Solar Power: le fughe di Lorde

24 Agosto 2022

Solar Power, pubblicato nel 2021, è il titolo del terzo album di Lorde, nonché di uno dei brani più suggestivi della raccolta. Il video che lo pubblicizza mostra la cantautrice mentre sfila e danza su di una spiaggia assolata. Sono presenti delle altre persone, tutte giovanissime, e a mano a mano che il canto, la musica e le immagini procedono diviene chiaro che si sta svolgendo una sorta di rituale condiviso. Lorde prima sfiora, scambia sorrisi e cose con gli altri, e poi non solo si vedono delle danzatrici in riva al mare ma lei stessa inizia a partecipare all’evento. Un fotogramma non lascia dubbi sul fatto che si sia formato un gruppo: mentre la vista dell’orizzonte lontano fa da sfondo al quadro di festività marina, appare in preminenza una schiera di circa venti ragazze e ragazzi, con Lorde in prima linea, ipotetica leader di un “quinto stato” distinto dal terzo, borghese, così come dal quarto, operaio.

Le parole di Solar sono altrettanto eloquenti riguardo alla desiderata integrazione di paesaggio e persone. La cantante esprime la propria avversione per il freddo invernale e lo slancio per la calda stagione estiva che la invoglia a uscire e recarsi in spiaggia. Questa uscita all’aperto non è un gesto solitario. A seguirla c’è il suo ragazzo, mentre il canto e la musica fungono da invocazione affinché altri possano unirsi nell’avventura. Se segui la sua voce, cioè, ti ritroverai a compiere un salto dimensionale. Chi canta non esita a rivelare il proprio segreto: di essere nientemeno che un «Gesù più carino» (I will tell you my secret I am kind of like a prettier Jesus). C’è una sofferenza da dimenticare (forget all the tears you cried [..] it’s over) e un rinnovato stato d’animo da vivere e condividere.

Contrariamente alle star comunemente incensate dalle industrie dello spettacolo e dei saper-fare creativi, Lorde è tutt’altro che un recipiente speculare, un contenitore vuoto in cui vaste fasce di pubblico possono facilmente coidentificarsi proiettando in esso checchessia. La cantautrice si direbbe impegnata a elaborare dei significati affatto precisi: a voler dare voce a una collettività, seppur marginale e ristretta, seppur frutto della sua fantasia. La questione è quella di provare a capire di che si tratti; chi o cosa nomini con le sue canzoni, se e in che senso si può candidare Lorde a nome “collettivo” e intenderla come agente e insieme ricevente di una realtà corale?

“Lorde” è una sorta di nome d’arte, interpretabile come il femminile di Lord che in italiano traduce con Signore o anche con Dio, e in inglese è per giunta un titolo aristocratico. Questa sovranità trasversale è appunto rivendicata dalla cantautrice neozelandese di origine croata, al secolo Ella Marija Lani Yelich-O’ Connor. La rivendicazione, esplicita in Solar, ricorre anche in altri suoi brani. Perché se per un verso è indubbio che Lorde, esordiente nel 2012 all’età di sedici anni, sia riuscita a interpretare, in una musica stupefacentemente adulta, le immense solitudini degli adolescenti – gli entusiasmi e le delusioni dei primi amori, la depressione e le ansie legate alla crescita, allo scorrere del tempo e alle metamorfosi che di lì a breve avrebbero connotato una vita semmai immaginata diversamente – per un altro verso è evidente che alcuni dei contenuti cantati implicano una introspettività in cui il soggettivo si mescola con l’intersoggettivo e con l’esperienza di mutuale riconoscimento tipica del gruppo. In questi casi, all’intreccio di “io” e “noi” si accompagna il senso di uno stato di eccezione: una parzialità per nulla intimorita di scoprirsi minoritaria, anzi prontissima a difendere una propria dignità esistenziale e culturale.

Un esempio di una tale presa di posizione è il brano Royals (2013). Riesce a capovolgere il cosiddetto romanzo famigliare: l’autoinganno di molti adolescenti che immaginano di non essere figli dei propri genitori naturali bensì di qualche personaggio nobile e potente. La canzone allontana questa alienante fantasmagoria, ma ciononostante afferma il diritto di crearsi delle forme di vita alternativa. Pur ammettendo la precarietà del suo status sociale, la protagonista di Royals non prova invidia alcuna per il benessere materiale di coloro che sono nati in una famiglia abbiente. Anzi, a dispetto di quanti emulano le élite danarose e ambiscono al possesso di auto di lusso, di orologi rivestiti di diamanti e via dicendo, Lorde prende la parola, canta al plurale, incarnando un “noi” disinteressato ad accumulare ricchezze o a lasciarsi soggiogare dai suoi simboli. Invero, i protagonisti della canzone sono consapevoli che non saranno mai delle figure regali: non è nel loro DNA (And we’ll never be royals. It don’t run in our blood). Però si dichiarano noncuranti di questo supposto limite. Forti delle virtù inventive di cui dispongono, sono ben felici di guidare le cadillacs nei loro sogni (we don’t care we driving cadillacs in our dreams). Alla assuefazione ai falsi idoli del consumismo contrappongono la risolutezza a voler provare meraviglia arrischiandosi sulle ali della fantasia. E lo fanno senza disconoscere gli ostacoli che questo mondo pone a chi sogna ad occhi aperti.

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Dai toni meno cupi dei due precedenti (Pure Heroine [2013] e Melodrama [2017]), l’album Solar Power si allontana da entrambi anche perché l’artigianato prevale sulla produzione, l’acustico sull’elettronico, una canzone è cantata inframmezzando l’inglese con te reo Maori, la lingua indigena della Nuova Zelanda, e soprattutto in quanto i temi trattati riorientano e trasformano il desiderio di condivisione già avvertito in passato. Il mutamento ha però deluso alcuni dei fan, tanto che Lorde si è rivolta a loro in una lunga mail dichiarando di sentirsi «molto più connessa e viva nella mia pratica artistica e nella mia vita, rispetto a prima». E questo sentimento si abbina a un messaggio di speranza. Il nuovo album immagina una diversa vita in comune, un’esistenza che ricorda quella prefigurata negli anni Sessanta in seno alla controcultura dei “Figli dei fiori”.

Una delle canzoni, Fallen fruit, celebra il divenire delle generazioni, l’indissolubilità della catena dell’essere che ci legherebbe gli uni agli altri. Traspare con chiarezza che si è ormai nell’era dell’Antropocene e che la natura è stata sfruttata e distrutta dall'umanità, forse è troppo tardi per rimediare al danno. Implicita è la domanda se ci si possa affrancare da questo destino di morte. Lorde riconosce la smisuratezza dei sogni che si vorrebbe realizzare (we had no idea the dreams we had were far too big) ma esprime fiducia nella cooperazione tra gli esseri umani (we will walk together). Il (ri)cominciamento comporta un deliberato sottrarsi, l’abbandono di abitudini e di modelli di società alienanti l’umano dalla natura e dalla possibilità di una cultura multipolare, capace di tenere conto dell’unità e della molteplicità che caratterizzano i popoli della Terra. In questo esodo, porteranno con sé le grandi menti e i fumatori di vapers, nonché una manciata di semi (we’ll disappear in the cover of the rain. Took the great minds and the vapers. And a pocketful of seed. It’s time for us to leave).

Il brano Solar Power, e il video che lo illustra, aiutano a figurarsi vuoi alcuni dei tratti caratterizzanti i soggetti dell’esodo vuoi perché Lorde nominerebbe un’identità transindividuale. Nell’uscire dalla città, i “dipartiti” si ritrovano su di una spiaggia che non è il mero luogo della vacanza e della spensieratezza fini a se stesse. Il loro coinvolgimento danzante si rivela per una pratica di resistenza verso un potere che svalorizza le stesse dinamiche su cui in passato presumibilmente fondava la solidarietà sociale. Poiché adotta e adatta il corpo, lo anima rendendolo un linguaggio, la danza è presumibilmente una delle prime espressioni artistiche del genere umano. Non solo: già da tempi immemorabili conferisce all’arte la facoltà di creare delle verità e dei significati che sono esperibili e intelligibili in seno a una comunità. Con la musica e il canto, e in quanto iniziatrice della danza, Lorde dimostra le sue virtù di persona dotata di un rimarchevole saper-fare creativo ma diviene nel contempo il nome che al singolare denota un insieme di individui nonché un complesso di aspirazioni, comportamenti, ideali e idee.

Il tema del nome collettivo affiora più volte nella storia della cultura occidentale. Nell’Ottocento gioca un ruolo cruciale negli scritti di Thomas Carlyle e Ralph Waldo Emerson, i quali avevano in mente le grandi figure della storia, gli uomini (non le donne [sic!]) reputati “rappresentativi” di uno Zeitgeist (Dante, Shakespeare, Napoleone, Goethe, Federico II di Prussia, ecc.). Sul fronte logico-filosofico, è paradigmatico il Menone platonico. Sollecitato a definire la virtù, Menone risponde elencando varie virtù. Al che Socrate ribatte che ci si trova di fronte ad uno smenos o sciame – appunto un nome collettivo – e rilancia chiedendo che cosa rende “api” ciascuno degli elementi dell’insieme. Platone imposta in questo modo il problema della ricerca di una idea o forma in sé di cui sarebbero partecipi i vari elementi che il nome collettivo richiama al pensiero. La questione muta in quella di stabilire quel che nell’insieme permette ai molti di sussistere in quanto unità. C’è, tuttavia, un ulteriore dato da considerare. Nell’italiano corrente il nome che contiene i “molti” è impiegato di frequente al singolare, ma non mancano gli utilizzi al plurale. Degno di nota è il fatto, peraltro discusso anche da Jean-Luc Nancy in Essere singolare plurale (1996), che in latino singuli si dice sempre al plurale, poiché indicherebbe l’uno preso in un insieme. Se invece lo si aggettiva (singularis) indica ciò che è singolare (come in parole quali “bizzarro” e “curioso”) in quanto si diversifica da un insieme (anche in greco questa accezione è presente, poiché “altro” – eteron – è detto sempre in rapporto a qualcos’altro).

Il caso di Lorde stimola a riflettere su simili problematiche e sviluppare degli argomenti che in parte si discostano da quelli succitati. Per cominciare, la cantautrice è sì una figura “rappresentativa” ma la sua identità è solo sfumatamente storica, non di facile omologazione di classe, tantomeno di genere, e forse soltanto limitatamente generazionale e più propriamente intergenerazionale (lo lascia intendere Fallen Fruit). Quantunque primeggi nel suo repertorio, l’essere giovani è come se venisse trasfigurato in una condizione valevole adesso, allora e ancora; esso punta al senso di insoddisfazione, al bisogno di correggere se stessi e le imperfezioni del mondo in cui si nasce. È quest’ultima forse una delle ragioni per cui i suoi brani sono apprezzati non solo in più parti del pianeta, ma anche da un pubblico di adulti, nei quali non è venuto meno l’intendimento della gioventù come “valore” altamente antropologico. Altresì peculiare di Lorde è che la sua è una voce simultaneamente agente e ricevente di una realtà corale. Non si sa bene chi venga prima: la cantautrice o l’insieme di persone le cui attitudini, credenze e mobilitazioni, si direbbe influiscano vicendevolmente tra loro così come con la sua mente: plasmandosi, assimilandosi e orientandosi assieme. L’ipotesi di un siffatto amalgama spirituale non è arbitraria se si pensa che Lorde canta e si presenta quale interprete di un “vivere in comune” e che le sue canzoni spesso implicano la presenza di compagni e compagne di via. Infine, questa vita condivisa sembra percepirsi parte di altre forme di vita e non vita: il collettivo, cioè, coinvolge dall’esistenza umana ai corpi celesti, dal paesaggio della natura al sistema planetario.

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Con Lorde, la forma o idea platonica risulta verosimile a patto che si conceda che, eludendo la calcolabilità e le definizioni univoche, essa esista attraverso la musica e il canto: ovvero, l’essenza unificante traspare, origina o transita in un ambito “artistico”. Lorde ci ricorda così che le opere d’arte, tanto visive quanto letterarie, talvolta funzionano come dei nomi collettivi. Si pensi alla Comedia dantesca e alla Scuola di Atene di Raffaello, alla Ronda di notte di Rembrandt e Il Circolo Pickwick di Dickens, a L’Atelier di Courbet e I Fratelli Karamazov di Dostoevskij, all’Ulisse di Joyce e Guernica di Picasso. Ciascuna di esse non solo eccelle in quel che i retori antichi e gli autori rinascimentali chiamavano “composizione”, ma può aspirare all’universalità in quanto allenta, se non sopprime, i confini tra ontologico, linguistico, cognitivo, sociale, emotivo ed esperienziale. In Lorde la composizione è di tipo dinamico (piuttosto che stanziale come in quadri e sculture, o narrativa in rapporto a una struttura di eventi come in romanzi e novelle) e involve una durata, scandita da parole e musica, grazie alla quale l’uno e i molti si interpongono integrandosi. Viene in mente un esempio di coralità artistica addotto da Lev Tolstoj in un celebre saggio del 1897 dedicato alla natura dell’arte. Nel criticare l’accezione, a suo dire astrusa ed elitaria, che avrebbe avuto la meglio in epoca moderna a seguito del declino dell’arte religiosa, lo scrittore si schiera a favore di un’arte che definisce “popolare”. Per chiarire il punto, egli riporta un’esperienza personale. Un giorno, rincasando in uno stato d’animo alquanto dimesso, è colpito dal canto dei contadini, che celebra il ritorno di sua figlia venuta in visita dopo le nozze. La melodia contagia e rianima lo scrittore, come pure gli altri abitanti della casa. Si tratta di un’esperienza di autentica porosità affettiva e mentale: incorporea eppure astante, in quanto emersa dalla e nella combinazione di suoni e parole che danno il via a una comunione umana. L’episodio incoraggia Tolstoj a concepire l’arte quale possibilità dell’esistenza della specie, che in essa e con essa scopre come autodeterminarsi e incontrare il mondo, gli altri e la natura. L’aneddoto non elogia la caduta della barriera tra arte e non arte; al contrario, l’arte resta tale perché è il cominciamento, il canto, a interrompere la routine, ad arrestare il tempo e a suscitare con la sua qualità estasiante una inedita realtà significante.

Musica, parole e immagini di Solar Power glorificano appunto l’interruzione della routine, l’esodo e la sottrazione che favoriscono la capacità di inventare, di interpretare, di non attenersi a schemi fissi. Il gruppo si forma sia sfuggendo a una mera codifica tecnica del proprio operato sia attraverso rituali di universalità e riunione. Con il suo esplicito inno alla natura, al sole dispensatore di energia e vita, il brano contesta l’arbitraria distinzione tra il dominio naturale, oggettificato e diventato concettualmente noto grazie alle scienze, e quello supernaturale, ignoto ma reso parzialmente intuibile nell’esperienza del sacro e dal mito. Non è vero che le deità resistano alla percezione sensoriale in quanto aliene dal campo dell’immanenza. Anzi, le qualità spirituali e gli ideali etici, gli incantesimi e le formule della fisica, sono tanto dentro quanto fuori di noi.  

Ci si rende conto che le agentività creative avrebbero poca importanza – restando asservite a impulsi egotici – se non si ammettesse che, anche se non siamo noi i loro destinatari primari o privilegiati, il mondo e la natura comunque siano dei milieu di sensazioni e contenuti che stimolano e pongono richieste a un individuo. Oltre al grado di saper-fare di quest’ultimo, è la sua parte umana a intervenire interagendo, ridefinendosi e cooriginandosi con l’habitat attraverso la creazione di nuovi valori. Il che fa sì che il “vero” e la “verità”, non più i riflessi di idiosincratiche visioni soggettive, smettano anche di rappresentare delle nozioni disincantate ed esclusivamente oggettive come vorrebbe una mentalità moderna che ha equiparato la natura e il mondo a mere risorse, a cose da studiare e conquistare, al tempo stesso abusando della nozione di humanitas servendosene da alibi di supremazia etnocentrica. “Vero” e “verità” si rivelano invece qualità morali e personali, inalienabili dalle inclinazioni di una persona situata in un unicum che ingloba una moltitudine di agenti e riceventi di dinamiche di reciprocazione tra l’umano e la vita multicellulare. In particolare, dette qualità diventano vivibili in virtù di una codipendenza speciale, senza fondamenti, che si stabilisce tra i linguaggi artistici da una parte e l’insieme di corpo, mente e universo dall’altra.

Alle considerazioni finora ispirate da Solar Power si potrebbe obiettare che quella propagandata da Lorde è una dannosa evasione, che le “uscite dal mondo”, anche quando magistrali come quelle studiate in un libro omonimo (1992) di Elémire Zolla, rischiano di compromettere gli orientamenti “democratici” perseguiti nell’occidente. La fuga in spiaggia della cantautrice rimanda ai raduni hippy, nonché a miti e cerimoniali di altri tempi e/o culture. A noi vecchi europei può venire spontaneo di connetterla al culto del mediterraneo che, nella modernità, è stato fortemente sentito da una varietà di autori quali Nietzsche, Pound, Picasso, Camus e Evola. A quest’ultimo si deve, tra l’altro, una rivalutazione di Mitra, il dio indoiranico del sole adorato nelle religioni misteriche dal I secolo a.C. al V d.C. Secondo Evola, la vicenda del mitico uccisore del toro sarebbe emblematica del percorso iniziatico della coscienza verso la vita luminosa del Numen. E non è forse il raggiungimento di simile sintonia solare che Lorde auspica con il suo brano? Alcune teorie di Evola, la fede nella Tradizione e negli individui superiori che avversano il materialismo rimanendo connessi al mondo dell’invisibile, sono associabili all’immaginario fascista. E la rivolta pacifica perseguita da Lorde non consiste forse in un ripudio del moderno a favore di un esserci improntato verso dei valori “tradizionali”? E ancora. Proprio come Nietzsche aveva scorto nella vita mediterranea della civiltà greca un equilibrio tra uomo e natura, apollineo e dionisiaco, frantumatosi con la svolta epitomata da Socrate e dall’Atene del V secolo a. C, non è forse prioritario per Lorde concepire una musica e un pensiero che contempli un modo analogamente pre-socratico di abitare la Terra? Bisogna concludere da questi parallelismi che la poetica della cantautrice è una ingenua miscela di anacronismo, nostalgia e new age?

In effetti, simili domande sono malposte. Ci si ferma alle divergenze senza riconoscere che oggi si è in una situazione in cui sarebbe opportuno cogliere un senso di unità sotteso in una gamma di forze antagoniste tra loro che si sono affacciate nel corso dell’epoca moderna. Tra queste, i ferventi marxisti e gli apologeti della Tradizione, i seguaci del pensiero politico islamico e i militanti di una cattolicità essenziale, condividono, seppur inconsapevolmente, il bisogno di orientare e plasmare l’avventura umana sul pianeta senza adattarsi a una cultura simbolica dominante caratterizzata dall’incontrollata spinta alla modernizzazione e dalla sottomissione di ogni azione o discorso alla logica tecno-economica del profitto. 

E ci si chiede se, nell’era dell’Antropocene, un tale bisogno non rimanga comunque legittimo vuoi che si reputi la crisi climatica dipendente da sviste e responsabilità totalmente umane, vuoi che, proprio in ragione di detta crisi, si percepisca l’emergenza di una nuova temporalità del “pianeta” – geologica e plurimillenaria nel passato come nel futuro – corrispondente a un dominio indifferente a noi benché decisivo ai fini della nostra comparsa e sopravvivenza. La questione è complessa, da non potersi trattare qui. Tuttavia, appurato che si è aperto un divario tra la storia planetaria e quelle, rispettivamente, delle molteplici modalità di esistenza e della globalizzazione determinata dalle vicende degli imperi e del capitalismo, il sole di Solar Power è nondimeno l’emblema, fisico e metafisico, di un insieme in cui l’umano non è isolato o astratto bensì inestricabile da altri micro- e macrorganismi attinenti a questo come ad altri pianeti.

C’è quindi da essere grati a Lorde come cantautrice e come nome collettivo. Laddove da qualche tempo, in una varietà di pratiche creative, i giovani artisti abdicano ai diktat del marketing, appaiono in prevalenza concilianti verso lo status quo, emulano gli affaristi anziché coltivare la loro scomoda specificità, il suo caso sembrerebbe diverso. Lorde ispira a credere che continueranno a generarsi dei varchi aperti verso i possibili. Si tratta di nicchie, di retroterritori acentrati affioranti dentro e oltre la congerie di stimoli senza necessità che costituiscono il disordine stagnante da cui ci si vuole difendere. Infatti, la nascita di questi habitat autopoietici riflette la volontà di disintossicarsi dagli effetti di un principio di realtà il cui mantenimento ormai ha dei costi insostenibili: richiede una totale mutazione della natura in mercato nonché l’esproprio implacabile dei beni comuni: geologici, umani e culturali. Nel milieu di Solar Power, le verità della biosfera e della noosfera tendono ad armonizzarsi tra loro così da prevalere sulla massa di informazioni che proliferano nella infosfera e da eludere il controllo della tecnosfera. Non è una rinuncia, una ricaduta nella passività, bensì un tenersi fuori da tutto il resto: una strategia che si rivela indispensabile se si mira all’invenzione di realtà ad hoc. Più si compie un dignificarsi degli uni e dei molti ed essi maggiormente si allontaneranno dalla mera esistenza, muovendo verso una forma della vita umana e non umana che realizzi il desiderio di comunità senza basarsi sul facile consenso, tantomeno sull’uso e l’abuso di principi intesi a riscuotere il plauso generico degli altri. Con Solar Power, come già in numerosi dei suoi brani precedenti, benché in questi ultimi i contenuti e le aspirazioni espresse fossero di un genere diverso, Lorde è la portatrice di un messaggio tanto ovvio quanto complesso da vivere e testimoniare: il fatto, cioè, che essere nel mondo non equivale ad appartenere al mondo.

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