Das Leben nehmen / Thomas Macho. Togliersi la vita, prendersi la vita

21 Marzo 2018

Prendete il numero di persone rimaste uccise a causa di crimini violenti in un anno. Aggiungete il numero di morti per incidente. Aggiungete poi quello dei morti in guerra. Immaginate, per un attimo, questo numero. 

Ebbene, questo numero enorme di morti, secondo le statistiche dell’organizzazione mondiale della sanità, dal 2012 non raggiunge il numero di morti annuali causate da un altro motivo: se stessi. 

Già Albert Camus, in Il mito di Sisifo, aveva espresso in maniera concisa e radicale l’importanza concettuale centrale della domanda sul suicidio, lanciando un appello e una provocazione ai filosofi di professione – per lo più rimasto inascoltato nei circoli accademici ufficiali – a pensare più da vicino la morte, e in particolare la morte che si trova per propria mano.

Thomas Macho, intellettuale austriaco, filosofo e musicologo di formazione, attivo da più di trent’anni nel campo della storia della cultura e delle civilizzazioni, nel suo recente Das Leben nehmen. Suizid in der Moderne (Suhrkamp, 2017, 531 pagine) riprende la sfida di Camus, addirittura rilanciandola, in un libro che c’è da augurarsi trovi presto spazio in traduzione italiana. 

La sfida del pensatore austriaco, infatti, è non solo quella di pensare filosoficamente, concettualmente, il suicidio, ma quella di narrarlo, di analizzare le figurazioni che esso ha preso nella nostra e nelle altre culture, i modi in cui esso è stato trasmesso e trasfigurato dai media, dalle arti, dalle teorie, dalle religioni. 

 

Il tutto alla luce di una chiara convinzione di fondo: di suicidio è necessario parlare. Ed è necessario parlare con un lessico, con tutto un vocabolario, che non sia quello del riduzionismo patologizzante: “non tutti quelli che si tolgono la vita (die sich das Leben nehmen) sono malati o pazzi” (p. 12). 

In questa frase, che è posta nelle primissime pagine del testo, si colgono due degli aspetti fondamentali del libro di Macho, uno contenutistico e uno formale, che innerveranno tutto il lavoro: da un lato, a livello contenutistico, la volontà di strappare il suicidio al dibattito medico-psichiatrico (si potrebbe dire che proprio questo è l’obiettivo che il libro si ripropone), dall’altro la riflessione sui modi in cui il suicidio “si dice” (in primissima istanza a livello linguistico, ma pure, per traslazione, a livelo estetico: con quale mezzi le diverse culture hanno “detto”, portato a espressione, questo tema?). 

Già il semplice “dire” il suicidio, la mera espressione verbale dell’atto, infatti, è tutt’altro che semplice: ne è un esempio lampante l’espressione tedesca che abbiamo sopra riportato tra parentesi, sich das Leben nehmen. Questa è pure quella che, in una versione leggermente – ma in maniera decisiva – modificata dà il titolo al libro: “Das Leben nehmen”. La locuzione, letteralmente, significa “prendere la vita”: se si aggiunge la particella riflessiva “sich”, si ottiene l’espressione tedesca (o meglio, una delle diverse espressioni disponibili in tedesco) che indica il suicidio: letteralmente “prendersi la vita”. Quello che la lingua tedesca esprime con “prendersi la vita” è l’equivalente di ciò che la lingua italiana dice con il suo opposto speculare: “togliersi la vita”. 

 

L’atto di appropriazione assoluta espresso da questa locuzione, che fa del suicidio il mezzo tramite cui il soggetto prende pieno possesso della propria vita proprio nel momento in cui pone ad essa termine, sarebbe impensabile nell’immaginario concettuale italiano, intriso fin nelle sue basi linguistiche da un modo di interpretare il soggetto segnato dal cristianesimo cattolico: un modo di pensare il soggetto in cui esso non è padrone della propria vita, che è da considerare un dono del Signore, o meglio, un Suo prestito a tempo determinato. E, in quanto dono-prestito, non è possibile disporne a proprio piacimento, in quanto essa va restituita nel momento in cui ci viene richiesta, e non prima. 

 

Con questa riflessione siamo già nel vivo del primo capitolo del testo di Macho, che porta, indicativamente, il titolo di “A chi appartiene la mia vita?”. La domanda è tutt’altro che banale: dalla risposta è infatti possibile comprendere l’atteggiamento di una cultura nei confronti del suicidio. La tesi difesa da Macho è che l’individuo, inteso come soggetto autonomo, portatore indipendente di qualità, libero, autodeterminato, è solo un’invenzione recente, o meglio, un prodotto del processo di secolarizzazione della società occidentale (e occidentalizzata). A livello storico-culturale, per centinaia di anni, gli individui sono appartenuti alle orde, ai clan, alle famiglie, alle poleis e agli imperi di cui hanno fatto parte. In un certo qual modo (che normalmente tendiamo a rimuovere) gli individui ancora oggi non appartengono del tutto a se stessi: l’obbligatorietà di rispondere alla chiamata alle armi in caso di guerra, caratteristica distintiva delle costituzioni della maggior parte degli stati democratici contemporanei, è indice del fatto che, nel momento del bisogno, lo Stato può revocarci il diritto di autodeterminare il modo in cui condurre la nostra vita, o – meglio – che esso può decidere per noi come, dove, quando e perché dobbiamo morire.

 

 

A questa lunga storia del rapporto con se stessi, e al suo punto limite, vale a dire la possibilità di espropriarsi di se stessi, è dedicato il capitolo secondo del libro, che tratta il tema del suicidio nel mondo antico. Macho, in maniera convincente, pone un discrimine tra le culture che hanno accettato (e, in alcuni casi, perfino onorato) il suicidio e quelle che invece ne hanno fatto una macchia, una colpa. Se nel mondo greco-romano (con una serie di distinzioni filosofiche specifiche, che qui non è il caso di riportare) il suicidio veniva tollerato, e in qualche modo persino onorato (quando i valori socialmente considerati più importanti della vita individuale, come – ad esempio – l’onore, la famiglia, la sopravvivenza della res publica o della polis, la libertà, la salute fisica o il ruolo sociale venivano meno), con il Cristianesimo il suicidio diventa il peccato mortale: addirittura peccato mortale doppio, in quanto esso porta alla distruzione il corpo e alla dannazione l’anima. Se la storia del suicidio è la storia delle diverse concezioni che l’uomo ha sviluppato del rapporto a sé, allora assumono un ruolo centrale i metodi in cui questo rapporto a sé è stato concepito dalle diverse culture: i media che hanno “filtrato” questo rapporto a sé, le tecniche che il soggetto ha messo in atto per entrare in rapporto con se stesso. Queste “tecnologie del Sé”, così definite per la prima volta da Michel Foucault nell’ultima fase della sua produzione, giocano secondo Macho un ruolo decisivo nella costituzione del soggetto moderno, e – se è vera la frase di Walter Benjamin che funziona come motto del libro, secondo cui “Il suicidio sembra essere la quintessenza della modernità” – anche delle modalità suicidalistiche di rapporto con se stessi.

 

È quindi possibile comprendere il suicidio, secondo Macho, come dinamica che trova il suo culmine nella Modernità: questa sarebbe l’epoca in cui il soggetto assume i connotati che gli sono propri nel mondo attuale, e – in particolare – in cui le tecniche del Sé si popolarizzano, diventando appannaggio della gran parte della popolazione, e non solo di un’élite filosofico-intellettuale (come nell’Antichità analizzata da Foucault, ad esempio).

Il terzo e il quarto capitolo del libro, dedicati al cosiddetto “Effetto-Werther” e al suicidio nel periodo fin de siècle, parlano del contrappunto alla demonizzazione cristiana del suicidio: ossia della fascinazione per la morte scelta per propria mano. 

È proprio questo il senso dell’espressione “Effetto-Werther” (coniata in ambito sociologico solo nel XX secolo): dopo la pubblicazione del celebre romanzo di Goethe, in cui il protagonista si toglie la vita per amore, ci fu una serie di casi di suicidio che ripetevano esattamente le stesse modalità con cui il protagonista del romanzo si toglieva la vita, arrivando a imitarne i dettagli persino a livello estetico: vennero ritrovate morte persone che indossavano indumenti dello stesso colore di quelli indossati da Werther nel romanzo, o che – quasi come in una messa in scena teatrale – ne ripetevano la posizione. Ripercorrendo i dibattiti dell’epoca, ma sempre con un occhio al presente, Macho opera un’acuta decostruzione dell’immaginario e della metaforologia nascoste dietro all’idea che del suicidio sia pericoloso parlare, perché potrebbe portare a dinamiche imitative. Dietro quest’idea vi è lo spettro dell’epidemia, dell’impossibilità di controllare gli effetti “infettivi” che i media hanno sul comportamento degli individui.

 

Ma è sempre la domanda “A chi appartiene la mia vita?” che traspare, fantasmaticamente, dietro all’angoscia che i media che parlano di suicidio possano influenzarne, e persino aumentarne, la diffusione. L’idea che ci sia una colpa dei media (all’epoca di Goethe i romanzi, oggi alcuni siti internet, ad esempio) dietro i suicidi coprirebbe una paura fondamentale: quella che gli individui che decidono di porre fine alla propria vita siano persone coscienti, libere, autonome, che hanno preso, certo, una decisione radicale, terribile, angosciosa e probabilmente incomprensibile (o ingiustificabile) per i più, ma che non è legata a nessuna patologia, a nessuna forzatura, o a nessun hocus pocus mediatico, a nessun virus suicidalista che le avrebbe “infettate”, ammaliate con l’idea morbosa della morte. Se è possibile accettare l’ipotesi (che comunque resta dal canto suo controversa anche nei dibattiti tra esperti del settore) che l’“Effetto-Werther” abbia influenzato le persone che si sono suicidate dopo la pubblicazione del romanzo, l’avrebbe fatto – questa è la tesi di Macho – solo in relazione ai modi in cui esse hanno messo in opera l’atto, ma non (o almeno, non principalmente) nella decisione di compierlo. Anche nel suicidio, come pure in molte delle dinamiche che segnano la quotidianità di ciascuno di noi, siamo animali sociali, che tendono a ripetere visioni estetiche e dinamiche comportamentali che caratterizzano i nostri gruppi di appartenenza: i media che utilizziamo segnano il nostro immaginario, i modi in cui viviamo la nostra vita, come ci vestiamo, cosa mangiamo, come e dove viviamo, e anche i modi in cui ci rappresentiamo – e quelli in cui mettiamo in atto – la nostra morte. 

 

Questi modi, sono sempre segnati, da un lato dal mondo culturale, sociale (Macho riprende e sviluppa l’idea durkheimiana secondo cui ogni morte individuale è sempre anche una morte sociale, nel duplice senso del termine: una morte della società nell’individuo e una morte per la società) ed estetico in cui il soggetto si trova, e dall’altro dalle tecniche del Sé che l’individuo in quella data società mette in atto.

Il ruolo del mondo sociale nelle dinamiche suicidalistiche appare chiaro nel capitolo 5 del libro, dedicato al “Suicidio nelle scuole”, che forse è uno dei più riusciti del testo. Qui Macho, sull’esempio tedesco, ma ampliando gradualmente lo spettro di analisi al quadro europeo, ripercorre a livello storico le tappe delle riforme scolastiche, la storia dei metodi pedagogici, e il parallelismo tra metodi di educazione scolastica e metodi di addestramento militare che segnarono le generazioni a cavallo tra la seconda metà dell’800 e i primi trent’anni del ‘900. Il quadro che ne fuoriesce è al contempo terribile e coerente: metodi di educazione e metodi di addestramento militare, nella loro brutale ed evidente specularità, formarono in Europa generazioni di individui duplicemente segnati dal dramma e dal trauma della brutalità dell’ordinamento disciplinare che era (e forse è ancora, pur in una misura attenuata) alla base degli Stati Nazionali moderni.

 

Come controeffetto di questo progressivo disciplinamento della gioventù, di cui Macho riporta, tramite l’analisi di documenti dell’epoca, la violenza e il sostrato ideologico, vi fu un aumento vertiginoso dei suicidi tra giovani e giovanissimi, che si toglievano la vita per l’angoscia delle punizioni corporali, a causa delle umiliazioni verbali e psicologiche, o per sfuggire alle maglie soffocanti di una società che vedeva nella gioventù, certo, una risorsa, ma una risorsa come per noi lo è il petrolio: qualcosa di utile, persino indispensabile, ma che è indispensabile in virtù della sua spendibilità, e non come valore in sé. Quella società manderà al macello nelle trincee della Prima Guerra Mondiale queste generazioni ortopedizzate disciplinarmente come fanteria: termine che nasconde in parte la sua rivelativa origine etimologica, vale a dire in-fanteria, gruppo di in-fanti. Da logico complemento a queste analisi fa il capitolo successivo, dedicato al rapporto tra guerra, ideologia e suicidio, con particolare attenzione alla Seconda Guerra Mondiale. Qui Macho dimostra con acutezza come, in particolare nel periodo nazista, il suicidio sia stato differentemente strumentalizzato e medicalizzato, al fine di difendere posizioni politico-ideologiche anche molto diverse. Di volta in volta esso, infatti, venne considerato un sintomo di debolezza della razza e di degenerazione collettiva e/o inividuale, oppure, al contrario, come segno di una superiore coscienza collettiva e individuale, che si esplicitava nel sacrificio di sé ai fini della conservazione o purificazione della razza. Il capitolo settimo, dedicato al rapporto tra filosofia e suicidio, occupa una posizione centrale nel testo: qui vengono, infatti, esplicitati alcuni dei nodi che fino a questo punto erano stati di volta in volta teorizzati in relazione a contesti storico-sociali puntuali, ma mai enucleati nel loro potenziale teorico autonomo. Di particolare rilevanza, per comprendere questo capitolo e in generale il libro di Macho, è il concetto di “Subjektspaltung” (“divisione del soggetto”).

 

Secondo l’autore, infatti, nelle dinamiche suicidalistiche diverrebbe chiara una dinamica di frattura della soggettività (che bisogna fare attenzione, però, a non ricondurre a una figurazione psichica schizofrenica in senso patologico): ogni volta che cerchiamo di “vedere”, di rappresentarci la nostra morte, rimaniamo esterni ad essa, come se ne fossimo spettatori. Questa frattura della soggettività è quella che rende pure possibile “parlare” della (ma, più in generale, “rappresentare” e rappresentarsi la) propria morte. Laddove la frattura della soggettività, con la sua possibilità rappresentativa, viene meno, o giunge a una composizione, sembra dirci Macho, il soggetto si spegne nel silenzio della morte, come nel toccante caso del filosofo tedesco Philipp Mainländer – autore caro anche Borges –, che, una volta concluso il suo opus magnum Philosophie der Erlösung (Filosofia della redenzione), all’arrivo delle copie fresche di stampa, finite quindi le possibilità di auto-rappresentazione, si diede la morte. Il capitolo 8 del testo devia leggermente dal tema del suicidio inteso in senso stretto per analizzare la fascinazione dell’epoca atomica per quelle bombe che – in senso lato – avrebbero potuto costituire il mezzo per un suicidio dell’umanità tutta: un “omnicidio” globale, che avrebbe potuto (e ancora potrebbe) annullare la differenza tra omicidio e suicidio, e con essa anche la vita umana sul pianeta. I due capitoli successivi del testo prendono in considerazione due diverse declinazioni del suicidio che, pur nella loro estrema distanza, possono essere accomunate dall’etichetta di “suicidi politici”: da un lato i suicidi di protesta, dall’altro i suicidi-omicidi dei terroristi.

 

Nel primo dei due capitoli vengono prese in esame figure come, ad esempio, quella del leader politico dell’IRA Bobby Sands, che intraprese nel 1981 uno sciopero della fame (che lo condurrà dopo 66 giorni alla morte) per protestare contro il governo Thatcher al fine di ottenere il riconoscimento dello statuto di prigioniero politico ai militanti dell’IRA detenuti; o quella del monaco buddista vietnamita Thic Quang Duc, che nel 1963 si diede fuoco per protestare contro la repressione religiosa attuata nel paese. L’accento delle analisi di Macho è posto sul carattere “collettivo” di queste forme politiche di suicidio: figure come Bobby Sands, le suffraggette, il monaco Thing Quang Duc, erano convinti che tra vivi e morti vi fosse una continuità, che essi formassero una comunità: “ciò che ci separa, ci unisce”, ha recentemente riassunto in maniera incisiva in una radiointervista Macho, riferendosi alla morte.

 

Più delicato è il discorso che riguarda gli omicidi-suicidi terroristici analizzati dall’autore. Di questi, innazitutto, viene analizzata la storia culturale, che risale agli attentatori anarchici russi di fine Ottocento, e passa per il terrorismo stragista degli anni ’70, fino ad arrivare all’11 Settembre e agli attentati di Charlie Ebdo. In seconda battuta al centro delle analisi di Macho sta la dimensione mediatica che innerva il moderno terrorismo suicidalista, ad esempio quello di marca jihadista: senza i moderni mezzi di diffusione delle immagini esso non sarebbe possibile, così come esso non sarebbe possible senza l’immediata visibilità che i nuovi media assicurano ai neo-martiri. L’ipotesi, che Macho mutua dallo scrittore e saggista Navid Kermani, è che sia l’unione tra questa immediata visibilità e la volontà di raggiungere una immediata notorietà la miccia d’innesco di queste dinamiche terroristiche di suicidio: a differenza delle forme politiche di suicidio analizzate nel capitolo precedente, che miravano alla creazione di una comunità e di una continuità tramite il sacrificio individuale, gli omicidi-suicidi dei terroristi islamici srebbero da ricondurre a delle dinamiche nichiliste, mirate al subitaneo ed estemporaneo raggiungimento di una fama postuma immediatamente amplificata dai moderni media.

I capitoli 11 e 12 del testo sono dedicati, rispettivamente, alle rappresentazioni artistiche del suicidio e ai luoghi del suicidio.

 

Qui è particolarmente evidente la cifra stilistica costitutiva del lavoro da storico della cultura di Macho. L’attenzione per le narrazioni, per i modi di rappresentazione e per la materialità dei media sono al centro della struttura argomentativa. In particolare nel capitolo dedicato alle figurazioni del suicidio nell’arte, l’attenzione torna a focalizzarsi su quella dinamica di frattura, di spaccatura del soggetto che rende possibile la rappresentazione: ed è proprio la dinamica della rappresentazione che fornisce una risposta interessante, una delle poche fornite da Macho nel suo grande affresco storico-concettuale (che in questo senso resta fedele all’idea che una storia della cultura debba mostrare, ricostruire e spiegare, senza dover essere necessariamente normativa), relativa ai motivi della fascinazione per il suicidio: mettere fine alla propria vita signfica, in qualche modo, rifiutare il fatto che la morte interrompa le nostre vite, le nostre aspettative e i nostri progetti in maniera abrupta, improvvisa, sopraggiungendo nel momento in cui meno ce lo si aspetta. Se la morte è interruzione e inappropriabile fatalità, la morte per scelta volontaria diventa allora un modo per appropriarsi dell’evento inappropriabile per eccellenza. In questo senso è possibile sostenere che il suicidio, in senso foucaultiano, possa essere una tecnologia del Sé, parte – persino – di un’estetica dell’esistenza.

L’ultimo capitolo del libro tratta del delicato problema del suicidio assistito ed è sicuramente la parte del libro più densa dal punto di vista filosofico: la domanda da cui parte lo studioso austriaco è quella relativa al suicidio degli anziani, o di chi è in condizioni fisiche tali da non poter più essere autosufficiente. La questione viene mostrata, in tutte le sue ambiguità, da molteplici punti di vista: da quello storico fino a quello eminentemente filosofico. Vengono presentate diverse prospettive, sia legate a personaggi reali, che prodotte in narrazioni finzionali (romanzi, film, opere artistiche). 

La questione che fa da Leitmotiv al capitolo è la seguente: “chi è che decide, o che può/deve decidere, sulla mia vita e sulla mia morte?” 

 

Macho, come è ovvio, non può (né vuole) proporre nessuna risposta: la risposta non è mai universale, né universalizzabile, soprattutto di fronte alle molteplicità delle contingenze possibili. 

L’opzione che però viene proposta, e che è sicuramente l’obiettivo più interessante che il libro si propone di conseguire, è di contribuire al dibattito sul suicidio nella direzione di una depatologizzazione. Non sono, in questo contesto, possibili risposte univoche e universali. Sono però necessarie le domande, che sempre, di nuovo, senza pregiudizio né paura vanno poste, e che riguardano la questione fondamentale su cui il libro si apre e – idealmente – si chiude: “A chi appartiene la mia vita”?

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