Valeria Parrella, La Fortuna

19 Giugno 2022

«L’idea che ci facciamo del mondo è il mondo finché non ci diranno, no ce n’è un’altra porzione, no ci sono altre leggi, no non ci vedi bene – oppure non te lo diranno mai e allora ti crederai quel mondo finché non arriverà il sicario a rimetterti al tuo posto».

Qualche anno fa il poeta napoletano Vincenzo Frungillo, in una poesia scriveva: «Anche qui ci tocca una visita / s’avanza con cautela, / ci si inoltra tra le navi in rimessa, / s’ascolta l’onda che ossida la chiglia, // la lenta semina sulla bitta. / Da qui Plinio vide la cima / del monte, i lapilli di lava e cenere / vide la fine degli eserciti […]»; i versi fanno parte di una poesia che ha per titolo, con altre due, Il porto di Baia (in Le pause della serie evolutiva, Oedipus). Versi bellissimi, pieni di visione, storia e immagini che mi tornano in mente ogni volta che passo da Miseno, da Cuma, da Pompei, versi che mi si sono ricomposti davanti agli occhi mentre leggevo il bellissimo nuovo romanzo di Valeria Parrella, La Fortuna (Feltrinelli, 2022). Per Plinio il vecchio, certo, per la visione del Vesuvio che erutta, per la lava che scese a distruggere e a fare nera e rossa ogni cosa, elementi che pure compaiono nel libro di Parrella, come vedremo, ma anche perché mi pare (e sempre mi è parso) che le cose si tengano, e allora, da qualche parte deve esistere dentro di noi un residuo del magma di quei giorni, di quella eruzione, così come apparteniamo al terremoto del 1980, a quel tremito. Un lapillo, una scossa che lega i versi di Frungillo, il romanzo di Parrella, me che leggo, tre nati dalle stesse parti, negli stessi anni. Parrella sa che incanto e distruzione non viaggiano troppo distanti, conosce la faccenda che lega memoria e storia alla visione del futuro, e il futuro è il tempo a venire, sta nel modo in cui sapremo portare il peso della cenere addosso, sta nello sguardo che sapremo lanciare al di là della polvere nera, verso il mare aperto, che aspetta di tornare azzurro, di essere solcato.

«Non c’è un’altra strada infatti per chi non appartiene del tutto al proprio mondo che tradirlo in qualche sua parte».

Il protagonista del romanzo di Parrella è Lucio, è un ragazzo, è nato mentre a Pompei si verificava il terremoto del 62 d.C., è nato in un tremito, è nato. Quel terremoto era forse un segnale, un avviso di quello che sarebbe avvenuto nel 79 d.C., l’eruzione del Vesuvio, la distruzione di Pompei, di Ercolano. La storia che ha immaginato Valeria Parrella si muove in quel periodo, ma non è una vicenda che racconta di morte e di distruzione, ma che dice d’amore, di visione, di futuro, perché nulla sparisce nemmeno sotto la lava e, in un orizzonte coperto di cenere, di polvere nera, qualcosa da vedere c’è, e quel qualcosa è il tempo a venire, i ragazzi lo sanno, lo vedono, lo immaginano. Lucio lo vedrà nonostante sia cieco da un occhio. La sua vista non buona, se così si può dire, è generatrice di sogno, di una prospettiva diversa, in fondo è un prodigio, perché quando Lucio si accorge, capisce quasi subito grazie al suo coraggio sfrontato e ai consigli dei saggi: «un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente», il limite è niente e il ragazzo non vuole limiti, vuole guidare una nave, vuole il mare, lo avrà. Lucio è nato in una famiglia ricca, è destinato al Senato, ma i suoi genitori non lo ostacolano mai davvero in quella rincorsa verso il mare, studierà con Quintiliano, converserà con Plinio il vecchio, suo mentore, l’uomo che non dorme mai, che vede oltre lo spazio concesso agli altri, un uomo dotato di acume e visione straordinaria. Lucio sarà amico di Plinio il giovane e anche da lui imparerà. 

Parrella

«Credo che l’amore sia questo: un inizio».

Mentre cresce, ama e vive, perde la testa per le ragazze, si innamora di un ragazzo – anche questo ci insegna il passato: l’amore sa tutto e non distingue – con la mente viaggia all’indietro e si rivede al mercato con sua mamma (per rango non tenuta ad andarci, per passione sì), balenano i tuffi, le corse a perdifiato, la folla d’anime variopinte e stravaganti che attraversano Pompei. Cresce.  Gli dei, la Fortuna, che aiuta chi le si affida, e la Fortuna che è il nome della nave. La fortuna che a quei tempi significa sorte e può essere buona e può essere cattiva, un’ambivalenza rintracciabile anche nel dialetto napoletano (come ha ricordato la stessa Parrella di recente). La nave finalmente guidata, la flotta che attraversa il mare durante l’eruzione ma nessuno sa cosa stia accadendo, il monte – così lo chiamano – non è ancora noto come vulcano, c’è solo il mare che non si vede, c’è la polvere nera, la cenere, la pelle che si scotta, i lapilli, c’è la morte non vista, c’è il desiderio di Lucio di capire, c’è quell’altro desiderio di non arretrare, di superare quel nero, di mettere il sogno e la vita davanti alle cose. C’è Plinio che scende dalla nave e dice al ragazzo di non preoccuparsi. Lucio è un personaggio straordinario che riconduce chi legge nel campo infinito delle possibilità, fino a diventare lui la nostra fortuna.

«Qualcosa di enorme stava accadendo e mi avvolgeva; io, o il mondo, tremavamo».

Valeria Parrella ha sempre orientato i suoi libri al futuro, mi pare ci sia sempre una visione prospettica che tende al possibile, al domani, accadeva già nei racconti strepitosi (ancora) di Mosca più balena, è accaduto in lo spazio bianco, è meravigliosamente accaduto in Alma Marina, accade oggi con La Fortuna. Qualunque sia l’origine del nostro passato occorre conoscerlo ma poi bisogna guardare più in là dei nostri occhi, come fa Lucio. Parrella ha scritto un romanzo molto bello, davvero riuscito, fatto di linguaggio che si rinnova, di ricerca storica, di inventiva. Un testo che arriva rapido come il fulmine ma che resta addosso come una figura di Lichtenberg. I personaggi avrebbero parlato in latino e l’italiano che Parrella adopera è di certo contemporaneo, ma attento a non servirsi di formule che non avrebbero potuto esistere, come il verbo orientare, o, l’altro, sfocare, ha raccontato la stessa autrice, non c’era la bussola, non c’era la fotografia, non c’erano molte cose. Lucio parla in prima persona (come le altre voci dei libri di Parrella), è un uomo giovane, una sfida per l’autrice, un tentativo riuscito insieme all’altro di andare a scavare così lontano nel tempo per mostrarci che le esperienze si somigliano, all’altro ancora che consiste nel raccontare l’eruzione dal mare, che nel tempo è stata narrata perlopiù vista da terra. 

Se un ragazzo può camminare sulla terra che ancora scotta di una Pompei distrutta, sgomento, prima di ogni altro sentimento possibile, possiamo farlo anche noi qualunque siano le nostre macerie, i nostri giardini, i nostri timori, gli incerti pericoli, e, sì, tutti quanti i nostri tremiti.

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