatro italiano sta cercando di riscoprire Scaldati, per esempio con la ciclopica e meritoria opera di pubblicare tutto il suo teatro, intrapresa dall’editore Marsilio, con la cura di Valentina Valentini e Viviana Raciti, con vari volumi già in libreria e otto in totale previsti. Libri corposissimi, visto che i testi di Scaldati sono in versi che spesso invadono la pagina con poche parole ben distanziate, con grafismi, frasi o lemmi tutti in maiuscolo, spazializzando i voli e gli spasimi. Un’opera assolutamente necessaria e sempre ‘parziale’, perché si districa tra opere riscritte molte volte, in un immenso work in progress mai terminato.

Questo spettacolo meriterebbe di girare. Anche perché testimonia, con altri titoli, una stagione coraggiosa, quella del Metastasio diretto da Massimiliano Civica, che punta sulla qualità, sul rigore e sull’importanza delle proposte, prima ancora di definire la sicurezza di ulteriori ‘piazze’ o di scambi. È un metodo di lavorare quello pratese che privilegia le idee, l’ascolto dei progetti degli artisti, le creazioni, rispetto agli usi medi, in genere avvilenti, del teatro italiano, intento a ‘operazioni’ di piccolo cabotaggio o di sudditanza a dettami di mode che cercano il facile consenso senza curarsi di coltivare i cuori con semi capaci di far germogliare bellezza dall’inquietudine. 

Le fotografie che accompagnano il testo sono di Augusto Biagini; l’ultima è di Alessandro D’Amico.

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