Siamo troppi o troppo pochi?

30 Maggio 2023

11 aprile 2023, Roma, dagli Stati Generali della Natalità arriva un grido preoccupato: l’Italia sta entrando in un inverno demografico. Quasi scontato il rimando a “l’inverno sta arrivando”, la frase resa iconica dalla fortunata serie Un trono di spade tratta, ormai immediatamente portatrice di un senso di sventura incombente e inevitabile. L’inverno che si prospetta è caratterizzato da un pesante calo demografico, dovuto principalmente alla denatalità, alle cosiddette culle vuote, che sembrano preoccupare tutte le forze politiche. Le letture e le possibili risposte si concentrano su temi economici: meno nascite uguale a meno lavoratori, meno servizi, meno ricchezza. Persino meno campioni sui campi di calcio, come sottolineato dal Presidente della Fondazione per la Natalità, Gigi De Palo: “Da un paio di anni il commissario tecnico della nazionale italiana, Roberto Mancini, lamenta il fatto che in Italia ci sono pochi attaccanti. È così: se nascono meno bambini diminuisce la possibilità di scelta”. 

Ci si può domandare se davvero le questioni demografiche – vale a dire quelle che pertengono ai meccanismi di crescita e decrescita della popolazione – possano trovare efficaci soluzioni in una prospettiva economica e al contempo nazionale, che rischia sovente di scivolare verso l’essere nazionalista. Il 6 dicembre 2022 The Economist pubblicava una lista di libri da leggere per “comprendere perché i cambiamenti demografici sono importanti”. Significativamente l’articolo si apriva con la notazione “gli economisti sembrano essere ovunque, i demografi niente affatto”! Pochi anni prima, Massimo Livi Bacci pure aveva sottolineato che a fronte di un “pianeta che si è ristretto […] la questione popolazione sembra […] scivolare silenziosamente fuori dall’agenda internazionale” (Il pianeta stretto, Bologna, il Mulino, 2015).

Se è infatti vero che nelle fasi post Covid-19 sembra esserci stata una riscoperta della popolazione (e soprattutto della sua decrescita in Occidente), non altrettanto si può dire per la demografia come scienza. Il rischio, però, è quello di dare risposte parziali, se non superficiali, a problemi complessi che non conoscono confini. La popolazione è, per sua stessa definizione, un oggetto globale con una storia millenaria. È fatta di esseri umani, mossi dunque da molteplici ragioni. Difficile, pertanto, appare parlare di trends italiani senza tenere conto di cosa accade a livello mondiale, con una popolazione che ha toccato gli 8 miliardi (nel 1900 eravamo 1.6 miliardi, nel 1800 non si arrivava nemmeno a un miliardo). Così come poco produttivo è cercare spiegazioni esclusivamente economiche.

Oggi il tema della popolazione compare a singhiozzo, schiacciato tra de- e sovra-popolamento. La questione che attanaglia è: siamo troppi (per conservare l’ambiente) o troppo pochi (per pagare le pensioni)? Invece di sclerotizzare il dibattito e di appiattirlo sull’hic et nunc, varrebbe forse la pena riscoprirne anche le radici storiche. Quella di “quanti dovremmo essere” è una questione che ci si pone da quasi cinque secoli, da quando pensatori come Giovanni Botero iniziarono a sostenere che una popolazione numerosa era il fondamento della potenza dello stato (Della ragion di stato, 1589). Di lì a poco, lo scozzese Andrew Fletcher (1653-1712) imputò alla scarsa densità demografica il declino dell’impero spagnolo, mentre l’inglese Thomas Mun (1571-1641), figura chiave per lo sviluppo della East India Company, ascriveva alla numerosità di popolazione il successo della concorrente Olanda. 

Nasceva in quegli anni l’equivalenza tra crescita demografica e progresso: tanti più sudditi, quanta più potenza e ricchezza. Nel 2023 è proprio questa equivalenza che si rispolvera quando, come De Polo, si esclama: “L'Italia, oggi stabilmente all'ottavo posto come potenza economica del mondo, se non inverte la rotta tra una ventina d'anni crollerà al 25º posto. Natalità ed economia sono strettamente collegate". In mezzo, tra i mercantilisti del Cinque-Seicento e i popolazionisti contemporanei, ci sono decine di modelli interpretativi che si sono domandati quale sia l’uovo e quale sia la gallina tra crescita demografica ed economica. Nell’Ottocento Trieste, la cui popolazione era cresciuta in nemmeno un secolo da 5.000 a 30.000 abitanti, era salutata come emblema del progresso, mentre Venezia, passata tra XVIII e XIX secolo da 200.000 a 90.000, era l’immagine della decadenza.

Una risposta unanime alla relazione popolazione/progresso non è stata trovata, nonostante l’impegno di più un premio Nobel. Simon Kuznets, ad esempio, aveva proposto un argomento simile a quello azzardato da De Polo sui calciatori: se consideriamo che il progresso è sorretto dall’innovazione e che gli innovatori si contano in proporzione alla popolazione totale, più questa sarà numerosa, più scoperte e migliorie ci saranno. 

Peraltro, fino all’altro ieri, nel dibattito pubblico attuale di popolazione si parlava quasi solo in termini di sovrappopolamento. Nell’estate 2021 il principe Harry e sua moglie Meghan erano stati persino premiati dalla ONG Population Matters (patrocinata da David Attenborough) per la loro scelta sostenibile di avere solo due figli. E non è una novità. Infatti, da tempo popolazione e ambiente sono stati visti come antitetici, in una sorta di moderna riscoperta delle visioni malthusiane che coniugano finitezza delle risorse e infinita capacità umana di riprodursi. Già nei primi anni Cinquanta Bertrand Russell aveva denunciato a più riprese i pericoli dell’overpopulation: “la popolazione umana del nostro pianeta può aumentare al punto in cui sarà possibile solo un’esistenza affamata e miserabile” (Population Pressure and War, 1957).

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Di lì a poco, nel 1974, la World Population Conference di Bucarest pure si sarebbe concentrata sul trovare misure per porre un freno alla (pericolosa) crescita demografica. Così come nel programma della COP25 tenutasi a Madrid nel 2020 sarebbe tornato il tema del sovrappopolamento come fattore aggravante per la crisi climatica; tema però marginalizzato nella successiva COP26 e del tutto ridimensionato nella COP27, dove si è preferito mettere l’accento sull’overconsumerism. Non troppi esseri umani, dunque, ma troppo consumo. 

Un’affascinante e persuasiva chiave di lettura contemporanea, capace di riscoprire gli strumenti della demografia in dialogo con quelli dell’economia, della storia e della politologia, si trova nel recente volume di Andrea Graziosi (Occidenti e modernità. Vedere un mondo nuovo, Bologna, il Mulino, 2023). Graziosi non nega il profilarsi di una possibile crisi di popolazione nei paesi occidentali, ma sottolinea come l’elemento di maggior preoccupazione sia non la denatalità in sé e per sé, quanto il profilarsi di una società in cui il rapporto tra generazioni giovani e mature è fortemente sbilanciato verso queste ultime, con intuibili impatti negativi sui sistemi di welfare. L’autore sottolinea a più riprese la globalità della questione demografica: in tutto il mondo, seppure a velocità variabili, si assiste ad una riduzione della natalità. 

È il meccanismo della transizione demografica, una vera e propria rivoluzione che a partire dal tardo XVIII secolo ha condotto la popolazione “verso l’ordine e l’efficienza”, come si può trovare ben spiegato sempre da Livi Bacci in Storia minima della popolazione del mondo (Bologna, il Mulino, 2016). Prima la crescita demografica era contenuta e avveniva a costo di un forte dispendio di energie, a causa dell’elevata mortalità, in particolare infantile. Nell’Europa del secondo Settecento, un generale miglioramento delle condizioni di vita, unito all’invenzione della sanità pubblica e all’applicazione di basilari norme di igiene, portò ad una netta diminuzione della mortalità con conseguente boom demografico.

In quegli stessi anni, Thomas Robert Malthus (1766-1834) sviluppava le sue teorie sui pericoli della sovra-natalità, proponendo come unico argine a scenari catastrofici la proibizione del matrimonio, soprattutto ai “poveri”, a quanti cioè sarebbero stati più esposti a “morte prematura” a causa di “epidemie e carestie” (Saggio sul principio della popolazione - I. ed. Londra, 1798). Quello che Malthus non aveva previsto era che presto la transizione demografica sarebbe entrata in una seconda fase, caratterizzata da una naturale e non traumatica riduzione della natalità che, tuttavia procedendo in parallelo con una decrescita ancora più decisa della mortalità, avrebbe comunque garantito un costante aumento della popolazione, portandoci in breve tempo ai miliardi odierni.

In particolare, quello che Malthus non aveva immaginato era la scelta e soprattutto la progressiva liberazione della componente femminile della popolazione, messa finalmente nella condizione di decidere se avere figli o meno, attraverso la diffusione di meccanismi contraccettivi sempre più efficaci e accessibili. La transizione demografica non si spiega con i soli fattori economici e materiali, ma piuttosto con quelli culturali, piscologici, intellettuali, insomma immateriali: non deve perciò sorprendere che sia iniziata prima nella laica e rivoluzionaria Francia che non nella ricca e industrializzata Inghilterra. Con tempi diversi, tra il Settecento ed oggi, tutto il mondo è entrato nella transizione demografica. Anzi, oggi in alcune aree del pianeta questa fase sembra essersi esaurita e si aprono nuovi scenari, per i quali ancora non esiste un modello descrittivo e predittivo.

Scelta e mentalità sembrano ancora concetti utili, come colto dallo stesso Graziosi che lega la denatalità non a una reale crisi economica, ma ad una diffusa percezione di declino che spinge le coppie alla rinuncia alla genitorialità. Un fatto più culturale che economico, destinato ad estendersi al di fuori dell’Occidente, con un decremento demografico mondiale nei prossimi decenni. Se dunque un’apocalittica e calda estate demografica di sovrappopolamento sembra essere uno scenario improbabile, resta la preoccupazione per l’inverno. 

C’è però un’ulteriore nota positiva illustrata da Graziosi: se si guarda alla popolazione, si vede con evidenza come la contrapposizione the West and the Rest non esista. Esiste certo un problema di riduzione e soprattutto di invecchiamento di alcune popolazioni, ma ci sono al contempo altre popolazioni in piena transizione demografica e pertanto ancora in crescita. Anche qui i paradigmi storici di lungo periodo possono offrire spunti di riflessione. Quella della popolazione è una storia che si dipana nei millenni, che tocca l’origine stessa dell’umanità. Non ci si può limitare all’oggi. Come si è espanso l’Homo sapiens dall’Africa al mondo? Come si è diffusa la conoscenza dell’agricoltura, che ha determinato la rivoluzione neolitica a quindi il primo significativo incremento demografico? 

A questi interrogativi ha risposto in modo originale e convincente Luigi Luca Cavalli Sforza (1922-2018), sottolineando il ruolo fondamentale della mobilità e della comunicazione nell’evoluzione umana: insomma siamo sopravvissuti perché abbiamo imparato a migrare e a condividere conoscenze. In lavori come Geni, popoli, lingue (Milano, Adelphi, 1996), attraversati da una non comune passione civile, Cavalli Sforza mirava non solo ad un avanzamento delle conoscenze sulla storia della popolazione, ma anche a dimostrare l’infondatezza del razzismo, dal momento che apparteniamo tutti ad un’unica e sola razza: quella umana.

Una lezione, questa, da non dimenticare e che invita a non trascurare la profondità storica delle questioni demografiche. Riscoprire per davvero la demografia significa tralasciare polarizzazioni e semplificazioni schematiche (come quelle tra molti e pochi o tra noi e loro) e ricordare che, se si vogliono evitare inverni troppo rigidi, più che focalizzarsi su singoli paesi, sarebbe opportuno pensare a come bilanciare in modo cooperativo popolazione e risorse (non solo economiche, ma anche umane, culturali, ambientali) a livello mondiale.

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