Sieni/Saramago: Cecità come un bagliore

24 Novembre 2023

“Niente, è come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte”. Nelle prime pagine di Cecità, il protagonista senza nome del romanzo di José Saramago così descrive l’improvvisa patologia che lo ha colpito: nulla a che vedere con una tenebra fulminea o una lunga eclissi, quanto con un’immersione in un oceano di luce. Ad accogliere il pubblico del Teatro Astra di Torino, per il debutto nazionale della creazione di Virgilio Sieni ispirata all’opera dello scrittore premio Nobel, è così un velatino opalescente, posto sul proscenio per interrompere qualsiasi nitida, diretta visione del palco. Prima ancora del buio in sala, la memoria si inabissa verso altre creazioni del coreografo fiorentino, altre tappe di un percorso che della sfocatura della visione ha spesso fatto una cifra fondante: ecco il riverbero del viaggio compiuto da Claude Lévi-Strauss in Tristi Tropici, del 2010; ecco Chukrum, del 2018, agito sull’enigmatica musica di Giacinto Scelsi; ecco posture soltanto intuite, movenze che danzatrici e danzatori hanno eseguito lasciando alle ombre il compito di raccontare l’essenza del gesto. Oggi Cecità offre a Sieni una nuova occasione per indagare le possibilità, e i limiti, della nostra esperienza percettiva: eppure, la prima sezione di questo lavoro – coproduzione tra TPE Fondazione Teatro Piemonte Europa, Fondazione Teatro Metastasio di Prato e Compagnia Virgilio Sieni – sembra costituire un’acme più che una semplice tappa, il coraggioso vertice di una ricerca che può ora toccare con esiti impressionanti il territorio dell’illusione, dell’immateriale. 

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Non è infatti un dono oscuro – prendendo in prestito il titolo di uno straordinario memoir di John M. Hull, resoconto in prima persona della progressiva perdita della vista da parte dell’autore ciò che Sieni ci consegna; il buio lascia il posto a cromatismi e squarci di luce, a sfocature e pure forme, alle tracce di una visione residuale che si stagliano al di sopra di un paesaggio sonoro creazione di Fabrizio Cammarata nel quale rumore bianco e interferenze si accostano a lacerti di melodia. In questa assenza di nitore, ciò a cui assistiamo è una lunga, eccezionale sfida alla spettatorialità: possiamo solo presagire quella realtà, quella vita, che sul palco si vanno dipanando. Masse colorate e linee, volumi organici o materici, emergono caliginosi in un vertiginoso esempio di teatro astratto; per un tempo dilatato che rifugge da qualsiasi facile riduzione di questo primo atto alla funzione di prologo – Cecità è un susseguirsi di figurazioni, di concrezioni bidimensionali tra le quali indoviniamo braccia, mani aperte a cercare un contatto tra i palmi e la superficie opaca, oppure rare conformazioni dialogiche, nelle quali le silhouette di due corpi si avvicinano in sincrono al velatino questa palpebra scenografica prima di scomparire nuovamente nello splendore del bianco. Ma le luci di Andrea Narese e dello stesso Sieni mutano presto temperatura: i blu trasformano quelle fugaci epifanie in spettri, l’oro in ipostasi del sacro, e i corpi sembrano duplicarsi, separarsi e ricongiungersi, annullando qualsiasi attribuzione di umanità o di un’umanità certa, definita, riconoscibile alle fisionomie che osserviamo con stupore. Eppure, un qualche lascito culturale, in questa danza precognitiva, emerge nella plasticità della merce, dell’oggetto, del simbolo di un capitalismo e di un consumismo vuoti di senso; le sagome di un paio di occhiali da sole, di una radio, di un trolley, finanche di un paio di forbici, si impongono improvvise come reperti di un’epoca dimenticata, annichiliti nella loro funzione e nelle pretese che incarnavano: la pervasività della comunicazione, l’arroganza del turista, la tecnologia. Ecco che quella città, quel mondo che Saramago tratteggiava nella violenza di un’epidemia, è nelle mani di Sieni il mero abbrivio immaginifico per una commossa elegia su un mondo annientato, sconfitto. Non c’è adesione narrativa, nella creazione coreografica, quanto una più profonda appropriazione di un intero scenario emotivo ed etico.

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Al sollevarsi del velatino, è su un paesaggio di macerie che si apre la scena: il bianco è adesso macchiato da oggetti, da brandelli di corpi, e dai superstiti di un’apocalisse ignota. Jari Boldrini, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Lisa Mariani, Andrea Palumbo, Emanuel Santos abitano la scena affaticati, raggelati. I loro passi si interrompono, le membra crollano a terra costringendoli a strisciare, le gambe tentano una verticalità la cui forza svanisce non appena espressa: come sopravvissuti, in un’atmosfera aurorale, i sei cercano di apprendere nuovamente regole di comportamento e prassi di vita. Sieni sembra sperimentare qui inedite soluzioni, proponendo una gestualità spossata, in cui gli inciampi dei corpi e lo sfaldarsi dei contatti, lo sfibrarsi delle frasi, sono latori di esperienze reali ben più che romanzesche: altre guerre, altri massacri, un altro dolore del mondo è quello che Cecità illumina, quello stesso dolore che Sieni aveva straordinariamente fronteggiato nelle sue indimenticabili Sonate Bach, e che i media esibiscono con quotidiana frequenza. E tuttavia, in questo territorio di orrore e ferocia la cui iconografia si ispira ai dipinti del belga Michaël Borremans, nei quali bambine e bambini sono preda di un furore cannibalico sembra possibile istituire alleanze e cooperazioni elementari; per prove ed errori by trial and error, ma non è forse così che ha avuto luogo il progresso? il gruppo tenta allora di esplorare quello spazio affidando alla voce, e a prossimità subitanee e indecise, il compito di tracciare rotte fisiche ed esistenziali. Si chiamano per nome, gli eccezionali performer: sussurrano “aiutatemi!”, o domandano “dove devo andare?”, mentre si avvicinano verso le quinte, quasi a cercare rifugio dalla troppa luce, e da lì delineano improvvise schiere, cercando di attraversare lo spazio coesi, in linee di fisicità agglutinatesi solo per brevi istanti. C’è forse ancora spazio per la meraviglia, in questo lucore di devastazione; c’è soprattutto la sorpresa di scoprirsi animati da un “mostruoso desiderio di non recuperare più la vista”, come una voce femminile bisbiglia in questo albeggiare di un mondo nuovo.

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Apparizioni ora animalesche, ora debitrici di una clownerie antica i costumi e gli elementi scenici sono firmati da Silvia Salvaggio iniziano ad abitare la scena: sono presenze perturbanti ma ciò nonostante quiete, anch’esse elementi caratteristici di una zoologia e di un’antropologia che Virgilio Sieni ha perfezionato negli anni. Ecco un pagliaccio candido e malinconico, quasi un protagonista di un quadro di Picasso; ecco un cervo, identico personaggio di un altro capolavoro del coreografo, La natura delle cose. Nessuna piana riproposizione di un lessico consueto, però, anima Cecità: come già per il diaframma posto sul proscenio, qui i lemmi di un coltissimo vocabolario, i tropi di una teoria della danza e dell’arte, appaiono risemantizzati. Ciò che Cecità suggerisce all’osservatore è di spaziare nei tempi e nei luoghi della produzione sienana, di osservarne il persistere delle immagini e di leggerne le traslazioni, i differimenti di senso, le relazioni carsiche. In Jolly Round is Hamlet, del 2001, un lunare arlecchino un “fool kubrickiano che flirta con la morte”, lo definì Andrea Nanni si muoveva per lo spazio scenico agitando una lunga pertica; oggi, in questo accecamento collettivo, in questo sconquasso che ha straziato i corpi fisici e sociali, il pierrot impugna un’asta microfonata: un radar inconsueto con il quale sondare i limiti del mondo, sbattendo sulle quinte che sole ci separano dal vuoto, e sperimentando attraverso i boati, gli scoppi sonori, i confini del nostro agire. Ma è forse proprio a La natura delle cose, la creazione del 2008 frutto della collaborazione con Giorgio Agamben, che Sieni sembra rivolgere lo sguardo, regalandoci a distanza di quindici anni un medesimo finale: un cervo antropomorfo posto sul proscenio, colto nell’assorta contemplazione di un panorama una platea colma di donne e uomini allora prefigurazione di un futuro possibile, e oggi simulacro di un disfacimento già in atto. Certo, proprio il gioco delle connessioni questa rete che Sieni stesso tesse tra i capitoli della sua immensa produzione, e di cui ci sprona a individuare i nodi principali racconta però anche la pervicace esistenza di una scuola, rivelando le eredità che generazioni di performer si sono silenziosamente consegnate, le une alle altre. Leone Barilli, il fool di Jolly Round is Hamlet, appare così traslucido nel corpo sognante di Maurizio Giunti; la sublime Ramona Caia, sul cui volto di cervo si chiudeva La natura delle cose, è adesso inscritta nell’efficace Jari Boldrini: e accanto a loro, altre danzatrici e altri danzatori continuano a preservare un alfabeto prezioso, a incarnare un universo linguistico tra i più raffinati. La sopravvivenza di questa bottega, nella quale si tramanda un’artigianalità della danza e dei suoi saperi, stempera forse l’amarezza del viaggio: quello che ci ha condotto dalla cosmologia di Lucrezio canto delle origini al romanzo di Saramago, epica del crollo. E la superba bellezza dell’immagine finale di Cecità un cervo e un pagliaccio, immobili, circondati da buste di plastica colorate come rovine di una civiltà perduta attenua forse il freddo di questa notte così luminosa, così atroce.

Le fotografie sono di Virgilio Sieni.

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